Dott. Andrea Napolitano

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Dott. Andrea Napolitano

psicologo, psicoterapeuta, ipnologo clinico

La ghiandola dell'anima. Breve viaggio intorno alla pineale

Introduzione: l’approccio psicosomatico

 

La psicosomatica (dal greco psiche, ossia anima, e soma, cioè corpo) è la disciplina che studia le reciproche interferenze tra la vita emotiva e la fisiopatologia umana.

 

Fra i suoi obiettivi, ci sono quelli di riumanizzare il rapporto medico-paziente; di centrare l’arte sanitaria più sul malato che sulla malattia; di considerare tutte le malattie alla luce dell’unità soma-psiche; di integrare, fra i fattori di rischio delle malattie fisiche, le variabili di personalità, gli stili di vita, i modelli comportamentali, le relazioni interpersonali del paziente.

L’approccio psicosomatico considera la malattia come un tentativo di comunicazione arcaica attraverso il corpo. Il corpo, parlando il linguaggio dell’inconscio, può raccontare quello che è stato dimenticato, trascurato, mai conosciuto, rivelando tanto problematicità nascoste quanto potenzialità sopite.

La psicosomatica si occupa pertanto di studiare le relazioni tra i grandi sistemi di regolazione dell’organismo umano – il sistema nervoso, il sistema endocrino, il sistema immunitario – e tra questi e la psiche intesa come identità emozionale e cognitiva che caratterizza ogni uomo.

Sarà qui approfondito soprattutto il sistema endocrino, ed in particolare la ghiandola pineale, della quale saranno esaminati sia gli aspetti puramente bio-fisiologici, sia quelli più strettamente psicosomatici, correlati quindi al vissuto emotivo e all’idea che dietro ogni malattia del soma vi sia un tentativo di comunicazione da parte della psiche, dell’anima.

 

Il sistema endocrino

Il sistema endocrino è formato da una pluralità di ghiandole a secrezione interna, ed è garanzia di buon funzionamento del corpo. Controlla infatti uno dei processi informativi di regolazione e omeostasi, che permette all’organismo umano di sopravvivere, presiedendo ai programmi genetici di moltiplicazione, differenziazione e rinnovamento cellulare, ed assicurando l’efficienza delle funzioni vitali, sia in condizioni normali che sotto stress.

Il sistema endocrino è coordinato con gli altri sistemi informativi del corpo, ossia il sistema nervoso e quello immunitario, con i quali comunica costantemente grazie all’invio di messaggi specifici contenuti negli ormoni. Gli ormoni sono molecole altamente specializzate, che, immesse nel circuito ematico, provocano risposte biologiche elettive da parte dei tessuti bersaglio, dotati di cellule con specifici sistemi di riconoscimento, chiamate recettori.

Gli ormoni sono prodotti dalle ghiandole che costituiscono il sistema endocrino: ipofisi, epifisi, tiroide, paratiroidi, surreni, pancreas endocrino, gonadi. Esse collegano il corpo fisico con la dimensione emozionale e simbolica, e con l’ambiente esterno, grazie alla sensibilità a particolari fattori ambientali quali la luce.

 

La ghiandola pineale: biologia e funzione

La ghiandola pineale, o epifisi, è una ghiandola endocrina di circa 150 grammi, grande circa quanto un pisello o una nocciola, dalla forma che ricorda quella di una piccola pigna (da qui il nome “pineale”), incastonata in profondità dentro il cervello dei vertebrati. Si trova, in effetti, proprio vicino al centro del cervello, tra i due emisferi, all'estremità posteriore del terzo ventricolo; è collegata mediante alcuni fasci nervosi pari e simmetrici (peduncoli epifisari), alle circostanti parti nervose. È nascosta in una scanalatura a cui aderiscono i due corpi arrotondati dell’ipotalamo, a cui la pineale afferisce, e che la rendono così una delle parti più protette del corpo.

Proprio perché così protetta, l’epifisi è una struttura che, fino a poco tempo fa, è stata poco studiata, benché tenuta in grande considerazione: essa era infatti conosciuta fin dall'era antica, anche per la sua frequentissima calcificazione in età matura, tanto da essere considerata la chiave per comprendere il processo d’invecchiamento.

La pineale controlla infatti l'orologio biologico del corpo, “l’organizzazione circadiana” che determina il ciclo giornaliero del sonno e della veglia. Ma essa non regola solo i ritmi del sonno, bensì il ritmo della vita stessa, come appare più chiaramente nel regno animale: qui, in primavera, la pineale riaccende le pulsioni sessuali; in autunno, segnala agli uccelli che è tempo di migrare, funzionando anche come una bussola fisiologica che li mantiene sulla giusta rotta di volo;  in inverno, avverte gli animali che è tempo di cercare un riparo e di entrare in letargo.

Negli esseri umani, il ruolo della pineale è più sottile, ma ugualmente importante. Essa è definibile come il “regolatore dei regolatori”, che sovraintende alle operazioni di tutte le altre ghiandole, che aiuta a mantenere nella norma i livelli giornalieri e stagionali degli ormoni, e che presiede alla crescita e allo sviluppo, dall'infanzia fino all'età adulta.

