Dott. Andrea Napolitano

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Dott. Andrea Napolitano

psicologo, psicoterapeuta, ipnologo clinico

Karma e Reincarnazione

1.I miti e il mito di Er

 

Il concetto di “mito” in Freud: La mia tesi vuole essere occasione per un confronto in chiave comparatistica fra psicoanalisi e buddhismo, due delle più potenti weltanschauung che la storia abbia generato, ma che non sono state sufficientemente avvicinate tra loro per un confronto alla ricerca di punti di contatto, di divergenze, di possibili strade terapeutiche comuni. Il mito platonico di Er, che tratta di aspetti come la morte e la reincarnazione prendendo spunto dalla filosofia orfico-pitagorica che a sua volta affonda le proprie radici nelle antiche dottrine indo-buddhiste, può fungere da ideale mediatore fra due culture e due civiltà tanto diverse quali quella indiana antica e quella occidentale contemporanea. Il mito di Er è infatti riconducibile all’interpretazione psicologica che Freud dà dei miti ne L’acquisizione del fuoco, quali “espressioni di processi psichici universalmente noti raffigurati in forma camuffata per il puro gusto della rappresentazione”. Come sottolineano Abadi e Mangini, il vocabolo mythos ha un’etimologia che potrebbe derivare dal verbo myo, il socchiudere gli occhi per vedere meglio: per guardare dentro di sé occorre non farsi accecare dal reale. Myo, quindi, implica il socchiudere gli occhi, accedere a una dimensione semi-onirica, passare neuropsicologicamente al ritmo delle onde alfa o teta. Sonno e morte, Hypnos e Thanatos, fin dai tempi della mitologia greca sono legati indissolubilmente. Non a caso, molti sono i miti che parlano di morte, poiché dare un significato alla morte significa dare un significato alla vita.

 

Il mito di Er: Nell’antica Grecia, il mito che descrive più esplicitamente il fenomeno della morte è il mito di Er, narrato da Platone nel X libro della Repubblica. Er, creduto morto in guerra, torna in vita 12 giorni dopo il suo apparente decesso per narrare ciò che aveva visto nell’aldilà. Qui le anime appaiono al cospetto di giudici ultraterreni che le indirizzano verso una nuova vita celeste, infernale o terrena a seconda dei meriti acquisiti e delle colpe commesse nella vita appena terminata.

 

Ananke e le moire: Le anime disincarnate passano sotto al fuso di Ananke, che rappresenta la necessità, il destino immutabile che lega l’uomo al cosmo. Ananke è – come riportato dal filosofo neoplatonico Proclo – la progenitrice delle Moire: Làchesi, la distributrice delle sorti individuali; Cloto, la filatrice del destino; Atropo, la ratificatrice dell’immutabilità del destino. Làchesi canta il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro. Non a caso, è proprio Làchesi, colei che canta il passato, a proporre alle anime disincarnate una serie di possibili destini e disegni di vita.

 

La scelta delle vite: Ogni anima, a seconda delle tendenze che le sono proprie e delle esperienze maturate nella vita appena conclusa, arriva a scegliere una nuova esistenza. La superficialità o la saggezza nelle scelte rispecchiano il grado di evoluzione spirituale.

 

Il daimon: Una volta che tutte le anime hanno scelto la propria vita, si presentano davanti a Làchesi; ancora una volta, la Moira sovrintendente il passato determina lo svolgimento immutabile e consequenziale del futuro, affiancando a ciascuna anima un daimon, uno spirito custode, che la accompagnerà per tutta la vita e che darà adempimento al destino prescelto.

 

L’incarnazione: Le anime, infine, si reincarnano, dopo aver attraversato una piana calda e desertica ed essersi dissetate con le acque del Lete e dell’Amelete, i fiumi dell’oblio e della noncuranza, che cancellano dalla memoria le esperienze vissute fra un’incarnazione e l’altra. Un terremoto segna quindi l’ingresso dell’anima nell’utero materno. Questo “millenario viaggio” narrato da Platone è interpretabile anche come la lettura del cammino che ogni essere umano compie non tanto dopo la morte, quanto all’alba della propria vita. Il mito di Er racconta mitologicamente ciò che accade a ogni essere umano nei primi anni o mesi della propria vita. E lo racconta in termini che, oltre la cortina fumogena dell’esposizione simbolica, non sono dissimili da quelli utilizzati, due millenni dopo, da Freud.

 

 

2. L’oblio delle vite passate come simbolo della rimozione

 

Il concetto indo-buddhista di reincarnazione: Il concetto indo-buddhista e platonico di reincarnazione – secondo cui ogni anima si reincarna, dopo la morte, in una nuova vita condizionata dalla vita precedente andata dimenticata – corrisponde al concetto freudiano per cui l’esistenza conscia di ogni individuo è indelebilmente segnata da quanto vissuto nei tempi remoti dell’infanzia, dunque da esperienze rimosse, di cui non si è più consapevoli.

