Dott. Andrea Napolitano

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Dott. Andrea Napolitano

psicologo, psicoterapeuta, ipnologo clinico

La comunicazione di valori socioculturali nel fumetto

1. Il fumetto e i livelli di comunicazione


In Italia i comics americani arrivano nel 1908, importati e tradotti dal Corriere dei Piccoli. In seguito, il successo italiano del genere fumettistico si consolida soprattutto con la pubblicazione di Topolino (dal 1932) e con i successi ottenuti dall’editore Bonelli grazie ai personaggi di Tex (1948), Martin Mystere (1982), Dylan Dog (1986).

Nonostante la sua storia sia quindi relativamente breve, il fumetto ha saputo conquistare una popolarità progressivamente crescente, certamente più come prodotto di consumo che come forma artistica. Il suo successo è dovuto al fatto che in esso è possibile trovare non solo un momento di divertimento, ma anche un luogo simbolico nel quale far vivere “modelli” possibili, eroi, figure immaginarie ma non per ciò meno reali (Zamuner e Cavarra, 2002).

Inizialmente simbolo di una produzione di scarso livello qualitativo, sottovalutato come espressione artistica e considerato un sottogenere paraletterario, il fumetto è stato successivamente rivalutato in conseguenza della rimessa in discussione del concetto di cultura (Ciofalo, 2005) e della capacità del fumetto stesso di assumere una dimensione qualitativa in grado di trascendere il mondo infantile e adolescenziale, per diventare un oggetto e un tema di riflessione costante per chi si occupa di comunicazione (Morcellini, 1996).

Il fumetto talvolta rispecchia il mondo circostante e i modelli sociali più diffusi, talaltra propone contenuti finzionali assolutamente irrealistici; spesso presenta caratterizzazioni marcate della realtà e dei personaggi che in essa agiscono, enfatizzandone le qualità tramite l’uso di caricature e onomatopee.

La caratteristica espressività che coniuga operativamente testo e immagine, il particolare linguaggio usato, e la possibilità data al lettore di estraniarsi dal suo mondo per incarnarsi momentaneamente in quello dell’eroe di turno, sono alla base dell’alto gradimento riscontrato dal fumetto.

Ma se il fumetto è amato, lo deve anche e soprattutto al fatto che le storie che racconta risultano “avvincenti”: non solo narrano eventi più o meno realistici, ma lo fanno in modo “emozionante”, suscitando emozioni nel lettore, facendo sì che il lettore si interessi alle sorti dei personaggi, si identifichi in questi ultimi e si interroghi circa lo sviluppo della storia. La lettura è “emozionante” poiché “risuona” nel lettore, rappresentando adeguatamente gli eventi, consentendo di capire ciò che avviene e perché avviene. Il fumetto rappresenta frequentemente le emozioni dei suoi protagonisti, e lo fa in modo che il lettore possa capire non solo di quali emozioni si tratta, ma anche perché quel protagonista prova quell'emozione, per quanto tempo la prova, con quale intensità, con quali conseguenze (Zamuner e Cavarra, 2002).

Autore e fruitore del fumetto devono dunque incontrarsi in una teoria implicita delle emozioni condivisa da entrambi.

Tuttavia le emozioni non costituiscono l’unico vincolo che unisce chi scrive e chi legge il fumetto. Perché questo legame si crei – e perché quindi il fumetto abbia successo – è necessario anche che ci sia in comune tutto un mondo: quel mondo la cui condivisione permette al lettore di capire e provare le emozioni narrate dall’autore e sperimentate dal personaggio; un mondo fatto di valori sociali ed esistenziali; un mondo in cui riecheggiano memorie storiche, miti passati e contemporanei, ideali a cui tendere o ai quali si è rinunciato ma che si riesce a recuperare nella passeggera lettura di un semplice giornalino.

L’autore e il lettore del fumetto condividono quindi una cultura: di tale cultura il fumetto è talvolta specchio, più o meno fedele o deformante; spesso è anche un veicolo che ne consente la diffusione. Il fumetto riesce a comunicare cultura in modo capillare, forse inconsapevole, penetrando anche negli strati sociali più bassi e illetterati e contribuendo potenzialmente a trasmettere dei messaggi educativi anche in tali ambiti.

 

Parlare di comunicazione e cultura vuol dire parlare di Giorgio Braga che (1961) ipotizza una tripartizione dei livelli di comunicazione, organizzabile in comunicazione interpersonale, comunicazione culturale e comunicazione di massa. L’innovazione apportata da Braga è stata l’introduzione della comunicazione culturale fra i due livelli già precedentemente conosciuti. Rispetto a questa divisione, il fumetto potrebbe aver ragione di accampare diritto di cittadinanza tanto nel secondo quanto nel terzo livello.

Se nella comunicazione interpersonale il primo comunicante forma il suo messaggio e il secondo lo riceve e risponde, realizzando così la circolarità indispensabile per una comunicazione efficace, nella comunicazione culturale i rapporti tra i comunicanti si complicano: il primo comunicante diventa un “autore” che crea opere (artistiche, scientifiche, filosofiche) la cui decodificazione spetta al secondo comunicante (lettore, studioso, spettatore). L’arte, così, non può essere concepita né come semplice espressione di un fatto interiore né come riproduzione di una realtà esterna: l’elemento decisivo risiede nella maniera in cui, grazie ad essa, il fattore “soggettivo” e quello “oggettivo” si risolvono l’uno nell’altro acquistando una nuova consistenza e un nuovo contenuto. Il linguaggio, il mito e l’arte non esistono solamente per raggiungere un significato determinato (Cassirer, 1961): in essi l’esistenza sorge dal significato e il loro contenuto si risolve compiutamente nella funzione del significare poiché hanno una funzione di consumo simbolico (Tessarolo, 1991).

Il fumetto può essere ritenuto appartenente al livello della comunicazione culturale in quanto in esso è preminente la funzione di consumo simbolico; nel fumetto emerge anche il “fattore soggettivo” che scaturisce dall’incontro fra produttore e fruitore; il disegno e la narrazione scritta tipici del fumetto, inoltre, sono pur sempre delle forme d’arte grafica e di letteratura, in quanto ambiti in cui si esprimono emozioni, desideri, rappresentazioni di realtà, spaccati sociali; il fumetto ha infine la struttura tipica della comunicazione culturale: l’autore produce un’opera destinata ad un fruitore.

Una differenza sostanziale rispetto ad altre forme artistiche sta nel fatto che i fumetti, data la ritmicità seriale di pubblicazione delle testate, raramente sono opera di un solo autore: tuttavia, benché in molte serie diversi sceneggiatori e disegnatori si alternino fra di loro, il “soggetto” è generalmente “parto” di un solo autore, al quale resta sovente il compito di supervisionare anche le storie scritte da altri in modo che collimino col nucleo centrale che caratterizza il personaggio principale, il suo carattere, i suoi modi di fare, il suo mondo. La molteplicità di autori è comunque uno dei motivi per cui il fumetto potrebbe ragionevolmente rientrare nel terzo livello del sistema delle comunicazioni, cioè nella comunicazione di massa, caratterizzata da un primo comunicante o emittente “collettivo” (“fonte”) e da un’audience collegata ad esso attraverso tecnologie avanzate (Tessarolo, 1991): tale forma di comunicazione è diretta a pubblici vasti, eterogenei ed anonimi, e i suoi messaggi sono spesso pubblici, simultanei, transitori (Wright, 1965). Il fumetto fa peraltro parte dell’ampia categoria dei periodici, afferenti per definizione alle comunicazioni di massa, che tengono conto della logica dello spettacolo e del profitto, e che distribuiscono alternativamente messaggi ludici (cinema, fumetti, dischi e video), o informativo-divulgativi (quotidiani, telegiornali e giornali-radio). Non per nulla è possibile individuare, nella storia della produzione fumettistica italiana dal primo dopoguerra ad oggi, una duplice, alternativa, strategia: quella “pedagogizzante” e quella “dell’intrattenimento” (Colombo, 1998).