L’epifisi esercita il suo controllo attraverso una molecola chiamata melatonina: si tratta di un ormone che regola il ritmo circadiano di sonno e veglia, reagendo al buio o alla poca luce. La ghiandola pineale secerne difatti melatonina solo di notte: poco dopo la comparsa dell'oscurità, le sue concentrazioni nel sangue aumentano rapidamente e raggiungono il massimo tra le 2 e le 4 di notte, per poi ridursi gradualmente all’approssimarsi del mattino. L’epifisi produce la melatonina tramite alcune cellule pigmentate, i "pinealociti",  che sono simili alle cellule pigmentate della retina; esse rendono la ghiandola sensibile alla luce, e pronta a reagire all'alternanza periodica di luce e di buio, recepita e trasmessa dall’occhio. La melatonina viene secreta a partire dal neurotrasmettitore serotonina (5-idrossi-triptamina) per N-acetilazione e ossi-metilazione, in virtù del fatto che i pinealociti contengono l'enzima idrossi-indolo-ossi metil transferasi (HIOMT), enzima marker dell'epifisi. La trasmissione del segnale luminoso parte da una serie di neuroni che originano dalla retina e arrivano all’epifisi: si tratta di neuroni specializzati che contengono un fotopigmento sensibile alla luce; l’informazione è tradotta in un sistema neurale che, attraverso i nuclei soprachiasmatici, termina nella ghiandola, dove l’informazione sull’ambiente di luce-buio determina il ciclo di sintesi di melatonina. Anche gli impulsi magnetici, termici e addirittura sonori sono capaci di influenzare la produzione di melatonina, così come la quantità di serotonina, GABA e dopamina, in stretta relazione con gli stati emotivi. Tramite la melatonina, la pineale è in grado di stimolare il sistema immunitario mantenendo attivo il timo, nonché di dialogare con l’ipofisi e i neuro-ormoni.

La melatonina è, in definitiva, lo strumento che l’epifisi utilizza per definire tutti i ritmi umani, giornalieri e a lungo termine, dall'infanzia in poi. Tale ormone è peraltro già presente nella vita intrauterina: attraverso la placenta, la melatonina passa infatti dalla madre al feto. I bambini, pur non producendo la loro riserva di melatonina prima del terzo o quarto giorno di vita, la assorbono tramite il latte materno.

I livelli di melatonina sono massimi durante l'infanzia; calano poi durante l'adolescenza, e questa diminuzione determina l'aumento di altri ormoni, che segnalano all'organismo che è tempo di entrare nella pubertà. La melatonina è infatti l'ormone antagonista degli ormoni gonadotropi ipofisari: sono proprio gli elevati quantitativi di melatonina nell'individuo in età prepuberale ad impedirne la maturazione sessuale. All'inizio della pubertà, i livelli di melatonina decrescono notevolmente e nell'epifisi si accumula la sabbia pineale (anche se studi recenti hanno dimostrato che l'attività di deposizione della sabbia è legata ad una crescente attività secretiva).

Col passare del tempo, i livelli di melatonina continuano a decrescere, in particolare dopo i cinquant'anni. A sessant'anni, la ghiandola pineale produce una quantità di melatonina pari alla metà di quella prodotta a vent'anni. Non è certo una semplice coincidenza che, con il calo dei livelli della melatonina, compaiano i primi gravi sintomi di invecchiamento. Si può supporre quindi che l’epifisi e la melatonina non solo governino i piccoli cicli annuali, ma anche il grande ciclo di tutta la vita, determinando cioè l’inizio della pubertà e forse anche a la fine dell’età fertile. Infatti, disturbi dell’epifisi possono provocare nel bambino pubertà precoce.

L’invecchiamento non è solo un progressivo esaurirsi casuale delle singole cellule o dei singoli distretti dell’organismo, ma è un processo programmato, legato alla perdita delle capacità dell’organismo di adattarsi all’ambiente. A tal fine è importante vedere come l’epifisi è capace di controllare la respirazione cellulare: attraverso il TRH, essa regola la produzione di ormoni tiroidei da parte della tiroide; questa secrezione, inversamente alla melatonina, aumenta di giorno provocando un innalzamento del metabolismo basale, e viceversa decresce di notte. La regolazione del metabolismo basale, la termoregolazione, costituisce una parte importantissima delle capacità di adattamento all’ambiente: la perdita di tale capacità è tipica dell’invecchiamento.

 

La pineale nella storia e nella simbologia occidentali e orientali

La ghiandola pineale è una parte del corpo che, fino a poco tempo fa, è stata poco studiata, per via della sua complessa collocazione anatomica, ma che è stata tenuta in grande considerazione da moltissime culture, filosofie e religioni.

Ad esempio, il riferimento mitologico dell’epifisi è, nel mondo latino, Nettuno, il dio greco Poseidone, signore degli abissi oceanici, sede degli archetipi, delle energie rimosse, ricettacolo dell’inconscio, legato simbolicamente alle capacità di cambiare, di adattarsi evolutivamente ai mutamenti, di accedere a nuove possibilità trasformative, di conquistare l’equilibrio nella natura multidimensionale umana.