 

Retribuzione causale karmica e influenza del rimosso: il dukkha: I traumi infantili vengono rimossi perché insopportabilmente spiacevoli, così come le vite precedenti vengono dimenticate in ragione della loro dolorosità: va ricordato a tal proposito il concetto buddhista di dukkha, termine sanscrito traducibile con “sofferenza”, una sofferenza pervasiva dell’intera esistenza umana e con essa coincidente.

 

Le vite passate come contenuto della rimozione e del “primo tempo del trauma”: Se la dimenticanza delle vite precedenti simboleggia il meccanismo della rimozione, le esistenze pregresse stesse – quali contenuto di tale dimenticanza – simboleggiano il contenuto traumatico della rimozione, quello che Freud ha chiamato “il primo tempo del trauma”.

 

Il caso di Katharina: Freud ha teorizzato tale concetto nel 1894, trascrivendo, negli Studi sull’isteria, il caso di Katharina. Mentre il primo tempo del trauma è caratterizzato dalla non rappresentabilità, il secondo tempo riattualizza il primo, gli conferisce parola e significato, attiva la sua patogeneticità. Le vite precedenti vissute e dimenticate dalle anime disincarnate e reincarnate che popolano il mito di Er sono “primi tempi del trauma” consumati nel passato lontano e rimosso dei nostri primissimi anni di vita; e tuttavia irradiano i loro effetti nel presente, laddove il “secondo tempo del trauma” riattiva e rivivifica le paure, le angosce, i turbamenti sessuali sperimentati nell’infanzia o in una metaforica vita anteriore.

 

 

3. La giustizia retributiva come simbolo della coazione a ripetere

 

La legge del karma: non punizione, ma apprendimento e conflittualità interna: In Oriente, l’idea di retribuzione causale è centrale ed è stata teorizzata con il nome di karma, termine sanscrito traducibile letteralmente con azione volontaria, che produce degli effetti. Un karma (atto volontario) positivo produce effetti positivi, un karma negativo effetti negativi. Tali effetti possono prodursi anche in un’esistenza successiva, e perdureranno finché l’anima non avrà compreso l’errore commesso. Le sofferenze non sono, quindi, delle punizioni, ma delle lezioni d’apprendimento: l’anima, nel corso delle vite, andrà ad imparare – per migliorarsi – ciò che nelle vite precedenti ha dimostrato di non essere stata in grado di apprendere.

 

La coazione a ripetere nel mondo onirico e nella realtà quotidiana: Questo aspetto migliorativo piuttosto che punitivo è il vero significato dell’idea di karma. Ciò implica però che l’individuo andrà a cozzare perennemente contro le stesse situazioni problematiche finché non avrà risolto il conflitto interiore che è loro sotteso: e questo è lo stesso concetto espresso nella teorizzazione freudiana della “coazione a ripetere”. Freud parla della coazione a ripetere in Al di là del principio di piacere, facendo in particolare riferimento ai sogni delle nevrosi traumatiche. Ma la coazione a ripetere non si limita al solo mondo onirico, pervadendo anzi anche la realtà quotidiana: ecco così che, come descritto ne L’uomo Mosè e la religione monoteistica, una ragazza che è stata oggetto di seduzione sessuale da bambina piccola, può indirizzare la successiva vita sessuale in modo da continuare a provocare attacchi simili.

 

Il non-pensiero e l’ansia anticipatoria nella nevrosi traumatica: La coazione a ripetere è codeterminata da una situazione di “non pensiero” che impedisce all’angoscia di proteggere l’Io e che favorisce la produzione di un’angoscia primaria, che scalza le difese piuttosto che favorirle. Analogamente, nel pensiero indo-buddhista e platonico, non ricordare gli errori e gli insegnamenti karmici porta a sperimentare ripetutamente la lezione da apprendere. E le persone, seppur inconsciamente, creano attivamente lo scenario in cui possono, alternativamente, rivivere il loro trauma o apprendere la loro lezione: è il concetto freudiano di paradosso nevrotico, secondo cui i problemi individuali si perpetuano tramite l’ansia anticipatoria.

 

 

4. La dinamica dell’incarnazione come simbolo dell’indwelling

 

La voragine della terra come simbolo dell’ambiente uterino: Diversi passi della narrazione platonica sembrano indicare ciò che accade nel corso della nascita fisica e del successivo processo d’insediamento e integrazione della psiche nel soma, definito da Winnicott “indwelling”. Nel mito di Er, le anime, prima di nascere, sono racchiuse, quasi imprigionate, in una “voragine della terra”, simbolo dell’ambiente uterino che contiene il feto. Questa voragine della terra, infatti, si espande e contrae, promette al nascituro di consegnarlo al mondo e subito dopo lo racchiude nuovamente in sé, costituisce un rifugio nel quale accoccolarsi o un luogo di paura in quanto è il ponte che conduce ai pericoli e alle sofferenze della vita.