È chiaro che non c’è un distacco netto tra il secondo e il terzo livello della comunicazione, bensì un continuum. Questo continuum può essere interamente percorso dalla narrazione: essa funge da collegamento che connette anzi tutti e tre i livelli comunicativi. La narrazione, infatti, è presente nella comunicazione interpersonale con l’affabulazione, il mito e la fiaba; nella comunicazione culturale con la letteratura, il cinema e le arti in generale; nella comunicazione di massa con l’informazione. Il racconto conserva le sue codificazioni nella cultura orale, nella letteratura, nel cinema, nel fumetto, nella pittura e anche nella televisione. Il mito primitivo segue la stessa struttura dei racconti contemporanei, una struttura che ha sempre esercitato un particolare fascino anche nell’inconscio (Tessarolo, 1991).

Applicando al fumetto il carattere di trasversalità della narrazione, diventa allora superfluo determinarne l’appartenenza al secondo o al terzo dei livelli comunicativi individuati da Braga. D’altronde, la suddivisione proposta ha più un valore euristico che reale perché la maggior parte dei rapporti umani di tipo comunicativo utilizza più di un livello. Si potrebbe forse più agevolmente tracciare dei parallelismi fra il fumetto e altre arti di confine quali la fotografia o il cinema: la fotografia non è un vero e proprio mass medium, ma sarà il suo uso successivo a farla rientrare nel terzo livello; il cinema è un messaggio sintetico in cui è dominante la funzione di consumo simbolico priva di carattere utilitaristico, in quanto non prepara all’azione bensì si riferisce al repertorio di conoscenze comuni al regista e allo spettatore (Tessarolo, 1991).

È quindi soprattutto la diffusione di massa (così come è stato per la fotografia) a far gravitare parzialmente il fumetto verso il terzo livello comunicativo, ma il repertorio di conoscenze condiviso e la funzione di consumo simbolico (paritetici a quelli osservabili nel cinema) sono tipici di quelle arti che si esprimono secondo lo schema comunicativo del secondo livello.

Le creazioni artistiche – e il fumetto in questo non è da meno – si possono infatti categorizzare come “forme di mediazione simbolica” in quanto traducono in un linguaggio artistico e fruibile il mondo interiore dell’autore. Esse trasmettono inoltre una serie di significati sociali, decodificabili solo grazie all’appartenenza di autore e fruitore al medesimo contesto culturale. Tali significati, specialmente nel caso di un’opera letteraria, possono essere ricercati adottando un’ottica storica (attenta al contesto temporale in cui la narrazione è ambientata) o attualizzante (capace di trasporre nel presente i significati passati).

Vedremo come tutto questo avvenga anche attraverso la lettura di un - apparentemente banale - fumetto: esso comunica il mondo interiore dell’autore, rispecchia il contesto socioculturale di riferimento condiviso, rinvia a culture altre veicolandone i significati, ripropone ideali o miti antichi, tratteggia le mitologie del presente.

Il fumetto, basandosi su un comune sentire fra ideatore, produttore e pubblico (Colombo, 1998), può ripresentare ciò che il lettore già conosce, magari sdrammatizzando paure diffuse o raccontando sogni collettivi; può additare filosofie e sistemi di pensiero sconosciuti ai più; può addirittura essere mosso, come vedremo, da archetipi sovraindividuali che vivono di vita propria, della cui esistenza l’autore non è forse neppure consapevole, ma dei quali può farsi inconsciamente portavoce.

 

Per illustrare le tematiche sopra delineate, verranno riportati tre esempi di fumetto, nella cui scelta non vi è ovviamente nessuna pretesa di esaustività. Sono solo tre campioni paradigmatici di tre culture e tre modi di fare fumetti completamente diversi, peraltro accomunati dal fatto di aver ottenuto un ottimo successo commerciale nazionale ed internazionale: si tratta del fumetto statunitense Spider-Man, dell’italiano Dylan Dog e del giapponese Saint Seiya.

 

 

2. Spider-Man, ovvero potere e responsabilità

 

Rilanciato dai recenti successi cinematografici, Spider-Man è un fenomeno fumettistico di prim’ordine da oltre quarant’anni. Era il 1962 quando il soggettista Stan Lee e il disegnatore Steve Ditko organizzarono il fatidico incontro fra il timido liceale Peter Parker e il più famoso ragno radioattivo della storia dei fumetti.

In seguito al morso dell’aracnide, il complessato studente acquisisce capacità proporzionali a quelle di un ragno: fra queste, quella di aderire alle superfici verticali e un senso premonitore (il “senso di ragno”) in grado di avvertirlo di possibili pericoli. Peter pensa inizialmente di sfruttare le sue nuove doti per arricchirsi, ma la morte di suo zio Ben – ucciso da un ladro che il neonato Uomo Ragno aveva irresponsabilmente evitato di catturare – convince il giovane che “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Mascherandosi con il costume di Spider-Man utilizzerà allora i suoi superpoteri per difendere la giustizia.

Già dalle prime tavole emerge quella che sarà la caratteristica peculiare di questo fumetto: il fungere da specchio delle problematiche sociali, guardando con occhio attento le insicurezze dell’America degli anni ’60, per farne ben di più che uno sfondo davanti al quale far muovere l’eroe. La radioattività che rende anomalo il ragno che morderà Peter è il riflesso delle paure del tempo: è l’era della guerra fredda, del timore delle possibili conseguenze di un conflitto atomico, con la diffusione di quelle radiazioni nucleari sui cui effetti non c’era ancora sicurezza scientifica. Eppure si respira anche il clima di allegria e di ottimismo che permea la società statunitense dell’epoca: l’idea che tutti possano paritariamente pervenire a risultati di spessore purché si impegnino. Nel liceo prima e nel college poi, nei quali Parker studia, ogni cosa – dal rapporto coi professori alla minigonna delle studentesse – è l’espressione del Sogno Americano.

Ma i sogni richiedono sacrifici e sofferenza; il passare dall’adolescenza all’età adulta è spesso problematico per chi, come Peter, è orfano di genitori e vive solo con la zia: oltre a studiare si deve trovare un lavoro, pagare l’affitto non è così scontato, i problemi di cuore sono all’ordine del giorno. Insomma, sotto la maschera, l’Uomo Ragno deve fare i conti con le difficoltà di tutti i giovani del suo tempo. E le stesse difficoltà sono spesso incontrate dai criminali (più o meno dotati di super-poteri) contro cui Spider-Man combatte: è il caso di Prowler, lavavetri di colore, costretto dalla povertà e dalla fame a riciclarsi come rapinatore.

Molti altri sono i problemi sociali scottanti contro cui l’Uomo Ragno dovrà scontrarsi, spesso senza poter trovare soluzioni: dalle condizioni di vita nelle carceri, alla discriminazione scolastica verso gli studenti di colore; dalla manipolazione di notizie operate dalla stampa, allo spaccio e abuso di sostanze stupefacenti. Problemi che nella seconda metà degli anni ’60 venivano avvertiti evidentemente come pressanti, forse ancor più di quanto lo siano oggi.