Ma più anticamente ancora, l’induismo dava grande importanza all’epifisi, che considerava misticamente come il terzo occhio del corpo, cosa che, in un certo senso, esso è davvero, se non altro per la sua sensibilità alla luce e al buio. Per le filosofie indo-buddhiste, la ghiandola pineale è considerata l'occhio che vede tutto, e simboleggia il terzo occhio onnisciente. Lo scopo primario nella pratica della meditazione, è proprio quello di riattivare la ghiandola pineale. Essa è ritenuta la struttura fisica indispensabile per consentire all'individuo di avere viaggi extradimensionali ed extratemporali, cosa che  accadrebbe soprattutto di notte durante i sogni, quando l’epifisi è maggiormente attiva. Shiva, il dio induista della distruzione e della rigenerazione, viene rappresentato con il cranio a protuberanza – una sporgenza che simboleggia il Terzo Occhio – e dei serpenti attorno ad esso.

La stessa iconografia è rinvenibile presso gli antichi egizi: ad esempio, il dio egiziano Osiris viene raffigurato con una protuberanza sul cranio analoga a quella di Shiva. Lo scettro dello stesso Osiris è costituito da una struttura estremamente simile alla ghiandola pineale, e da due serpenti incrociati (che potrebbero ricordare la doppia elica del DNA) che raggiungono la ghiandola, passando attraverso la spina dorsale.

Ma la medesima simbologia è utilizzata da tradizioni culturali e religiose ancora vive ed attuali nel mondo contemporaneo, quali il cattolicesimo. Ad esempio, lo stemma adottato dal Vaticano riprende lo scettro del dio egizio Osiris: è infatti costituito da una ghiandola pineale in cima e da due serpenti incrociati che la raggiungono ghiandola, passando attraverso la colonna vertebrale. Anche nello scettro del Papa, come nello scettro di Osiris, è stato posto il simbolo della ghiandola pineale, proprio sotto il crocifisso. Nella Città del Vaticano, inoltre, esiste una Piazza della Pigna (è superfluo ribadire che il nome “pineale” deriva dalla forma a pigna dell’epifisi), nella quale campeggia una statua su cui troneggiano simboli egiziani: due pavoni, simbolo molto usato dagli antichi egizi, e un sarcofago egiziano aperto, a simboleggiare la fine della morte e la transizione verso la vita puramente spirituale. Restando nell’ambito del cristianesimo, la ghiandola pineale è metafora del Puer, del fanciullo che può entrare nel Regno dei Cieli, ed è simboleggiata dalla colomba, a sua volta simbolo dello Spirito Santo.

La cultura “new age” denuncia la concordanza temporale fra il disinteresse contemporaneo verso il terzo occhio, la graduale atrofia della ghiandola pineale, la perdita di valori oggi considerati da molti “obsoleti” quali la spiritualità o l'amore per il prossimo, e il generale ottundimento delle  masse. L’atrofia dell’epifisi è peraltro un lento e naturale processo fisiologico: all'interno della ghiandola pineale scorre infatti acqua, che con il passare del tempo calcifica. Ma il processo di calcarizzazione ed atrofizzazione potrebbe essere accelerato a causa dell'alimentazione moderna, a base di bibite gassate, acqua fluorizzata, zuccheri raffinati. La ghiandola pineale, peraltro, si attiva e si "decalcifica" di notte, con l'oscurità e con il sonno; pertanto per riattivare tale organo atrofizzato, possono essere necessarie azioni quali dormire e meditare.

 

L’epifisi: sede dell’anima?

Anche per uno dei padri della moderna filosofia occidentale, il filosofo e matematico francese Renè Descartes, italianizzato in Renato Cartesio, l’epifisi è un organo fisico strettamente correlato alla dimensione spirituale. Per Cartesio la ghiandola pineale è infatti il punto privilegiato dove anima (res cogitans) e corpo (res extensa) interagiscono, in quanto unica parte del cervello a non essere doppia. Cartesio riteneva quindi l’epifisi sede dell’anima.

Cartesio si era domandato, come avevano fatto anche gli antichi, se l'anima fosse diffusa in tutto il corpo o se avesse una sede in un organo specifico (nella nostra cultura occidentale sono stati proposti il fegato, il cuore e il cervello). A tal proposito, Cartesio aveva distinto fra res cogitans (sostanza pensante, pensiero) e res extensa (sostanza materiale): sono queste due “sostanze” a costituire la realtà dell’uomo.

Per Cartesio, anima e corpo (ovvero res cogitans e res extensa) sono due realtà (o due sostanze) ben distinte, le quali trovano però un punto di incontro nella ghiandola pineale. È questa ghiandola che permette alla materia di influire sullo spirito: qualsiasi sensazione fisica passa da questa ghiandola per trasmettersi allo spirito. La ghiandola pineale è l'organo “esteso” che permette alla sostanza inestesa di penetrare nei corpi, e ai corpi di dialogare con la sostanza inestesa. La scelta della ghiandola pineale come sede privilegiata dell'anima è dovuta al fatto che essa sarebbe l'unica parte non doppia del cervello.