 

Custodi infernali e angoscia primaria: Gli esseri infernali degli inferi platonici e indo-buddhisti sono una proiezione di queste paure, del terrore di nascere, di quella che Rank definirà “angoscia primaria”.

 

Il processo mahleriano di individuazione-separazione: narcisismo e psicosi: Le sofferenze maggiori, secondo il mito di Er, toccano a quelle anime che vengono continuamente ricacciate nella voragine della terra, ossia nell’utero materno: fuor di metafora, a quei bambini a cui viene impedito il districarsi dallo stato di fusionalità che li lega alla madre, ai quali non è dato di completare il processo mahleriano di individuazione-separazione. Una delle possibili conseguenze è la formazione di una personalità narcisistica o di quei disturbi derivanti dal mancato riconoscimento del bambino come persona a sé, dal mancato rispecchiamento materno del piccolo, dal considerarlo semplicemente un’appendice narcisistica. Un’altra conseguenza della non risolta fusionalità tra madre e bambino è il possibile arresto della struttura di personalità del bambino al livello psicotico.

 

Nascita e “collusione psicosomatica”: La meta delle anime provenienti dal cielo visitato da Er è il congiungimento col corpo del bambino a cui sono state destinate. Il processo di congiunzione fra anima e corpo, al di là del linguaggio mitologico, è quello che sfocia nella nascita psicologica del bambino: è il processo d’insediamento della psiche nel soma definito da Winnicott indwelling o collusione psicosomatica e che è alla base della personalizzazione, il sentimento che si ha della propria persona nel proprio corpo.

 

 

5. Il daimon come simbolo dell’inconscio

 

Il daimon nel platonismo e nel buddhismo: Il daimon è, secondo il mito di Er, lo spirito custode che affianca l’anima nel suo nuovo cammino terreno. Analoghi spiriti custodi esistono anche nelle tradizioni indo-buddhiste: lo testimoniano ampiamente i Canoni Buddhisti o il Libro tibetano dei morti.

 

Il daimon come primo nucleo dell’inconscio: il daimon è colui che porta nel presente gli effetti del passato, le conseguenze del karma delle vite precedenti dimenticate: è quell’alterità presente in noi che attualizza le conseguenze del rimosso, dei traumi sepolti e scordati; è il primo nucleo dell’inconscio che si forma in seguito alla rimozione primaria e verso il quale convergono tutte le rimozioni successive.

 

Il daimon come potenziale numinoso nel buddhismo e come inconscio creativo in Jung: Nel daimon si può ravvisare anche quell’inconscio che Jung intendeva non solo come ricettacolo di traumi e desideri rimossi, ma anche come scrigno segreto, fonte creativa, Alter Ego dotato di vita e decisionalità proprie, amico o nemico. Anche nel buddhismo si trova un concetto simile, per cui l’inconscio è avvicinabile a un “potenziale numinoso”, celeste, ultraterreno, che precede il destino dell’incarnazione individuale.

 

Hillman e la “teoria della ghianda”: Hillman non si limita ad affermare l’esistenza del daimon come simbolo dell’ineluttabilità del destino umano e del senso di vocazione ad esso intrinseco; addirittura lo reifica, attribuendogli una volontà e un’ontologia propria. La sua “teoria della ghianda” afferma che siamo tutti venuti al mondo con un’immagine che ci definisce, che ciascuno di noi incarna l’idea di se stesso. La sua teoria, inoltre, attribuisce all’immagine innata, un’intenzionalità angelica, o daimoniaca, come se fosse una scintilla di coscienza.

 

6. Una visione olistica

 

De Santillana e Von Dechend: Il Mulino di Amleto: Sarebbe presuntuoso dire che questa è l’interpretazione più realistica della narrazione platonica sull’aldilà. I miti parlano, infatti, un linguaggio simile a quello dei sogni, e soggetto alle stesse loro leggi: la condensazione, la simbolizzazione, lo spostamento, la drammatizzazione. L’interpretazione psicologica con cui si possono leggere i miti non è allora più o meno corretta rispetto, ad esempio, ad un esegesi cosmologica, secondo cui i miti descriverebbero fenomeni di meccanica celeste. Una tale interpretazione è sostenuta ne Il mulino di Amleto, di Giorgio De Santillana e Hertha Von Dechend.

 

La precessione degli equinozi: In tale saggio si sostiene che, in qualche momento imprecisato dell’antichità, in numerosissime parti del mondo diverse e distanti tra loro, “nacque” una serie di miti destinati a trasmettere un’ingente quantità di dati tecnici riguardanti fenomeni di meccanica celeste, in primis la precessione degli equinozi[1], ufficialmente “scoperta” da Ipparco nel II secolo a.C., diversi secoli dopo.