La piaga della droga compare in tre racconti famosi per non aver ottenuto il visto della censura: Harry Osborn, ricco compagno di college di Peter, cade vittima dell'LSD. La droga è dipinta non solo come un problema dei disperati e dei neri, ma come un male sociale, che colpisce indipendentemente dalla classe sociale d’appartenenza.

Le questioni giovanili e razziali vengono invece dibattute nel racconto delle inquietudini degli studenti universitari, stufi di subire decisioni inique senza essere interpellati, e della sempre più evidente sfiducia espressa dagli studenti neri verso il proprio futuro. Spicca, in questo contesto, la figura di Randy Robertson, figlio del caporedattore del quotidiano per cui Peter lavora come fotografo free-lance: Randy simpatizza apertamente per i gruppi nazionalisti neri che si oppongono al sistema, e organizza incessantemente manifestazioni pubbliche per i diritti di cittadini e studenti, o contro la droga e l’inquinamento.

Il richiamo alle problematiche sociali e la netta presa di posizione riguardo ad esse fa parte di quella strategia pedagogizzante del fumetto che Colombo illustra attraverso la figura metaforica del Grillo de Le avventure di Pinocchio: un personaggio che rappresenta l’atteggiamento critico dell’intellettuale nei confronti della società, proponendo un modello di sviluppo che non esula da un quadro morale (Colombo, 1998).

Il riferimento al contesto sociale e alle sue incertezze inserisce a pieno titolo un fumetto come Spider-Man nel livello delle comunicazioni culturali: in tale livello la produzione e la ricezione di messaggi comunicativi sono inserite in un ambito culturale ed in un substrato comune. L’autore interpreta lo spirito dell’epoca e il fruitore lo re-interpreta (Tessarolo, 1991).

La comunicazione, al livello culturale, consente al soggetto di interiorizzare la cultura stessa: il lettore di un fumetto come Spider-Man ha la possibilità di trovare fra le pagine dell’albo lo spirito del suo tempo, il proprio vivere giornaliero, e il loro riesame operato dagli autori; può quindi a sua volta riassumerli, non più come semplici dati percepiti nella routine di ogni giorno, ma come cultura rielaborata, rifiltrata, sedimentata e sedimentabile. È il quotidiano che si fa cultura.

Così come avviene in altri ambiti della letteratura, anche il fumetto può dunque avere una funzione pedagogica, istruttiva: comunica ideali, visioni del mondo, può contribuire ad avvicinare le persone. Fumetti come Spider-Man possono raccogliere e lasciare tracce, partecipare all’evoluzione storica e culturale, contestualizzare o suggerire cambiamenti, dare chiavi di lettura, risvegliare coscienze. Il richiamo alle problematiche sociali implica tutte queste possibilità.

Oltre alle questioni sociali, ci sono però anche quelle esistenziali che prima o poi travagliano la vita e la coscienza di ognuno, Spider-Man incluso: dal trovare la propria identità passando dalla giovinezza all’età adulta (e il doppio ruolo di Peter non lo aiuta certo nel compito) all’affrontare la morte delle persone care. Il lutto più doloroso che dovrà fronteggiare Peter sarà la morte della fidanzata Gwen Stacy, uccisa per mano di Goblin, acerrimo nemico dell’Uomo Ragno.

Parker dovrà farsene una ragione e guardare avanti: la vita non aspetta, e nemmeno la storia. Si arriva alla guerra nel Vietnam, con tutte le sue controversie e gli opposti giudizi di valore in campo. Nel fumetto, la guerra viene filtrata dall'esperienza di un compagno di college di Peter: Flash Thompson, il quale, richiamato dagli obblighi di leva in Vietnam, viene profondamente cambiato dalle drammatiche vicende vissute nell’inferno del sud-est asiatico: sarà solo grazie all’amore e alle cure della vietnamita Sha Shan che riuscirà a tornare vivo in patria.

Oltre alla vita e alla storia, anche la scienza non aspetta. I suoi progressi portano a dubbi e interrogativi ancor oggi aperti e irrisolti, anzi anticipati (siamo fra gli anni ’70 e ’80) nella loro drammaticità dal fumetto: è il caso del dibattito etico aperto dalla bioingegneria e dalla clonazione. Ecco così comparire sulla scena, nei panni dello Sciacallo, Miles Warren, ex-professore universitario di Peter e Gwen, esperto di biogenetica e capace di creare un clone dell’uno e dell’altra. Le copie genetiche dei due ragazzi, così come i loro “originali”, dovranno affrontare un lungo dissidio interiore alla ricerca del senso profondo della propria identità.

Nella seconda metà degli anni '80, le storie di Spider-Man virano nuovamente in direzione di tematiche più comuni e quotidiane quali quelle della droga, della miseria, dell'emarginazione, del teppismo giovanile, delle violenze sui minori: problemi di fronte ai quali non basta possedere superpoteri di ragno per scovare una soluzione.

Un po’ di tranquillità interiore viene invece trovata dal nostro eroe, altrimenti sempre più frequentemente soggetto a crisi depressive e d’identità, quando convola a giuste nozze con Mary Jane Watson, amica e fidanzata di vecchia data: il matrimonio viene contratto dopo che la ragazza ha rivelato a Peter di essere da tempo al corrente della sua doppia identità.

Un nuovo cambio di rotta segna l’ingresso negli anni ’90, dove gli argomenti trattati toccano soprattutto il campo della psicopatologia, con temi quali il disturbo di personalità multipla, il bambino interiore, l’accettazione dell’inconscio come l’Altro (a volte il nemico) che è in noi, il conflitto generazionale. Lo stesso Peter finisce con l’intraprendere un’analisi, condotta dalla dottoressa Ashley Kafka, psicoanalista di scuola freudiana: la terapeuta scandaglia in profondità la psiche di Parker, rivelandogliene i lati più oscuri, e facendo emergere un’insospettabile quanto rimossa dipendenza nei confronti dei genitori scomparsi.

La psiche di Peter, ormai uomo, viene messa peraltro sempre più a dura prova da una serie interminabili di avvenimenti traumatici: dalla ricomparsa del suo clone (con i connessi dubbi sull’identità personale) all’apparente morte di sua moglie Mary Jane, dal licenziamento alla miseria, dal doversi ridurre a fare il lavapiatti fino al dormire in strada come un barbone. Sarà la ricomparsa di Mary Jane a permettere a Peter di risalire la china, sia dal punto di vista affettivo che professionale (diventerà insegnante di scienze presso il suo vecchio liceo).

Un ultimo tragico spaccato di America viene mostrato dopo l’11 settembre 2001 e l’attacco alle Torri Gemelle. L’Uomo Ragno, pur emotivamente travolto dall’immane tragedia, aiuta la polizia e i vigili del fuoco a spostare le rovine, al pari di ogni altro cittadino, colpevolizzandosi per non aver saputo evitare il disastro, ma anche chiedendosi quanto in questa tragedia sia il risultato delle ingiustizie subite da popoli lontani cresciuti nell’odio, nella povertà, nel terrore, nella tirannia.