Parlare di ghiandola pineale come sede dell’anima non è però sufficiente: Cartesio deve far incontrare il mondo fisico, meccanicistico e privo di libertà d'azione, con quello spirituale, libero e immateriale. Diventa difficilissimo spiegare come l'anima muova il corpo e viceversa, poiché l'anima, per definizione, è sostanza spirituale e non riconducibile ad estensione: nell'ottica meccanicistica cartesiana, ogni movimento è causato da urti fisici, ma come fa il corpo materiale ad urtare l'anima immateriale per far sì che essa possa poi muovere, ad esempio, una mano, dopo che la mano stessa ha toccato una superficie rovente? Cartesio tenta di fornire una spiegazione ipotizzando un contatto tra anima e corpo, e servendosi di due realtà fisiche: la già citata ghiandola pineale e gli “spiriti animali”. Cartesio sostiene che la superficie calda metta in moto le particelle dei polpastrelli della mano; dopo di che, chiama in causa il reticolo nervoso, che era da poco stato scoperto in medicina: tale reticolo costituisce la via per la quale gli impulsi vengono trasmessi dalla periferia al centro e viceversa. Cartesio ipotizza che all'interno dei nervi ci siano degli “spiriti animali”: vengono definiti “spiriti” non perchè siano realtà spirituali, ma per via della loro estrema sottigliezza che rende loro possibile risiedere all’interno dei nervi; sono detti poi “animali” perchè trasmettono gli impulsi dell' anima. Grazie alla loro sottigliezza, questi spiriti animali vengono urtati dal calore della superficie, e trasmettono questo moto fino al cervello; negli animali l'impulso, arrivato al cervello, genera in modo meccanico una reazione meccanica; nell'uomo, invece, l'impulso nervoso guidato dagli spiriti animali incontra l'anima, che nel corpo ha la sua dimora provvisoria e che nella ghiandola pineale trova il suo punto di incontro e di rapporto con il corpo: qui, dall'incontro con gli spiriti animali, viene generata la sensazione. La ghiandola pineale è tale che i suoi più lievi movimenti possono mutare molto il corso degli “spiriti”, mentre, inversamente, i minimi mutamenti nel corso degli “spiriti” possono portare grandi cambiamenti nei movimenti di questa ghiandola.

La grande novità introdotta da Cartesio, e che va ben al di là della tradizione aristotelica, è che Aristotele non aveva diviso in due il mondo come invece fa Cartesio che traccia uno iato fra anima e materia. Cartesio riprende piuttosto Platone, il quale invece sosteneva che vi fossero due sostanze diverse, una spirituale e una materiale, che si accoppiavano momentaneamente; questo aveva portato inevitabilmente Platone a sostenere l'immortalità dell' anima, che invece in Aristotele può difficilmente essere giustificata: l'anima per Platone è qualcosa di radicalmente diverso dal corpo, e mentre per Aristotele una volta che il corpo muore anche l'anima non può che perire, per Platone invece l'anima, una volta morto il corpo, vive meglio da sola. Sotto questo aspetto Cartesio è fortemente dualistico e decisamente platonizzate. Cartesio, sulle orme di Platone, sostiene che nell'uomo res cogitans e res extensa sono momentaneamente accoppiate. Dire che queste realtà sono totalmente diverse, e che sono accoppiate solo temporaneamente, implica asserire l'immortalità dell' anima, cosa che Cartesio, da buon cristiano, sosterrà strenuamente.

 

Intorno all’anima, fra pigne e ghiande

Cartesio riprende, come abbiamo visto, da Platone, la dicotomia fra corpo e anima. Potrebbe essere interessante allora compiere una breve digressione intorno al concetto di “anima” così come descritto dal filosofo greco. Da dove viene l’anima? In che modo e perché si congiunge al corpo? Platone tenta di darne risposta tramite il mito di Er, da lui narrato nel X libro della Repubblica. Racconta qui Platone che un soldato greco, «Er (…), morto in guerra, dieci giorni dopo che erano stati raccolti i cadaveri dei caduti già putrefatti, fu ritrovato ancora intatto; portato a casa, stava per essere sepolto; dodici giorni dopo la morte, quand’era ormai disteso sul rogo, tornò in vita e, risuscitato, narrò quello che aveva visto nell’aldilà».

Er narrò che la sua anima, uscita dal corpo, si era trovata, assieme a molte altre, al cospetto di giudici che indirizzavano gli spiriti dei defunti verso due voragini che s’aprivano verso il cielo e verso la terra, per condurli rispettivamente in luoghi di beatitudine o penitenza. Ciascuna anima che, durante la vita terrena, aveva commesso degli errori, «per tutti i suoi delitti, per tutte le sue vittime (…) pagava partitamente il fio, dieci volte per ogni misfatto».

Le anime di coloro i quali avevano commesso i più efferati delitti giacevano in una profonda voragine dalla quale tentavano disperatamente di risalire. «Costoro si illudevano di essere (…) in procinto di uscire dall’abisso; ma ogni volta che uno di loro tentava di risalire, la bocca della voragine lo respingeva e mugghiava o perché la sua malvagità era inespiabile o perché non aveva ancora scontato la pena stabilita. Allora esseri crudeli, di fiamma viva (…), udito il muggito (…) ne afferravano prontamente alcuni e li trascinavano via».