 

L’asse, la catastrofe, l’eroe, il codice numerico: I “miti di fondazione” sono riconoscibili per la presenza di costante di tre punti cardine: un asse (un pilastro, una struttura lignea, un albero) che funge da vincastro di sostegno per il mondo; una catastrofe (nella maggior parte dei casi un diluvio) spesso di proporzioni cosmiche; un eroe, chiamato a ripristinare l’ordine universale. Un quarto punto comune a tutti questi miti, individuato dall’archeoastronoma Jane Sellers, è la presenza di un codice numerico, un ristretto gruppo di numeri legati al fenomeno della precessione. Tutti questi punti sono reperibili nel mito di Er.

 

Il mito come mediatore tra piano psicologico e cosmologico: L’interpretazione psicologica con cui si possono leggere i miti non è più o meno corretta rispetto all’esegesi cosmologica. I due livelli di lettura possono semplicemente coesistere, perché così è nella natura dei miti. Secondo una visione olistica, che richiami il famoso detto gnostico per cui “come in alto, così in basso”, ciò che accade sul piano psicologico riflette ciò che accade sul piano cosmologico e viceversa: il mito è un buon mediatore fra i due piani!

 

Religione, scienza, psicoanalisi e mitologia come vie verso la verità: I miti sono un gioco di specchi che forse dicono più verità di quanto siamo disposti loro generalmente ad attribuire. Una verità forse più esperibile proprio socchiudendo gli occhi, come suggerisce l’etimologia di “mythos”. Può darsi che la psicologia occidentale non sia che una mitologia contemporanea che tenta di approssimarsi ad una verità inattingibile, mediante nuovi dogmi e paradigmi di riferimento – la biologia, la sessualità, le fasi di sviluppo – ritenuti più veri in quanto accreditati della fede e dalla devozione post-moderne verso la scienza.Ben venga, tuttavia, questa nuova mitologia, anche se – come tutte quelle che l’hanno preceduta – continuerà ad arrogarsi il diritto di esegesi definitiva. L’interpretazione ultima ai fenomeni dell’esistenza non c’è e non ci sarà mai. O se c’è, è posseduta solo da chi, come Er, ha compiuto il suo viaggio conclusivo, stavolta senza il transito di ritorno. Da chi, come Er, ci sorride guardandoci dall’alto, forse a sua volta socchiudendo gli occhi per vederci meglio.

 

 

7. I punti di contatto tra psicoanalisi e buddhismo

 

La meditazione e la scoperta di sé: Il nostro viaggio nella Grecia antica e nell’Estremo Oriente sarebbe un mero e sterile esercizio intellettuale se non conducesse anche a padroneggiare degli strumenti utili per migliorare il benessere psicologico proprio e altrui. Bisognerà tuttavia capire se alcuni degli strumenti del buddhismo possono concorrere ad impostare un cammino terapeutico in accordo con la visione psicoanalitica, o se le due weltanschauung possiedono più punti di frizione che di accordo fra loro.

  • Meditazione e libere associazioni: Lo strumento terapeutico di derivazione orientale sicuramente più conosciuto in Occidente è la meditazione. Come afferma Epstein, le pratiche di concentrazione, in accordo con il fine psicoanalitico di progressiva scoperta del sé, servono a fornire stabilità, mentre la mentalizzazione della meditazione buddista, permette intuizioni psicologiche sulla natura del sé. La meditazione, quale cammino verso la conoscenza di sé, può essere addirittura accostata alla tecnica delle libere associazioni: il primo analista a rendersene conto fu Joseph Thompson.
  • Ampliamento della coscienza: La meditazione è una tecnica finalizzata, come sottolinea Pagliaro, anche ad ampliare il livello ordinario di coscienza, a sviluppare la consapevolezza, a liberare dalla sofferenza e tutelare la salute.
  • Benefici psicofisici: la meditazione si caratterizza sul piano fisiologico con: riduzione del tono muscolare; riduzione della frequenza cardiaca; della pressione arteriosa; della frequenza respiratoria; della temperatura periferica cutanea; dell’attività elettrodermica spontanea; aumento dell’intensità del ritmo alfa cerebrale con occasionale comparsa di ritmi lenti (teta); riduzione dell’attivazione del sistema nervoso autonomo e neuroendocrino; regolazione della produzione di cortisolo; l’aumento notturno della melatonina; la riduzione della noradrenalina; l’aumento della serotonina; l’aumento del testosterone.
  • Comprensione delle radici del dolore individuale: La meditazione è utile soprattutto per consentire all’uomo di comprendere e superare lo stato di dolore e sofferenza esistenziale in cui spesso si trova gettato. Analogamente, la psicoanalisi cerca di scoprire le radici antiche e inconsce del dolore individuale, nella medesima convinzione che il prenderne consapevolezza sia un passo fondamentale per arrivare ad un maggiore benessere psichico.