 

A trentotto anni dalla sua nascita, nel 2000, Spider-Man ha vissuto anche una rinascita: la sua storia è stata riscritta di sana pianta, dall’inizio, col titolo di Ultimate Spider-Man, ad opera dello sceneggiatore Brian M. Bendis e del disegnatore Mark Bagley. Si tratta di un vero e proprio update editoriale che sposta in avanti di quasi quarant’anni il contesto storico e sociale nel quale Peter Parker viene morso dal ragno che lo tramuterà in un supereroe.

Il remake è stato realizzato per adeguare il personaggio ai tempi che cambiano, e dunque per dimostrare che è sempre, assolutamente, attuale. Tenendo però conto che durante questi trentott’anni è avvenuto un processo di drammatizzazione della giovinezza: che se per qualcuno è ancora il periodo più bello della vita, è perché si sono dimenticate le ansie legate alla crescita, alla trasformazione del corpo e alla propria identità (Raffaelli, 2004).

Questa riscrittura è un altro segno che lega un fumetto come quello dell’Uomo Ragno al livello della comunicazione culturale: tale livello presuppone infatti la possibilità, di fronte ad un’opera letteraria, di leggerla con un occhio storico (facendo attenzione al contesto temporale in cui avviene l’ambientazione) o con un occhio attualizzante (vedere ciò che di quella storia passata è ancora presente, trasportare il senso passato nel presente). La rilettura operata con Ultimate Spider-Man è esattamente di quest’ultimo tipo. Il remake è nato dal chiedersi cosa sarebbe successo se Peter Parker fosse morso adesso da quel ragno: cosa sarebbe successo se, salvaguardate le premesse di base della storia dell’Uomo Ragno – la parte che riguarda il suo essere adolescente – si riraccontasse la storia come se succedesse oggi.

Cambiano i tempi, cambia la cornice. Il ragno che morde Peter non è più radioattivo, ma geneticamente modificato, a testimonianza di come i dubbi e le paure della gente abbiano trovato in questi quarant’anni altri bersagli, altre radici. Sono diversi i rapporti che gli adolescenti intrecciano fra loro, così come quelli che li legano ai loro genitori.

Come nella storia originale, Peter Parker ha quindici anni e frequenta il liceo, ma questa volta si trova alle prese con i problemi della pubertà, con una visione più romanzata dei suoi guai di adolescente problematico, con la sofferenza causata dall’acquisizione dei superpoteri. E soprattutto la vicenda delle sue origini e della morte dello zio Ben, unica figura paterna della sua esistenza, viene dilatata fino a coprire addirittura sei puntate del mensile. D’altronde, pur nella modernizzazione e nella sostanziale riscrittura delle prime avventure dell’Uomo Ragno, gli autori non ne hanno snaturato le caratteristiche di base. Come ha scritto Bill Jemas nella sua introduzione alla prima raccolta di storie di Ultimate Spider-Man: “Se è vero che i poteri di Peter crescono, l’Uomo Ragno scopre che ci sarà sempre un nemico più potente, e imparerà che la forza fisica, pura e semplice, non è quasi mai l’approccio giusto a un problema” (Raffaelli, 2004).

 

 

3. Dylan Dog, ovvero l’eroismo di un antieroe

 

Nato nel 1986 dalla mente di Tiziano Sclavi e dalle chine di Claudio Villa e Angelo Stano, Dylan Dog è il più celebre protagonista di una serie horror italiana, nonché il fumetto più venduto in Italia, uno dei pochi capaci di coniugare uno straripante successo di pubblico con il plauso della critica; è stato forse l’unico periodico capace di affermarsi, oltre che come “fumetto di massa” (una tiratura che ha superato il milione di copie mensili parla da sola), anche come “fumetto d’autore”. Il suo soggettista, Sclavi, è l’esempio paradigmatico di una generazione di autori che è cresciuta con i media e ne ha respirato la “cultura sottile” (Colombo, 1998).

Dylan è un investigatore privato trentaquattrenne che vive nella Londra contemporanea. Eroe romantico, sensibile e politically correct, Dylan è uno spiantato alla ricerca di demoni suoi e altrui con l’ingenua sprovvedutezza di un adolescente che crede ai fantasmi, e con la saggezza antica di chi è sensibile a questioni sottili e complesse come la banalità del male, il mistero della morte, l’irrazionalità della vita quotidiana (Ciofalo, 2005). Le indagini di Dylan sono decisamente particolari: lui stesso si definisce “indagatore dell’incubo”, e come tale investiga su casi che hanno a che vedere col soprannaturale. Le ricerche su fantasmi, zombi, vampiri, licantropi sono per lui all’ordine del giorno.

L’ordinarietà con cui si presentano a Dylan clienti che gli chiedono di indagare su casi simili è rivelatrice di quanto la sua realtà fumettistica differisca dal nostro mondo quotidiano. D’altronde, il testo letterario svolge la sua funzione non attraverso un confronto con la realtà, ma comunicando una realtà che ha organizzato esso stesso. La finzione è capace di comunicare proprio perché non è identica al mondo reale: la comunicazione non sarebbe necessaria se ciò che si deve comunicare non fosse in qualche modo estraneo (Tessarolo, 1991).

D’altra parte, la comunicazione non sarebbe nemmeno possibile se ciò che si vuole comunicare non fosse già in qualche modo almeno larvatamente conosciuto e quindi ri-conoscibile dal lettore. Ed ecco allora che, nonostante i vari mostri horror che mensilmente incontra, Dylan non è un eroe nel senso classico del termine. È anzi più propriamente definibile come un “anti-eroe”, con le sue paure, i suoi dubbi, le sue nevrosi, la sua fragilità sentimentale: tutti tratti che chiunque può ritrovare nel proprio mondo, nella propria personalità.

Dylan non ha nessun superpotere: al massimo, usa il suo intuito (il suo “quinto senso e mezzo”). È un ex-alcolista, un depresso, un fobico. Porta con sé il segno indelebile di innumerevoli lutti irrisolti: la sua stessa “divisa” – giacca nera, camicia rossa, jeans – è portata quotidianamente in memoria di una fidanzata tragicamente morta, in un’occasione in cui lui vestiva in tal modo.

I vissuti traumatici, passati e presenti, di Dylan non sono solo una sua dimensione personale: sono una testimonianza di una realtà sociale molto più vasta, condivisa o condivisibile. L’alcolismo – da cui Dylan si difende molto più faticosamente che non quando deve vedersela con qualche zombi – è visto come una piaga sociale in cui chiunque può cadere, come una malattia o il riflesso di un’ancor più grave patologia depressiva; molti dei “mostri” che Dylan ha affrontato erano tali solo perché visti come mostruosi in conseguenza di storie di abbandono, violenza, marginalità: il vero mostro è spesso solo la paura del diverso, l’incomunicabilità ostinata verso chi ha un pensiero o un aspetto differente da quello della moltitudine.

La solitudine è il vero orrore: quella invisibile, provata da tante persone, da tanti giovani, che la trovano volutamente simbolizzata, riflessa ed esorcizzata nelle creature d’incubo o di malinconica marginalità che popolano le pagine di Dylan Dog. La vera paura è quella dell’abbandono, del non poter comunicare: innumerevoli sono i clienti di Dylan che si rivolgono a lui nella speranza di trovare qualcuno che accolga le loro paure, che creda all’esistenza dei loro timori e dei loro fantasmi, che non li confini nel mondo recluso della follia e della psichiatrizzazione.

L’unica soluzione è l’ascolto, l’apertura al diverso, l’apparentemente banale ma sempre invincibile capacità di amare. Ancora una volta il fumetto, alla stregua di altre e più nobili forme letterarie, si pone intenti pedagogici, veicola messaggi positivi, dà al lettore una possibilità di introspezione, un’occasione per capire meglio se stesso e gli altri.