Le anime che non si erano macchiate di terribili efferatezze trascorrevano invece sette giorni in una prateria; «All’ottavo giorno, tutte dovevano levarsi di lì, riprendere il cammino e giungere, dopo quattro giorni, in un luogo donde vedevano una luce che si diffondeva dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una colonna, assai simile ad un arcobaleno ma più lucente e pura. Raggiungevano la luce dopo un’altra giornata di cammino e di qui scorgevano in mezzo alla luce, fissate al cielo, le estremità dei suoi legami (…). Da queste estremità pendeva il fuso di Ananke, ad opera del quale si compiono tutti i moti circolari degli astri».

Ananke è la necessità, il destino immutabile, un destino che lega indissolubilmente l’andamento delle sfere celesti e il singolo cammino esistenziale di ogni uomo che procede dalla nascita alla morte: stelle ed esseri umani compartecipano paritariamente al Tutto, allo svolgersi di un Disegno Universale nel quale non c’è ancora traccia della dicotomia tra uomo e natura, dello iato tra cultura e biologia. Il destino individuale segue le stesse leggi cosmiche, la stessa giustizia trascendente che regolano lo sviluppo della vita vegetale o l’armonioso movimento di astri e pianeti.

Non solo in Platone, ma in tutta l’Asia si può ritrovare una filosofia secondo cui il Destino – sia quello individuale, microcosmico, sia quello universale, macrocosmico – è l’espressione di una storia già scritta, delineata, mossa da principi di armonia tutt’altro che casuali. D’altronde, se esiste un destino, un disegno per il singolo, è solo perché esiste un Destino, un Disegno per il Tutto: la porzione di destino dell’individuo rappresenta la sua parte nel grande ordine dell’Universo. Il Tutto e il particolare – i singoli individui – si muovono all’insegna di un’armonia sincronica.

Ananke è colei che organizza l’armonia dei destini dell’Universo e del singolo individuo. Secondo la religione orfica, Ananke è – come riportato dal filosofo neoplatonico Proclo – la progenitrice delle Moire: Cloto, la filatrice del destino; Làchesi, la distributrice delle sorti individuali; Atropo, la ratificatrice dell’immutabilità del destino.

Platone descrive infatti come, secondo il resoconto di Er, le Moire siano ordinatamente disposte attorno ad Ananke, svolgendo ognuna il proprio compito e collaborando affinché ciascuna anima assuma la responsabilità della scelta e del compimento della propria sorte: le Moire accompagnano l’anima dei defunti a scegliere il loro specifico destino post-mortem.

«In cerchio, ad uguale distanza l’una dall’altra, sedevano, ciascuna su un trono, le tre figlie di Ananke, le Moire, biancovestite ed incoronate: Làchesi, Cloto, Atropo; cantavano (…) Làchesi il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro (…). Le anime, dunque, appena giunte (…) dovevano subito presentarsi a Làchesi. Per prima cosa un araldo divino le disponeva in fila; poi prendeva dalle ginocchia di Làchesi le sorti e i modelli di vita».

È interessante notare che il destino futuro di ogni anima è tratto dalle gambe della Moira che rappresenta il passato. Un passato la cui immutabilità è simboleggiata dall’assoluta immobilità della stessa Làchesi: è l’araldo divino che da lei prende e distribuisce i modelli di vita, ed è lo stesso araldo che parla per lei: «Questo è il proclama della vergine Làchesi, figlia di Ananke. O anime effimere, inizia un altro periodo di vita della stirpe mortale, vita che si concluderà con la morte. Non vi sorteggerà un demone ma sarete voi stesse a sceglierlo. L’anima che la sorte avrà designata per prima, sceglierà per prima una vita alla quale sarà irrimediabilmente congiunta (…). La responsabilità è tutta di chi sceglie; la divinità è fuori causa».

«Un’esistenza desiderabile e non miseranda attende anche colui che si presenta per ultimo se compie la sua scelta con senno e la vive con coerenza. Non trascuri nulla chi sceglie per primo, chi sceglie per ultimo non si scoraggi!».

Dopo aver ascoltato queste parole, ogni anima, eccezion fatta per Er, veniva dotata di un numero d’ordine in base al quale effettuare la propria scelta di vita.

«L’araldo, intanto, poneva loro innanzi, sparsi al suolo, modelli di vita d’ogni specie, molto più numerosi di quanto fossero le anime lì presenti (…). V’erano tirannie, alcune destinate a durare, altre ad essere interrotte nel corso della vita e a finire nella povertà, nell’esilio e nella miseria. Vi erano vite di uomini celebri, alcuni per il loro aspetto, per la bellezza, il vigore e lo spirito agonistico, altri per la nobiltà del casato e per le virtù degli antenati e vi erano vite di uomini oscuri sotto questi riguardi ed egualmente di donne. Quanto all’anima (…) ciascuna diveniva necessariamente diversa secondo la vita che sceglieva; il resto era tutto mescolato insieme, ricchezza e povertà, malattie e buona salute e condizioni a queste intermedie».