 

Il determinismo psichico: Nella filosofia buddhista è ravvisabile un rigido determinismo, simile a quello che si trova nel pensiero freudiano. Secondo Freud, la vita psichica individuale è inflessibilmente determinata dalle esperienze passate rimaste indelebilmente impresse nell’inconscio. Lo stesso determinismo è, secondo il buddhismo, alla base della legge karmica di retribuzione morale.

  • Jospeph Thompson: determinismo freudiano come applicazione del karma alla psicologia: Secondo lo psicoanalista Joseph Thompson, il determinismo psichico freudiano è interpretabile come un’applicazione della Legge del Karma non solo agli stadi fisici e morali della vita, ma anche alla scienza psicologica.

 

La resilienza: Un altro aspetto comune a psicoanalisi e buddhismo è l’idea della significatività della sofferenza, legata alla consapevolezza di dover amplificare la propria resilienza, intesa come capacità di trarre profitto dai dolori della vita, dando loro un significato.

  • Polly Young-Eisendrath: dalla sofferenza alla responsabilità e autoconsapevolezza: Soprattutto nella lotta contro la depressione, la meditazione può offrire un aiuto importante alla psicoterapia. Come scrive la psicoanalista Polly Young-Eisendrath, la sofferenza depressiva, filtrata attraverso la meditazione, può infatti permettere di sviluppare il percorso della resilienza: dalla sofferenza all’autoconsapevolezza, e poi alla compassione, alla conoscenza di sé.

 

L’orientamento etico: Erich Fromm, nel suo saggio Psicoanalisi e Buddhismo Zen, ravvisa, quali punti di convergenza fra i due sistemi: un comune orientamento etico; una ricerca di autonomia da qualsiasi genere di autorità; un rifuggire da un’eccessiva intellettualizzazione; e soprattutto la finalità decisiva di rendere conscio ciò che è inconscio.

  • Fromm: dalla cupidigia all’autocoscienza: L’orientamento etico è comune allo Zen e alla psicoanalisi. Una delle condizioni per la realizzazione dello Zen è il trionfo sulla cupidigia. Questa è l’intenzione anche della psicoanalisi. Nella sua teoria dell’evoluzione della libido dalla fase orale recettiva, attraverso la fase sadica orale, la fase anale, fino alla fase genitale, Freud implicitamente stabiliva che il carattere proprio della sanità è uno sviluppo da un orientamento cupido, crudele, meschino a un orientamento attivo e autonomo. Tuttavia, né la psicoanalisi né lo Zen tendono a far sì che l’uomo conduca una vita virtuosa, sopprimendo il desiderio 'malvagio', bensì si attendono che il desiderio malvagio possa dissolversi alla luce e al calore di un allargamento della coscienza.

 

L’autonomia dall’autorità: Un altro elemento in comune tra Psicoanalisi e Buddhismo è il rifuggire dall’ipse dixit, l’insistere sulla necessaria autonomia da qualsiasi autorità. Questo è uno dei motivi per cui Freud critica la religione, la cui essenza starebbe nell’illusione umana di poter sostituire la dipendenza da un padre soccorritore o punitore, con la dipendenza da Dio: con la fede, l’uomo perseguirebbe a vivere in uno stato di dipendenza infantile, anziché maturare facendo leva sulla propria forza.

  • Fromm: il buddhismo come religione senza Dio: Ma allora – si chiede Fromm – cosa avrebbe detto Freud a una religione nella quale non è alcun Dio né alcuna autorità tradizionale di nessun genere, ad una religione il cui fine primario sia precisamente quello di liberare l’uomo da ogni soggezione, di renderlo attivo, di mostrargli che proprio lui e nessun altro porta la responsabilità del proprio fato?

 

Il rifuggire dall’eccessiva intellettualizzazione: È tipico dei maestri Zen il mettere in difficoltà i discepoli sottoponendo loro dei quesiti senza soluzione, i cosiddetti koan, che mettono il discepolo nell’impossibilità di cercare rifugio nel pensiero intellettuale.

  • Fromm: Koan e psicoanalisi: L’analista, secondo Fromm, dovrebbe fare qualcosa di simile; dovrebbe evitare l’errore di imbottire il paziente di spiegazioni e interpretazioni. Egli deve al contrario sottrargli una razionalizzazione dopo l’altra, un appoggio dopo l’altro, fintanto che il paziente non abbia più via di scampo, e aprendosi un passaggio attraverso le finzioni che gli opprimono lo spirito, finalmente diventi conscio di qualcosa di cui non era conscio in precedenza.