L’eroismo di Dylan Dog sta nel tentare di comprendere il mistero e l’orrore, specie quando si nascondono nell’inconscio; la sua umanità si esprime nel mantenere il difficile equilibrio fra scetticismo e speranza (“Non ci credo, ma ci spero” è il motto che ripete spesso quando sente parlare di fenomeni paranormali). È un uomo dai molti dubbi ma dalle forti passioni: quella per le donne (quasi una diversa per ogni albo); quella per il modellino di galeone che eternamente tenta di finire e che fa di lui una specie di psicopompo, di moderno Caronte; quella per la musica e per il cinema, che danno l’occasione per una serie infinita di citazioni: da quelle specificamente horror (innumerevoli i riferimenti ai film di Argento, Romero, Craven o ai romanzi di King o di Wells), a quelle decisamente più classiche, che riportano parti di spartito del “Trillo del diavolo” di Tartini o che riattualizzano le parole di grandi autori del passato quali Borges (“Chiamiamo caso la nostra incapacità di capire l'immenso meccanismo della causalità”).

L’uso di citazioni porta non solo a realizzare un più o meno consapevole intento educativo, ma contribuisce a una diffusione culturale, stimola alla lettura, riecheggia altre opere e i mondi che esse dischiudono. La citazione è un espediente utilizzato per manifestare un contenuto emozionale inesprimibile attraverso il linguaggio corrente: il lettore ha così modo di vedere come le proprie emozioni soverchianti e le proprie paure sono già state provate e tradotte in scrittura e in arte da autori che hanno avuto il coraggio di guardarle in faccia e di fermarle su carta.

C’è un ultimo aspetto che vale la pena di sottolineare in Dylan Dog. È un aspetto che si ricollega alla capacità della letteratura di veicolare gli stessi aspetti di significazione un tempo affidati al racconto mitologico: il modello narrativo del mito è transemiotico, transculturale e acronico; esso ha conservato e conserva le sue schematizzazioni in tutte le culture e in epoche diverse. Il mito delle culture primitive obbedisce alle stesse norme strutturali dei più elaborati racconti contemporanei: tale modello ha sempre avuto una fortissima pregnanza sociale, un fascino radicato nel preconscio e nell’inconscio (Tessarolo, 1991).

Il mito che si trova disseminato nelle pagine di Dylan Dog è il mito moderno della psicoanalisi: con “mito” intendiamo lo sguardo rivolto alle proprie origini, il desiderio di trovare un senso definito all’inspiegabile, il tentativo di dare espressione a processi psichici universalmente noti raffigurati in forma camuffata (Freud, 1931).

Intendiamo il mito nel suo significato etimologico, quale possibile derivazione dal verbo greco myo che esprime l’atto di socchiudere gli occhi per vedere meglio: splendido ossimoro che indica come il lavoro psichico avvenga “in negativo”, o per sottrazione, rispetto al reale, e che suggerisce come, per guardare dentro di sé, occorra non farsi accecare dal reale (Mangini, 2001).

In questo senso la psicoanalisi è una forma mitologica moderna: tenta un’interpretazione della realtà ultima, ineffabile dell’origine individuale richiamandosi a concetti metapsichici indimostrabili, resistenti al falsificazionismo popperiano. La mitologia psicoanalitica è allora quella forma di letteratura scientifica o pseudoscientifica che spiega la nascita e lo sviluppo della personalità individuale rifacendosi ad astrazioni non empiricamente verificabili quali il complesso di Edipo, il complesso di castrazione, l’invidia del pene e così via.

Dylan Dog è, in questo senso, letteralmente infarcito di visioni psicoanalitiche. Non solo per le forme psicopatologiche da cui è affetto Dylan (tendenza alla depressione, claustrofobia, paura del volo, terrore dei pipistrelli), per parlare compiutamente delle quali servirebbe un manuale di psicologia clinica; ma soprattutto per la storia personale del personaggio, che viene progressivamente ricostruita col succedersi dei vari albi.

L’avversario più pericoloso di Dylan è infatti Xabaras, un negromante creatore di zombi, un fanatico che tenta di scoprire il siero dell’immortalità iniettando filtri magici nell’apparato circolatorio di cadaveri disseppelliti a tal scopo. Fra gli zombi rinvenuti da Xabaras, c’è Morgana, una ragazza alla quale una versione perfezionata del siero ha consentito di recuperare non solo una vita vegetativa da zombi, ma anche l’autocoscienza. Morgana sarà il grande amore di Dylan, il volto e l’immagine che l’indagatore dell’incubo ricercherà vanamente in tutte le donne da lui amate e immancabilmente lasciate.

Solo nell’albo n. 100 si arriva a scoprire che Morgana era in realtà la madre di Dylan e che Xabaras era suo padre, o meglio la parte malefica dello stesso.

Psicoanalisi allo stato puro: Dylan, evidentemente affetto da un complesso edipico irrisolto, è innamorato dell’imago materna internalizzata: l’impossibilità di ritrovare davvero la madre nelle sue numerose amanti gli impedisce di mantenere a lungo termine un rapporto amoroso. D’altro lato, il padre di Dylan soffre di un disturbo di personalità multipla che si manifesta nello sdoppiamento fisico tra la sua parte buona e quella cattiva; quanto a quest’ultima, è certamente soggetta al complesso di Laio (l’odio che il genitore può più o meno inconsciamente provare nei confronti del figlio), che porta Xabaras a disprezzare Dylan; così come soffre di un disturbo narcisistico che la conduce a voler far rinascere Dylan come uno zombi ai suoi ordini, privandolo della propria autoconsapevolezza e capacità decisionale autonoma.

Soltanto alla fine del centesimo albo, Dylan viene a conoscenza della sua vera storia; la parte malvagia e quella benevola di Xabaras si riuniscono, e lui e Morgana lasciano definitivamente libero il figlio di camminare autonomamente verso il proprio futuro, salutandolo con parole accorate: «Non serve parlare – confermano a Dylan i suoi ritrovati genitori – e forse non serve neanche capire. La vita ha la stessa logica di un sogno, a volte di un incubo: l’incubo da cui hai tentato di svegliarti sognando altri cento incubi, e che ora è finito. Non dovrai più cercare la pace, perché la pace ha trovato te. E non dovrai più inseguire tua madre nel volto di cento altre donne: sei libero dal mistero di tuo padre e di tua madre. Ora la tua mente è piena di sgomento, di tristezza, ma è la fine del principio e il principio della fine. Puoi ricominciare, figlio, devi ricominciare, adesso che hai risolto la tua indagine più difficile, quella su te stesso. Hai ritrovato le tue radici, nel sogno assurdo e pauroso della tua infanzia. Eri prigioniero di ricordi che non ricordavi, del panico dell’oblio, prigioniero di errori e orrori non tuoi, come capita a tanti bambini che ricevono dai genitori un peso troppo grande: il male di vivere. Ora puoi cominciare a guarire da questo male, e prendere una nuova strada. Vorremmo indicartela, figlio, ma non possiamo né dobbiamo: devi trovarla da solo, anche se ti costerà fatica, e smarrimento, e dolore, perché sarai solo, ed è giusto che sia così. Buon viaggio, Dylan; buon viaggio, amore…» (Sclavi e Stano, gennaio 1995).