La scelta delle vite individuali riservava momenti di gioia o di sconforto, rivelando la saggezza o la dissennatezza delle anime chiamate a vagliarle. «Il primo sorteggiato si fece subito avanti e scelse per sé la tirannide più grande. Compì la sua scelta per stoltezza e cupidigia, senza considerarne bene ogni particolare e non si avvide che in essa era implicito un fato che gli imponeva di pascersi delle carni dei suoi figli ed altri orrori. Quando poi l’ebbe esaminata senza precipitazione, cominciò a percuotersi e a lamentarsi della scelta fatta senza tener conto degli ammonimenti dell’araldo. Non incolpava, infatti, se stesso dei propri mali ma la sorte e i demoni e ogni altra cosa tranne se stesso».

«Era uno spettacolo interessante il vedere come le anime sceglievano ciascuna la propria vita, uno spettacolo compassionevole e ridicolo e, ad un tempo, meraviglioso. Il più delle volte, infatti, sceglievano condizionate dalle abitudini della vita precedente. [Er] narrava di aver veduto l’anima che era stata di Orfeo scegliersi la vita di un cigno perché non voleva nascere da grembo di donna, in odio a quelle donne che lo avevano straziato (…). Anche l’anima di Odisseo, cui toccò in sorte di essere l’ultima fra tutte, venne a fare la sua scelta e, deposta ogni ambizione per la memoria dei passati travagli, andò attorno per lungo tempo cercando la vita di un uomo privato e sfaccendato; a malapena la trovò, abbandonata in disparte e trascurata dalle altre anime. Come la vide, esclamò che avrebbe fatto la stessa scelta se fosse stata sorteggiata per prima e ben volentieri se ne impossessò».

Una volta che tutte le anime avevano scelto la propria vita, si presentavano davanti a Làchesi; ancora una volta, la Moira sovrintendente il passato determinava lo svolgimento immutabile e consequenziale del futuro, affiancando a ciascuna anima un daimon [demone, spirito custode] che le fosse custode per tutta la vita e che desse adempimento al destino prescelto. Il daimon «anzitutto conduceva l’anima da Cloto per ratificare, sotto la sua mano e il vorticoso girar del fuso, il destino che aveva scelto dopo il sorteggio. Toccato il fuso (…) la conduceva poi alla trama che Atropo tesseva per rendere immutabile il destino una volta filato. Di qui, senza voltarsi (…) andavano sotto il trono di Ananke e passavano dall’altra parte».

Le anime e i daimones a loro accoppiati si recavano quindi verso una pianura soleggiata ed afosa, solcata dal Lete e dall’Amelete, i fiumi dell’oblio e della noncuranza. Nonostante la sete e l’arsura, era prescritto che le anime potessero bere solo una modica quantità della loro acqua.

«Chi non era protetto dalla prudenza, ne beveva oltre misura; man mano che uno beveva, si dimenticava di tutto. Poi presero sonno; a mezzanotte rimbombò un tuono e la terra tremò. D’improvviso furono trasportati verso l’alto, chi di qua, chi di là, a nascere, veloci come stelle cadenti. A lui, Er, era stato vietato di bere quell’acqua, ma non sapeva dove e come si fosse ricongiunto al proprio corpo: sapeva soltanto che, all’alba, aperti d’un tratto gli occhi, si era visto disteso sul rogo. Così (…) è stato salvato dall’oblio questo mito e non è andato perduto; esso potrà salvare anche noi se gli presteremo fede; attraverseremo felicemente il fiume Lete e non contamineremo le nostre anime, anzi (…) saremo tutti convinti che l’anima è immortale e capace di reggere tutti i beni e tutti i mali; seguiremo sempre la via che conduce verso l’alto e praticheremo, in ogni caso, la giustizia, insieme con la saggezza (…), sia finché restiamo qui sulla terra sia quando avremo riportato i premi che spettano ai giusti, come i vincitori che li raccolgono nel loro giro d’onore, e saremo felici sia qui sia nel millenario viaggio che abbiamo descritto».

Il mito platonico di Er, riprendendo tradizioni pitagoriche, orfiche e le ancor più remote credenze religiose delle popolazioni dell’India, testimonia quindi come l’incarnazione di un’anima in un corpo sia un processo tutt’altro che casuale, ma rispecchi le propensioni, le tendenze, le acquisizioni e la necessità di apprendimenti, propri di ciascuna anima. Effettivamente i concetti portanti del mito di Er richiamano esplicitamente antiche credenze proprie dell’induismo prima e del buddhismo poi: su tutte, vi è l’idea della reincarnazione, secondo cui ogni anima si reincarna, dopo la morte, in una nuova vita condizionata dalla vita precedente andata dimenticata. Ma le analogie vanno oltre: tanto in Platone quanto nell’indo-buddhismo, le vite precedenti vengono dimenticate in ragione della loro dolorosità; va ricordato a tal proposito il concetto buddhista di dukkha, termine sanscrito traducibile con “sofferenza”, una sofferenza pervasiva dell’intera esistenza umana e con essa coincidente. Sia in Oriente che nel mito di Er si ritrova poi l’idea di una giustizia retributiva: nella tradizione estremorientale, la concezione di retribuzione causale è centrale ed è stata teorizzata con il nome di karma, termine sanscrito traducibile letteralmente con azione volontaria, che produce degli effetti. Un karma (atto volontario) positivo produce effetti positivi, un karma negativo effetti negativi. Tali effetti possono prodursi anche in un’esistenza successiva, e perdureranno finché l’anima non avrà compreso l’errore commesso: in questo senso il karma va inteso non come una sentenza punitiva ma come una lezione d’apprendimento. Infine, un’ultima similitudine riguarda il daimon che, secondo il mito di Er, affianca l’anima nel suo nuovo cammino terreno, e che è paragonabile ad analoghi spiriti custodi che esistono anche nelle tradizioni indo-buddhiste: lo testimoniano ampiamente i Canoni Buddhisti o il Libro tibetano dei morti.