 

L’autoconsapevolezza come percorso dall’Es all’Io, dall’inconscio al conscio: Proprio il diventare consapevoli di qualcosa che precedentemente era inconscio, e, in generale, l’intero progressivo passaggio dall’inconscio al conscio è, secondo Fromm, il più importante punto di contatto fra psicoanalisi e buddhismo, la finalità superiore comune ad entrambe. Infatti, lo Zen si pone come obiettivo la conoscenza della natura propria di ognuno: ricerca, insomma, il 'conosci te stesso'. Analogamente, l’elemento più caratteristico dell’approccio psicoanalitico è il suo tentativo di rendere conscio l’inconscio, ovvero, in termini freudiani, di trasformare l’Es nell’Ego.

  • Fromm: lo Zen e il malessere esistenziale: La progressiva conoscenza di sé, lo svelamento dell’inconscio nel conscio, sono per Fromm degli impareggiabili antidoti contro le nevrosi e le depressioni tipiche del nostro tempo: per Fromm i nuovi 'pazienti' non sono malati nel senso convenzionale, ma soffrono di malessere esistenziale, decadimento interiore. Si rivolgono allo psicoanalista senza sapere di che cosa realmente soffrano; si lamentano di essere depressi, afflitti dall’insonnia, infelici nel matrimonio, insoddisfatti del lavoro. Non vedono che tutte queste cause di malcontento sono solo la forma conscia nella quale la nostra cultura permette loro di esprimere qualcosa che giace nel profondo, e che è comune a varie persone. La malattia comune è l’alienazione da se stessi, dai propri simili, dalla natura; la consapevolezza che la vita ci scivola di mano come sabbia, e che si morirà senza aver vissuto; che si vive nel bel mezzo di ogni bene e che, ciò nonostante, non si è felici. Di fronte alla “malattia del secolo”, la meditazione Zen è indicata da Fromm come una delle possibili strade per salvarci dalla follia o dalla menomazione, per esprimere la nostra capacità di essere felici e di amare.

 

 

8. Le differenze tra psicoanalisi e buddhismo

 

Il concetto psicoanalitico di “individuazione” e la concezione buddhista di “anatta”: La scoperta del sé è la più importante una finalità comune a psicoanalisi e buddhismo. Ma proprio dal raggiungimento di questo scopo si dipanano le successive differenze fra i due pensieri. Se, infatti, per la psicoanalisi, l’individuazione del sé personale e della propria separatezza sono dei fondamentali porti d’approdo, questi concetti sono, per il buddhismo, pur se indispensabili, meramente propedeutici allo sviluppo di una filosofia che non crede nella realtà ultima di tale sé individuale, considerato illusorio e integrabile in una visione olistica in cui esso è solo un’eco dell’armonia del Tutto.