 

 

4. Saint Seiya, ovvero mitologia e azione transculturale

 

Se in Spider-Man e Dylan Dog abbiamo trovato un parziale ritratto della società contemporanea e delle sue ambiguità, niente potrebbe essere più lontano di Saint Seiya dalla realtà quotidiana. L’opera scritta e disegnata da Masami Kurumada nel 1986 è, come succede spesso nei manga (fumetti giapponesi) assolutamente irrealistica. Ma forse proprio il suo carattere finzionale ha contribuito all’enorme successo, conseguito a livello internazionale soprattutto grazie alla trasposizione in anime (cartone animato), in Italia noto col nome de I cavalieri dello Zodiaco.

La storia, peraltro piuttosto complessa, narra di un gruppo di ragazzi – i protagonisti principali sono Seiya, Hyoga, Shiryu, Shun e Ikki – che in seguito ad uno sfibrante allenamento riescono ad ottenere l’investitura a santi (in Italia, cavalieri), ossia combattenti devoti alla dea Atena, chiamati a difendere in suo nome la pace sulla Terra. Con il titolo di “santi” (Saints), i ragazzi ottengono anche un’armatura (cloth) collegata ad una particolare costellazione (rispettivamente Pegaso, Cigno, Dragone, Andromeda, Fenice). I poteri conseguiti in seguito al training sostenuto si basano infatti sulla raggiunta consapevolezza del proprio microcosmo interiore, di come esso rifletta la struttura macrocosmica dell’universo consentendo di esprimere la stessa energia alla base del big-bang, e di come tale energia possa essere canalizzata riconoscendo la costellazione affine alle proprie caratteristiche personali; l’armatura dei cavalieri è un canale che permette di convogliare meglio questa energia, per poi convertirla in colpi che vanno da calci e pugni portati alla velocità del suono (per i Saints meno esperti) all’apertura di varchi ultradimensionali (tecnica tipica dei cavalieri più dotati) in cui scaraventare il malcapitato avversario di turno.

I cinque giovani protagonisti hanno raggiunto solo il gradino d’investitura più basso, ossia il titolo di Bronze Saints (Cavalieri di bronzo): sono cioè muniti di una forza e di un’armatura decisamente inferiori a quelle dei Silver Saints (Cavalieri d’argento) e soprattutto dei Gold Saints (Cavalieri d’oro), questi ultimi dotati della potenza trasmessa dalle dodici costellazioni zodiacali (Ariete, Toro, Gemelli…) e in grado di muoversi alla velocità della luce. Nonostante la loro palese inferiorità, i cinque santi di bronzo saranno chiamati da Atena a combattere contro i Cavalieri d’argento e d’oro per far tornare alla ragione Saga, il Gold Saint dei Gemelli: questi, ribellatosi ad Atena, si è sostituito al sommo sacerdote che dovrebbe interpretare le volontà della dea e a cui tutti gli altri cavalieri devono obbedienza, con l’intento di conquistare il mondo (il che è un classico dei manga!). Scongiurato il pericolo di ammutinamento, i Saints di bronzo, d’argento e d’oro finalmente riuniti dovranno poi vedersela con le minacce portate alla Terra prima dal dio del mare Nettuno, intenzionato a sommergere il nostro pianeta sotto un nuovo diluvio; poi del dio della morte Ade (Hades nel fumetto), determinato a oscurare il mondo con una perenne eclissi di sole.

Come si può vedere, di spaccati sociali non c’è qui nemmeno l’ombra. Tuttavia, Saint Seiya è un eccezionale veicolo di trasmissione culturale, mitologica, religiosa e filosofica. Questo manga è riuscito a portare e diffondere in Occidente, tra un pubblico probabilmente non particolarmente colto, una quantità stupefacente di nozioni appartenenti alle dottrine induista e buddhista, così come ha veicolato in Estremo Oriente cospicui riferimenti tratti dalla mitologia greca o addirittura dalla Divina Commedia di Dante. E se è presumibile che, sia da una parte che dall’altra, non sempre questi riferimenti siano stati colti, tuttavia essi rimangono nella memoria collettiva e compartecipano attivamente a un movimento culturale e transculturale ben più ampio: quello della globalizzazione e del multiculturalismo, variabili di complessità che incidono profondamente nella società e nella comunicazione odierne, unendo e rivelando le differenti realtà e tradizioni.

Le persone si trovano infatti oggi di fronte a crescenti diversità sociali, culturali, linguistiche, in cui parlare di comunicazione significa parlare di un mondo indefinito, complesso, sfuggente: non si tratta tuttavia di un cambiamento sovversivo, ma costruttivo, e un manga come Saint Seiya ne è l’ideale testimone. Mostra come la comunicazione – anche la comunicazione culturale attuabile con un semplice fumetto – possa favorire il cambiamento sociale riducendo la lontananza fra abitudini e valori diversi, accorciando le distanze fra persone fisicamente non vicine, facendo intravedere nuovi modi di pensare: la comunicazione aiuta ad affrontare il cambiamento perché comunicare significa anche conoscere e far conoscere.

Saint Seiya trasmette frammenti vivi della mitologia greca antica e di quella indo-buddhista, ribadendo implicitamente che la comunicazione artistica è legata strettamente al rito e alla religione e facendo riverberare l’eco di tutti i pensieri, i testi, le opere artistiche che vibrano dietro ai miti e alle dottrine religiose: infatti, ogni testo letterario situato all’interno di una società e di una cultura è sempre il risultato di una volontaria enunciazione illocutoria e perlocutoria, che rinvia ad altri testi ed altre opere richiamandoli e trasformandoli (Tessarolo, 1991).

Se in Saint Seiya i riferimenti alla mitologia greca sono rinvenibili soprattutto nel ricorso a personaggi divini quali Atena, Nettuno, Ade, un esempio di come questo manga sia specchio fedele anche di tradizioni buddiste è dato dalla trama dell’opera: il primo avversario che i Cavalieri devono affrontare è un nemico interno; solo dopo averlo sconfitto e riassimilato in sé potranno combattere contro antagonisti esterni. Come a dire che non possiamo aiutare davvero il prossimo, finché non abbiamo fatto chiarezza in noi stessi: se prima non si è compiuto un lungo lavoro di purificazione, per raggiungere la lucidità e la quiete interiori, rischiamo di far del male agli altri (Comolli, 1991).

Secondo la visione buddhista mahayana la compassione può essere realmente efficace solo quando chi la pratica è in armonia con se stesso: un uomo che annega non può certo salvarne un altro (Mackenzie, 1992).

Un riferimento decisamente più esplicito alla religione induista emerge invece dal personaggio di Krishna, uno dei sette generali marini al seguito di Nettuno: già il nome del generale richiama quello del più famoso avatara (incarnazione) di Visnu, uno dei componenti la trimurti dell’induismo (la trinità composta dai tre principali déi del pantheon indiano, ossia Visnu, Shiva, Brahma), le cui gesta sono cantate nella Bhagavadgītā, poema di settecento versi – la cui importanza nella cultura indiana è pari a quella del Vangelo nella nostra civiltà – contenuto nel VI libro del Mahābhārata, la cui stesura va dal 400 a.C. al 400 d.C.

Il generale marino Krishna deve la sua forza allo “sprigionarsi dell’energia cosmica Kundalini”; essa “deriva dai chakra, i sette punti che si trovano all’interno del corpo umano e che possono sprigionare un’energia miracolosa”.