È interessante notare come alcuni dei concetti espressi oltre due millenni or sono da Platone siano stati recentemente ripresi dallo psicoanalista junghiano James Hillman: egli, pur non postulando la ghiandola pineale come sede dell’anima (neppure Platone l’aveva peraltro fatto), curiosamente ricorre ad un simbolo botanico alquanto simile, asserendo che ogni essere umano è portatore di una “ghianda”, ossia di un’immagine innata di sé non diversa dalle sorti e dai modelli di vita che la Moira Làchesi proponeva alle anime in attesa di rinascere; inoltre, anche Hillman ritiene che ognuno di noi sia dotato di un custode inconscio che, come i daimones platonici, indirizza l’esistenza individuali secondo i binari che ciascuno ha stabilito per sé prima della nascita.

Ne Il codice dell’anima, Hillman espone così la sua “teoria della ghianda”: «Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo “me”. Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio fra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali (¼). Più in profondità, tuttavia, noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente – che è come dire ignorano – il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana (¼), il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta (…). Ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata (…). Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino (…). La mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta deliberatamente dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile, è perché ho dimenticato».

«La teoria della ghianda propone una soluzione antica: è stato il mio daimon a scegliere sia l’ovulo sia lo spermatozoo, così come aveva scelto i portatori, detti “genitori”. La loro unione deriva dalla mia necessità, non il contrario. Questo non aiuta forse a spiegare le unioni impossibili, le incompatibilità (¼), i veloci concepimenti e i bruschi abbandoni che si verificano tra genitori di molti di noi, e in particolare nelle biografie delle persone eminenti? Lui e lei si sono messi insieme non per unirsi ma per concepire quella persona unica e irripetibile, dotata di una particolare ghianda, che poi sono risultato essere io».

 

La malattia come segnale dell’anima

L’excursus appena compiuto intorno al concetto di “anima” sembra dirci qualcosa di molto importante: secondo una visione che parte dalle tradizioni indo-buddhiste, passa per il platonismo, transita attraverso la filosofia cartesiana, ed approda alla psicologia analitica junghiana, l’anima interpreta se stessa e la sua “ghianda” – l’immagine archetipica di se stessa – incarnandosi in un corpo, trovando una “collocazione fisica” forse proprio nella ghiandola pineale.

Sembra allora di poter dire che le antiche nozioni indo-buddhiste, orfiche, pitagoriche, platoniche, non sono poi così dissimili dalla visione psicosomatica dell’esistenza: in tutte queste tradizioni, il soma è espressione della psiche (anima); tutto ciò che accade all’uno è manifestazione dell’altra, e viceversa. Anche le espressioni posturali, fisiognomiche, cinesiche, e financo patologiche del corpo possono essere dunque lette come manifestazioni dell’anima.

Approfondendo questa linea di pensiero, Dethlefsen, psicologo e psicoterapeuta tedesco, considera l’uomo intrinsecamente malato: la sua malattia originaria, come già sosteneva il buddhismo, è l’illusoria credenza nel proprio ego separato. Questa patologica illusione si manifesta nei sintomi delle malattie, fisiche e psichiche, che sono quindi paradossalmente delle vie che possono condurre al perfezionamento.

La consapevolezza dell’unità somatopsichica, e della reciprocità che porta corpo e mente ad essere espressione dell’altra apparente polarità, è propria delle tradizioni orientali, quelle – dai Veda in poi – che considerano l’epifisi come il punto di riferimento e l’espressione fisica del Settimo Chakra. I chakra  sono, secondo l’induismo, centri energetici del corpo umano dalla forma di vortice (in sanscrito, chakra significa “ruota”): i sette chakra principali sono disposti in linea retta lungo la spina dorsale; essi sono, secondo la fisiologia tradizionale indiana, veri e propri organi elettromagnetici il cui compito è ricevere nutrimento e informazioni sulle varie frequenze vibratorie, in modo da sovraintendere le varie funzioni vitali (Soldati, 2007). Ogni chakra è collegato ad una ghiandola endocrina. In particolare, il Settimo Chakra, che si apre dalla ghiandola pineale, è il centro psichico del sapere superiore, sovraintende alla realizzazione dello scopo personale, è considerato il centro della divinità umana, grazie a cui l’individuo può cogliere la propria unità con la fonte divina. Esso è un ponte verso dimensioni superiori, ed è rappresentato nell’iconografia cristiana con l’aureola, che indica lo sviluppo di tale centro; anche nelle immagini degli illuminati orientali compare una crocchia che ha lo stesso significato, così come le corone dei re (il Settimo Chakra è anche detto chakra della Corona) e le acconciature dei sadhu, i “folli di Dio” indiani.