  • Il sé come gioco di māyā: es. del carro: Uno dei più importanti insegnamenti del Buddha – senza dubbio quello più distante dall’ottica psicoanalitica – è l’idea di anatta, (termine sanscrito traducibile con “non-sé”), il concetto secondo cui l’“io” con il quale ognuno di noi si identifica sia illusorio, privo di sostanzialità. Il “sé”, per il buddhismo, non esiste, è solo “gioco di māyā”, un’espressione parziale dell’unità dell’esistente. Meditando, si esperisce come non sia possibile identificare il “sé” né con il solo corpo (soggetto a deperimento), né con la sola mente (in continuo mutamento e sempre necessitante di rapportarsi con altro da sé), né con i soli pensieri o le sensazioni (perennemente mutevoli). Il sé, per il buddhismo, è paragonabile ad un carro che – come riporta un esempio identico a quello usato millenni dopo dalla psicologia della Gestalt – non è identificabile in nessuno dei suoi singoli componenti, né nella semplice somma degli stessi.
  • Avijjā e karuna: L’illusione dell’io, l’ignoranza (in pali, avijjā) sulla non sostanzialità e sull’impermanenza del sé sono la radice prima di tutte le sofferenze dell’uomo. L’insegnamento buddhista sull’anatta è teso a liberare l’uomo da questa ignoranza e dai disturbi psicofisiologici che da essa sono causati. L’effetto psicologico derivante da una comprensione profonda della teoria dell’anatta, è quello di un completo cambio di prospettiva. L’asse attorno al quale si snodano tutte le azioni non è più il proprio piccolo sé da difendere; l’esistenza non è più un heideggeriano essere gettati nel nulla, ma diventa il rassicurante appartenere ad un ordine cosmico; gli altri non sono più nemici da cui difendersi o sui quali imporsi, ma manifestazioni del Tutto a cui si è indissolubilmente legati. Smettere di porre il sé al centro dei propri pensieri può far mutare la propria condotta in una direzione decisamente più altruistica, legata all’agire la compassione (karuna).
  • La Psicoterapia della Gestalt: L’idea della non sostanzialità del sé individuale, della sua convenzionalità, della sua esistenza legata esclusivamente ad una rete di interrelazioni, sta cominciando a comparire anche nella psicologia occidentale. Ad esempio, la psicoterapia della Gestalt critica la supposizione secondo cui qualcosa chiamato “sé” esista precedentemente a (e separatamente da) le relazioni e l’evoluzione in un campo relazionale; al contrario, sostiene che noi non esistiamo indipendentemente da un campo o contesto.
  • Mead, Bateson e la psicologia sociale: In modo simile, la psicologia sociale sostiene che il “sé”, in quanto forma organizzata di vedersi e di rappresentarsi nel mondo, è una dimensione “interpsichica” anziché solo “intrapsichica”. Per Mead, il Sé, l’identità, l’autocoscienza, sono entità riflesse, possibili solo all’interno di un contesto. Bateson affermava la coappartenenza della mente individuale ad un ordine mentale superiore.
  • Jaynes e la teoria della mente bicamerale: Per Julian Jaynes la coscienza individuale è un prodotto dell’evoluzione storica dell’uomo più che una sua caratteristica ontologica. Secondo la teoria della Mente Bicamerale, il cervello umano si sarebbe sviluppato da un’antica predominanza dell’emisfero destro fino all'attuale dominio dell’emisfero sinistro, comportando il passaggio da una “coscienza esteriorizzata” ad una “coscienza interiorizzata”. Le voci delle divinità che parlavano agli uomini, nell’antichità, non sarebbero state invenzioni letterarie o finzioni fantastiche, ma una reale modalità di funzionamento della mente dominata dall’emisfero destro, che produceva delle vere e proprie voci fisicamente ascoltate.
  • Salvini e gli STP: Anche Salvini afferma che ciò che chiamiamo “Io” è in realtà il risultato del complesso funzionamento dei molteplici sé che ognuno di noi si porta dentro, è il distillato delle diverse voci interiori che ci popolano ed agitano. Ognuno di noi, quando afferma l’esistenza del proprio sé, compie un’astrazione che si basa sulla possibilità di applicare a se stessi uno o più schemi di tipizzazione della personalità (modalità organizzative della conoscenza interpersonale basate su astrazioni categoriali generate da intenti valutativi che consentono di attribuire un insieme di caratteristiche psicologiche). Il buddhismo, ribadendo il concetto di anatta, tenta una decostruzione ante litteram degli STP che ognuno attribuisce a se stesso.
  • Assagioli e la psicosintesi: La molteplicità dei sé è riconosciuta anche da Roberto Assagioli, il padre della psicologia transpersonale e della psicosintesi. Assagioli propone un modello di sviluppo dell’uomo, che prevede un percorso dalla molteplicità all’unità, in cui si avvicendano, alla guida della personalità, prima subpersonalità parziali, poi l’io e la volontà personale, infine il Sé e la volontà transpersonale.
  • Jung, Hillman e il dialogo delle voci: Nell’analisi junghiana, l’accettazione delle molteplici istanze avviene tramite dialoghi interiori che tali istanze sono invitate dal terapeuta a sostenere. Il dialogo con le voci interiori proposto da Jung e Hillman è un modo per riallacciare il contatto con la parte divina e i daimones, comunque li consideriamo, che ognuno racchiude in sé. Parlare con le proprie immagini, parlare con l’anima, consente di intravedere un abbozzo di risposta alla domanda “cosa vuole l’anima?”.

 

Il riconoscimento psicoanalitico e il controllo buddhista delle emozioni: Un’altra differenza tra psicoanalisi e buddhismo sta nel fatto che la prima mira al riconoscimento e alla denominazione delle emozioni, il secondo al controllo consapevole delle stesse.

  • Soddisfazione dei bisogni ed estinzione dei desideri: cfr. Winnicott: Il controllo dei desideri consente di distinguere fra questi ultimi e i bisogni: un noto insegnamento buddhista invita appunto a “soddisfare i bisogni ed estinguere i desideri”. Un ammaestramento simile potrebbe peraltro essere ben accetto anche dalla psicoanalisi: in particolare Winnicott sostiene come una madre “sufficientemente buona” sappia soddisfare i bisogni del bambino, contenendone al contempo i desideri, ossia quel mondo pulsionale governato dal “principio di piacere” che prima o poi andrà limitato dal confronto col “principio di realtà”.
  • Il “nominare” psicoanalitico opposto al “dominare” buddhista: dar voce ad afferri e inconscio: Nel buddhismo, diversamente che nella psicoanalisi, la consapevolezza della differenza fra bisogni e desideri conduce soprattutto a tentare di controllarli e dominarli. Per il buddhismo, quindi, istinti ed emozioni vanno dominati, mentre per la psicoanalisi è necessario che essi vengano nominati.
  • La funzione di reverie: Secondo la psicoanalisi, il dolore diviene tollerabile nel momento in cui chi soffre riesce a dar voce ai propri affetti e al proprio inconscio, o a lasciare che altri li nominino per lui, esercitando una salvifica funzione di reverie.