Secondo l’induismo, quest’energia, presente a livello latente in ognuno, è la forza dormiente della dea Kundalini che incarna la potenzialità della natura, i cui effetti possono essere sia divini sia demoniaci. Il saggio che controlla queste forze può, attraverso di esse, raggiungere la più alta potenza e perfezione spirituali, mentre coloro che nell’ignoranza le scatenano, rischiano di venirne distrutti (Lama Govinda, 1972).

I chakra sono invece i sette centri energetici sottili del corpo umano, che governano rispettivamente la secrezione, la riproduzione, la digestione, la circolazione, la respirazione, il sistema nervoso riflesso e quello volontario; ognuno è collegato a una particolare ghiandola o organo fisico. Essi sono i punti in cui le forze psichiche e le funzioni corporee si uniscono e si compenetrano; sono i nodi focali in cui le energie cosmiche e quelle psichiche individuali si cristallizzano in qualità corporee ed in cui queste ultime sono dissolte e ritrasformate in forze fisiche (Lama Govinda, 1972).

Lo stesso processo di unione di forze macrocosmiche e microcosmiche (o meglio, del riconoscimento delle prime nelle seconde) è quello che sta alla base del potere dei Saints di Atena. L’addestramento che li porta a dominare queste forze è più di tipo meditativo che fisico.

Se Spider-Man aveva il “senso di ragno” e Dylan Dog il “quinto senso e mezzo”, i Cavalieri, tramite l’addestramento condotto, arrivano a dominare addirittura “il settimo senso”. Anche in questo caso non si tratta di semplici bufale fumettistiche: le dottrine buddhiste parlano apertamente di un sesto e di un settimo senso. Il sesto senso è comune a tutti i poveri mortali, giacché si tratta semplicemente dell’esercizio della coscienza tramite l’organo sensoriale apposito (il cervello): nel buddhismo, infatti, la coscienza è considerata solo come una capacità percettiva, alla stregua di vista, udito, tatto, gusto e olfatto: l’organismo corporeo non è nient’altro che il congegno meccanico dei sei sensi. I cinque diversi organi di senso di questa macchina sono solo degli “strumenti diversi per effettuare lo scambio di cinque diversi componenti del mondo esterno; il sesto organo di senso, il pensiero, è il punto focale e di raccolta delle restanti attività sensoriali” (Grimm, 1994).

Il sesto senso è definito come coscienza intellettuale che seleziona e valuta i prodotti dei cinque tipi di coscienza sensoria (Lama Govinda, 1972).

Il settimo senso, quello che consente ai Saints di espandere il proprio microcosmo interiore in sintonia con le energie macrocosmiche, è teorizzato come quella facoltà conoscitiva (manas) il cui oggetto non è il mondo sensibile, ma quel fiume del divenire che eternamente fluisce, o ‘coscienza profonda’, non limitato dalla nascita, né dalla morte, né da forme individuali di appartenenza. Poiché per il buddhismo nascita e morte sono solo porte di comunicazione fra una vita e l’altra, il fiume continuo della coscienza che scorre attraverso di esse contiene in superficie non soltanto gli stati di esistenza condizionati causalmente, ma la totalità di ogni possibile stato di coscienza, la somma totale di tutte le esperienze di un ‘passato’ senza principio che è identico ad un ‘futuro’ senza limiti. La coscienza spirituale (manas) rappresenta l’elemento stabilizzatore della mente, il punto di equilibrio in quanto centro di riferimento, la coesione dei suoi contenuti (Lama Govinda, 1972).

Il settimo senso è insomma la consapevolezza totale di se stessi in quanto compartecipanti al flusso del divenire cosmico, emanazione dell’Unità indefinibile che è alla base della totalità dell’esistente.

Ma esiste qualcosa che va anche oltre il settimo senso: è l’ottavo senso, quella capacità sensoriale talmente elevata da essere posseduta da un solo Cavaliere d’oro, Shaka della costellazione della Vergine, “l’uomo più vicino a Dio”. Se il settimo senso è totale autocoscienza e senso di appartenenza al Tutto, l’ottavo senso consente di trascendere la limitazione dei confini del proprio ego, di superare quella che nel buddhismo è definita l’illusione dell’io (anatta), comprendendo di essere non solo appartenenti all’Uno, ma coincidenti con esso. Questa facoltà, nel manga, è chiamata araya-shiki, termine giapponese ripreso dal sanscrito ālaya-vijnāna (traducibile in italiano come “Coscienza-ricettacolo” o “Coscienza-deposito”): esso è l’emanazione e la manifestazione della coscienza universale di base, l’ottava coscienza o ‘Camera della Coscienza’, paragonabile all’oceano sulle cui superfici si formano le correnti, le onde, i gorghi, mentre le profondità rimangono immote, imperturbabili, pure e chiare. La mente universale trascende ogni individuazione ed ogni limite. Essa è per sua natura assolutamente pura, rimanendo immutata e libera da ogni difetto di transitorietà, non turbata da egoismi, differenziazioni, desideri e avversioni (Lama Govinda, 1972).

Il Gold saint Shaka, unico possessore dell’ottavo senso, è un vero e proprio compendio di filosofia buddhista. Già al suo apparire, nella mente dell’avversario di turno si forma l’immagine di Shaka bambino che viene al mondo come reincarnazione del Buddha, sorgendo da un fiore di loto. Il loto che galleggia sull’acqua è simbolo della mente illuminata che emerge dal fango dell’esistenza per arrivare alla comprensione assoluta. Il nome stesso “Shaka” è una commistione fra il nome del clan familiare (“Shakya”) a cui apparteneva il Buddha storico Gautama, e il nome del re degli dèi induisti, Sakka, con cui, secondo i testi canonici buddhisti, diverse volte il Buddha avrebbe dialogato nel corso delle sue meditazioni (Samyutta Nikaya o Digha Nikaya, XXI, Prima parte, § 1, § 13).

Anche le tecniche di combattimento usate da Shaka aprono interi capitoli di filosofie orientali. Il “Tenma Kofuku” (rassegnazione del male) e il “Tenkuhaja Chimi Moryo” (liberazione celeste dai mostri maligni) sono tecniche che annientano l’avversario dopo aver generato delle illusioni mentali. La capacità di creare immagini fittizie che annebbiano la mente altrui richiama il concetto del “gioco di māyā”, la facoltà degli dèi induisti (in particolare di Visnu) di creare con la forza della mente universi illusori (compreso quello in cui crediamo di vivere). Le illusioni di Shaka ricordano la storia (risalente al VI sec. d.C.) del saggio Nārada, che chiese a Visnu di mostrargli il segreto della sua māyā. Visnu lo portò in una piana desertica dove chiese al saggio di recarsi in un vicino villaggio a prendergli dell’acqua. Bussando ad una porta, Nārada incontrò una bellissima fanciulla e sperimentò qualcosa che fino allora non aveva mai sognato: l’incanto dei suoi occhi femminili. Nārada s’innamorò della giovane, si stabilì nella casa della sua famiglia e, dopo un certo periodo – completamente dimentico di Visnu – la chiese in sposa. Passarono dodici anni, nei quali la coppia ebbe tre figli. Il dodicesimo anno la stagione delle piogge fu particolarmente violenta e il piccolo villaggio fu sommerso da un’improvvisa inondazione. La piena trascinò via i tre bambini di Nārada e gli strappò dal fianco la sposa. Nārada, dopo essere svenuto, riaprì gli occhi su una vasta distesa di acqua melmosa. Poté solo piangere.

