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Dott. Nicola Nacca

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È il capo ad essere cattivo o sono io che sbaglio qualcosa? Una riflessione per i giovani lavoratori

Una delle frasi che sento più spesso in studio è: “Il mio capo è tossico, non mi capisce, non sa gestire il team.”
Attenzione, non è sempre falso. I dati parlano chiaro: secondo il Workforce Institute, il manager ha un impatto sulla salute mentale dei dipendenti (69%) più di un medico (51%) e tanto quanto il partner (69%). Quindi sì, il capo conta. Ma davvero è sempre colpa sua?

Meno frequentemente, però, mi capita di sentire: “Forse io sto sbagliando qualcosa.” E non lo dico con tono accusatorio. Lo dico perché nel lavoro – come nelle relazioni – la dinamica è spesso bidirezionale.

Quando il manager è davvero un problema

Partiamo dal caso semplice. Se il tuo capo:

  • urla,

  • umilia,

  • ignora sistematicamente i tuoi bisogni professionali,

  • delega senza spiegare,

  • pretende risultati senza darti strumenti,

hai ragione a dire che non è un buon manager. Punto.
Ma attenzione: anche nei casi meno estremi, ci possono essere disfunzioni manageriali che creano un clima lavorativo faticoso. A volte sono manager troppo “buoni”, che non danno feedback o non pongono limiti, generando confusione. Altre volte sono ipercontrollanti, oppure evitanti.

Però… anche tu fai parte del sistema

Ciò che viene detto meno spesso è che anche i dipendenti influenzano il lavoro dei manager.
La relazione capo-collaboratore è, di fatto, una danza. E se uno dei due cambia ritmo, l’altro fatica a tenere il passo.

Per esempio:

  • Se non fai domande per paura di sembrare incompetente, il tuo capo non capisce che hai bisogno di più chiarezza.

  • Se non dai mai feedback, anche costruttivi, il tuo manager non saprà mai cosa funziona per te e cosa no.

  • Se aspetti che il tuo capo ti motivi ogni giorno, probabilmente stai aspettando troppo.

Un bravo leader dovrebbe vedere anche ciò che non gli viene detto. Ma è umano. E a volte è anche sotto pressione.

Il caso di Marco

Ti parlo di Marco, 34 anni, marketing manager in un’azienda di abbigliamento con circa 25 dipendenti.
Quando è arrivato in consulenza, era convinto che il team lo stesse boicottando.
Frasi tipo: “Non seguono le mie indicazioni, non rispettano le scadenze, e poi si lamentano che sono troppo pressante.”

L'azienda era cresciuta velocemente e Marco, da ex grafico interno, si era ritrovato a gestire un piccolo team. Nessuno gli aveva spiegato come farlo. Nessuno aveva fatto formazione. E il team… be’, il team si aspettava che lui sapesse già tutto.

Abbiamo lavorato insieme per analizzare la situazione.
Cosa è emerso?

  • Il team era spaventato. Molti erano più grandi di lui, lo percepivano “imposto” dalla proprietà e non si fidavano.

  • Marco, nel tentativo di farsi valere, era diventato iperpresente. Controllava ogni dettaglio, rivedeva ogni mail.

  • I collaboratori, frustrati, avevano smesso di proporre idee. E lui pensava che “non gli fregasse nulla”.

Nel giro di qualche settimana, abbiamo messo a fuoco due cose:

  1. Marco doveva imparare a comunicare meglio (più chiarezza, meno controllo).

  2. Il team doveva smettere di aspettare che lui fosse il “salvatore”.

Abbiamo fatto un lavoro anche con loro: micro-sessioni da un’ora per aiutare ciascuno a capire come contribuiva alla dinamica.

Risultato?
Non è diventato tutto perfetto. Ma il clima è cambiato.
Hanno iniziato a parlarsi, anche con fatica. E il numero di conflitti è sceso, come pure i giorni di malattia (che erano diventati un modo silenzioso per dire “non ce la faccio più”).

Gli errori inconsapevoli dei giovani lavoratori

Chi è entrato nel mondo del lavoro da poco, spesso porta con sé aspettative alte. Alcune giuste, altre un po’ irrealistiche.
Ecco alcuni errori frequenti che vedo:

1. Aspettarsi un manager perfetto

Il manager ideale non esiste. Alcuni sono bravi tecnici ma scarsi comunicatori. Altri sono empatici ma disorganizzati. E molti stanno ancora imparando. Se ti aspetti che sappia sempre cosa fare, rischi di rimanere deluso.

2. Pensare che tutto debba essere stimolante

Non tutto il lavoro è interessante. Anche nei ruoli più creativi ci sono parti noiose. Accettarlo non significa “accontentarsi”, ma riconoscere che ogni lavoro ha la sua quota di routine.

3. Non dire le cose per paura del conflitto

Tantissimi giovani professionisti preferiscono lamentarsi con i colleghi piuttosto che affrontare il manager. Il problema è che il manager non cambia se non riceve segnali chiari.

4. Attendere la motivazione dall’esterno

La motivazione è come una fiamma: può essere accesa da fuori, ma se non ci metti legna ogni giorno, si spegne.
Pretendere che il tuo capo ti motivi ogni giorno è come aspettare che un partner ti faccia sentire speciale senza mai fare nulla in cambio.

Ma allora, che si fa?

Non si tratta di colpe, ma di responsabilità condivise.
Prova a farti alcune domande:

  • Ho chiesto feedback?

  • Ho comunicato i miei bisogni in modo chiaro?

  • Sto contribuendo alla relazione o solo aspettando qualcosa?

  • Che parte della situazione posso provare a cambiare io, oggi?

Essere giovani non significa essere ingenui o passivi. Anzi, è il momento perfetto per allenarsi alla responsabilità relazionale. Anche – e soprattutto – con i propri manager.

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Dott.Nicola Nacca

Psicologo - Caserta

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