 

Il non falsificazionismo della psicoanalisi e il relativismo buddhista: Un’ultima, fondamentale differenza, fra psicoanalisi e buddhismo è riscontrabile nel fatto che la prima è un “pensiero forte”, resistente al falsificazionismo popperiano, il secondo è un pensiero apertamente “debole”, relativistico, dichiaratamente non in grado di descrivere – se non metaforicamente – la realtà.

  • Diversi livelli di realtà: Per il buddhismo non esiste un’unica realtà, ma diversi livelli di lettura della stessa, nessuno definitivo; la realtà non è qualcosa di dato, ma qualcosa che l’uomo man mano crea.
  • Realtà come creazione della mente e realismo concettuale: Secondo il Buddhismo, la realtà è creata dall’uomo e dal suo pensiero. Simile è il punto di partenza del realismo concettuale: tale prospettiva psicologica occidentale afferma che è impensabile separare una realtà dall’impianto concettuale che la rappresenta. Il realismo concettuale pone alla base dell’esistenza la capacità creativa del pensiero e del linguaggio umani, che consente, come scrive Salvini, di credere nella realtà delle streghe, della Costituzione, della psicopatia o nel prestigio della vittoria, realtà concettuali costruite dall’uomo.
  • Relativismo terapeutico: l’approccio del “come se” ai deliri e al mondo interiore e culturale del paziente: Il pluralismo teorico e metodologico del realismo concettuale, e il relativismo culturale, teorico e metodologico buddhista, conducono ad un relativismo terapeutico che si allontana dalla psicoanalisi; ad un relativismo del “come se” per cui, come asseriscono Salvini e Benedetti, lo psicologo deve ‘credere’ ai fatti, alle produzioni, ai costrutti, anche allucinanti dell’interlocutore come se fossero reali, poiché in una certa misura lo sono. Anche il delirio di uno psicotico può infatti dire molto del paziente, esprimendone una possibilità vitale prima rimossa nell’adattamento a limitanti condizioni di vita e poi vissuta nel delirio. Se le teorie psicologiche hanno una verità relativa, e se bisogna credere alle produzioni anche deliranti del paziente “come se” fossero reali, ne consegue che – prima di iniziare qualsiasi tipo di terapia – bisogna conoscere la visione del mondo del paziente, le sue radici culturali, ciò in cui crede.
  • Relativismo e inattingibilità della verità: Come hanno scritto Jung, Fromm, Benedetti, Salvini, se un paziente crede di essere posseduto, forse un esorcismo potrebbe essere più efficace o meglio accettato di una psicoanalisi. Qualunque terapia deve innestarsi sulle credenze profonde del paziente. Non è forse poi così importante che tali credenze siano vere o meno: lo stesso buddhismo sottolinea che non esiste una verità: non è sbagliato credere in una verità, ma ritenere che essa sia unica, assoluta ed eterna.
  • Terapia come apertura alla spiritualità individuale, all’ascolto dei daimones, al cammino verso l’Uno: Se la verità come meta del cammino è inattingibile, quello che resta è il modo in cui tale cammino si percorre. Resta la possibilità di un cammino terapeutico aperto anche verso la spiritualità, la possibilità che la relazione terapeutica divenga attenta, come scrive Pagliaro, a contesti non solo familiari e sociali, ma anche energetici e spirituali. Fromm scrive che lo Zen fa sentire all’uomo la propria originalità e creatività: dimensioni che possono rivelare all’uomo da un lato l’illusorietà del suo ego (anatta) e il suo legame con l’Unità dell’infinito, dall’altro dischiudergli le molteplici potenzialità presenti nella sua anima espresse come daimones, i quali potranno, se ascoltati, indicare all’uomo i veri bisogni dell’anima (comunque la si voglia pensare) nel lungo viaggio verso la realizzazione del suo destino.

 

 

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[1] Movimento della Terra dovuto al fatto che l’asse di rotazione è inclinato rispetto alla perpendicolare al piano dell’eclittica, e ruota attorno ad essa, descrivendo un cono in senso opposto a quello di rotazione del pianeta; il ciclo completo di tale movimento è di 26.000 anni. Tale movimento è il responsabile del fatto che, ogni 2.160 anni, cambi la costellazione zodiacale sulla quale si può osservare il sorgere del sole equinoziale o solstiziale.

 

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Dott.Andrea Napolitano

psicologo, psicoterapeuta, ipnologo clinico - Milano - Roma - Padova

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