“Figliolo!” udì dire da una voce conosciuta, che quasi gli arrestò il cuore. “Dov’è l’acqua che sei andato a prendermi? Ti ho aspettato per più di mezz’ora”.

Nārada si voltò. Invece dell’acqua vide il deserto. Trovò il dio in piedi alle sue spalle. Le pieghe crudeli della bocca affascinante si schiusero nella soave domanda: “Comprendi ora il segreto della mia māyā?” (Zimmer, 1993).

Un'altra tecnica di combattimento di Shaka è il Rikudo Rinne (“Girotondo dei sei mondi”). Con questo colpo, il Cavaliere della Vergine scaraventa l’avversario in uno dei sei mondi dell’aldilà: l’inferno (“un mare di fuoco, una montagna irta di punte aguzze, le grida di agonia che riecheggiano continuamente”), il mondo degli spiriti (“il tuo corpo diventerà pelle e ossa e la tua pancia sarà gonfia; cercherai il cibo per l’eternità e per la fame mangerai persino la carne dei morti”), il mondo delle bestie (“in cui vige soltanto la legge del più forte: ci si mangia e ci si uccide perché non c’è alcune legge a vietarlo”), il mondo della guerra (“il sangue scorre a fiumi e gli omicidi sono all’ordine del giorno; le guerre e le battaglie non hanno mai fine”), il mondo degli uomini (“un mondo instabile, che non appartiene né al bene né al male, dove si prova ogni genere di sentimento: gioia e rabbia, tristezza e felicità”), il mondo celeste (“il più pericoloso perché si può precipitare in qualsiasi momento nel mondo delle bestie, in quello degli spiriti o nell’inferno”). Anche i mondi descritti da Shaka appartengono alle antiche cosmologie ed escatologie buddhiste. Il Bardo Thödol (Il libro tibetano dei morti, scritto fra l’VIII e il IX sec. d.C. ma basato su dottrine di almeno una decina di secoli prima) li descrive con dovizia di particolari: sono i possibili mondi che appaiono all’anima del defunto nei sei giorni successivi alla sua morte, come possibili luoghi in cui reincarnarsi, qualora non si rifugiasse nella luce del Buddha. Il primo giorno compare una luce bianca, che rappresenta il turbamento mentale accumulato nella vita terrena: se si segue tale luce, si finisce col vagare nel mondo delle divinità per poi trasmigrare negli altri cinque generi di esistenza.

Il secondo giorno appare una luce opaca, proveniente dall’inferno: essa è la strada lungo la quale si incontrano le macchie dell’inquinamento accumulato dalle propensioni all’ira. Provando attaccamento per tale luce, si cade nell’inferno e nella melma degli intollerabili tormenti infernali.

Il terzo giorno compare una luce celeste che proviene dal mondo degli uomini: essa è la strada lungo la quale ci si confronta col proprio orgoglio violento; nutrendo attaccamento per tale luce, si scende nel mondo degli uomini per sperimentare di nuovo il dolore della nascita, della vecchiaia, della malattia e della morte.

Il quarto giorno si manifesta la luce gialla dei lemuri, frutto della cupidigia e dell’avarizia.

Il quinto giorno appare una luce rossa proveniente dalla sfera dei demoni, prodotta dalla gelosia del defunto. Se la si segue, si precipita nel mondo dei demoni col suo insopportabile dolore di lotte e contese .

Il sesto giorno compare infine la luce verde e scialba delle bestie, che conduce ad una reincarnazione animale.

Shaka padroneggia gli accessi a questi sei mondi grazie alla meditazione, nella quale usa ripetere la sacra sillaba indiana “AUM” o “OM”. Essa è il simbolo della compartecipazione di tutte le cose esistenti a un’unità originaria, è il suono primordiale della realtà senza tempo che vibra in noi sin dal passato senza inizio. È la vibrazione trascendente dell’innata legge di tutte le cose, il ritmo eterno di tutto ciò che si muove, un suono in cui la legge diventa l’espressione della perfetta libertà (Lama Govinda, 1972).

Perfettamente consapevole della legge di tutte le cose, conscio della propria natura transitoria e tuttavia direttamente connessa alla perfezione del Tutto, Shaka, nella sua ultima battaglia, si immola sacrificandosi in difesa di Atena. Particolarmente toccanti sono le scene in cui, poco prima di esalare l’ultimo respiro, il Cavaliere della Vergine ricorda la sua infanzia, quando, benché avesse solo sei anni, sedeva in meditazione giorni interi vicino ad una statua del Buddha, fino a riuscire a dialogare con l’Illuminato, chiedendogli perché il suo paese – l’India – fosse così povero; perché ogni giorno vedesse molti cadaveri galleggiare sul Gange e molti pellegrini immergersi nelle sue acque apparentemente desiderosi della morte più che della vita; perché, in definitiva, gli uomini nascessero per vivere una vita di sofferenze culminante nella morte. “Shaka – gli risponde fra l’altro il Buddha – non esiste una vita in cui c’è solo sofferenza. Dove c’è la sofferenza c’è anche la gioia e viceversa. Non devi dimenticare che la morte non è la conclusione di tutto: tutti quelli che sono nati sulla Terra e che sono stati chiamati santi hanno superato la morte. Se tu riuscissi a illuminarti di questo, nonostante tu sia nato come un comune mortale, diverresti l’uomo più vicino a Dio”. Il senso profondo di questo discorso è l’ammaestramento secondo cui il “prendere rifugio nel Buddha” (nella sua dottrina, nella via di comportamento e pensiero da lui additata, nella meditazione) implica vincere la morte, uscire dal ciclo di rinascite del samsara, così come riportato già dai testi canonici buddhisti che ripetono direttamente gli insegnamenti orali dell’Illuminato: «Quando una donna o un uomo hanno preso rifugio nel Buddha, hanno preso rifugio nella Legge, hanno preso rifugio nell’Ordine monastico, si astengono dall’uccidere, dal rubare, dalla licenziosità, dalla menzogna, dall’ubriachezza, dal causare sofferenza; costoro risorgeranno, dopo la morte del corpo, verso un sentiero di felicità e non di dolore» (Anguttara Nikaya, vol. III, cap. IV, § ii).

«Da chiunque, o monaci, la meditazione sia esercitata e seguitata; in lui non trova accesso la morte, in lui non penetra la morte» (Majjhimonikaya, vol. III, XII parte, IX discorso).

Memorabile è la scena in cui Shaka, sicuro della propria immortalità spirituale, trova la morte fisica. Il Gold saint muore nel “giardino del Sharasoju”, fra due alberi di Sala, laddove la leggenda vuole che sia trapassato anche Gautama. “I fiori sono belli – riecheggia la voce del Buddha – eppure un giorno devono appassire. Qualunque cosa nel mondo è effimera e non rimane neppure un istante nel medesimo stato. Tutto è mutevole, nulla è costante: è la legge dell’impermanenza; e questo vale anche per gli esseri umani. Ogni cosa è destinata alla caducità, anche ciò che è prospero cadrà in decadenza. I fiori sbocciano, poi appassiscono; le stelle brillano, ma un giorno si spegneranno; anche per la terra, il sole, l’intera galassia, persino per il grande universo arriverà il momento di morire. La vita umana, rispetto a loro, è come un lampo di luce. Nel brevissimo attimo della sua vita, l’uomo nasce, ama, odia, ride, piange, combatte, si fe

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Dott.Andrea Napolitano

psicologo, psicoterapeuta, ipnologo clinico - Milano - Roma - Padova

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