Il Settimo Chakra rivela la connessione della persona con la propria spiritualità e la completezza del suo essere (fisico, emotivo, mentale e spirituale). Se questo centro energetico è aperto, il soggetto sperimenterà di frequente la propria spiritualità, in modo personale, non dogmatico, come una trascendenza della realtà terrena nell’infinito, che comunicherà all’individuo un senso di interezza, di pace, di fiducia, facendogli sentire lo scopo della sua esistenza. Se invece il Settimo Chakra è chiuso, l’individuo difficilmente avrà una connessione basata sul sentimento della propria spiritualità, non proverà alcun “sentimento cosmico”, non avrà un senso centrato di sé e del proprio scopo nella vita, e potrà sviluppare una struttura di personalità masochistica o rigida (Brennan, 1987). Lo squilibrio del settimo centro energetico potrebbe inoltre portare a stati di inflazione religiosa, di onnipotenza, di psicosi mistica, di deflazione esistenzialistica (Soldati, 2007)

Analogamente, i disturbi della ghiandola pineale possono condurre a disordini immunitari, instabilità, vacillamento, squilibri dovuti alla mancanza di direzione e di affidamento ad un ordine superiore, insonnia, disagi psichici dovuti ad ambivalenze e dualismi (sopra-sotto,finito-infinito, vero-falso, bene-male), stress, paura, perdita di sostanze ed energie vitali, scompensi psicologici, episodi di personalità multipla (Cazzaniga & Rispoli, 2012). Inoltre, come già precedentemente sottolineato, i disturbi dell’epifisi possono provocare nei bambini un’insorgenza precoce della pubertà.

Un’epifisi funzionante può invece essere una grande amica che orienta e coordina la nostra salute, e che ci dona il ricordo della strada che possiamo percorrere per vivere la nostra personale evoluzione. Essa può diventare un punto di radicamento del sé oltre le polarità e può positivamente orientare sia la salute che la direzione esistenziale, dischiudendo l’apertura al “mistero” e a quell’“infinito” che ha tanto ispirato artisti, poeti, musicisti, psicoanalisti (ibidem).

Una ghiandola pineale in salute può addirittura essere considerata un ponte, una via di luce, una torcia per attraversare le tenebre dell’esistenza ritrovando se stessi nel cosmo, un viadotto fra il macrocosmo e il microcosmo, un cervello nel cervello che presiede alla connessione astrale con la memoria akashica (Bona, 2013).

 

Psicosomatica e anima: l’apertura di uno scrigno immenso

Abbiamo precedentemente osservato come per le antiche tradizioni indo-buddhiste, orfiche, pitagoriche, platoniche, il soma è espressione della psiche (anima), in modo tale che tutto ciò che accade all’uno è manifestazione dell’altra, e viceversa. Non solo: ogni destino, ogni malattia fisica o psichica, ogni malformazione o sana strutturazione del corpo fisico sono espressioni di un’anima che si reincarna di vita in vita, cercando il proprio perfezionamento, l’illuminazione, la riunione con il Divino.

Per quanto possano essere comprensibili le riserve di coloro i quali tenderebbero a mantenere separate psicologia e spiritualità, considerare la psiche nel modo in cui la descrivono le antiche tradizioni appartenenti alle più disparate latitudini, ossia come un’entità eterna che passa da un’incarnazione all’altra, apre scenari insospettabili, anche dal punto di vista psicoterapeutico: si tratta di scenari ai quali potrebbe essere omertoso rinunciare, come sarebbe codardo rinunciare a trarre la conclusione di un sillogismo una volta che sono state analizzate le sue premesse.

In effetti, alcuni psicoterapeuti hanno cominciato, da pochi decenni, a postulare l’eternità dell’anima e a curare la psiche a partire da questo presupposto. Il metodo da loro utilizzato è la cosiddetta “ipnosi regressiva”.

Si tratta di una tecnica che in Italia, probabilmente per motivi culturali, è ancora relativamente poco utilizzata – per non dire che è considerata tuttora tabù – sebbene pionieri del calibro di Angelo Bona e Marco Chisotti abbiano cominciato a portarla avanti con successo.

Tale metodologia è diffusa su scala ben maggiore negli Stati Uniti, dove esiste una letteratura specializzata che ha fatto breccia anche nel nostro Paese, grazie alle opere di autori divenuti presto noti non solo al pubblico specializzato, quali Brian Weiss, Raymond Moody, Jim Tucker, Carol Bowman, Joel Whitton e Joe Fisher.

L’ipnosi, lungi dall’essere una pratica sciamanica o misterica, è un semplice stato di coscienza “alternativo”, una condizione di mirata concentrazione e al contempo di profondo rilassamento, che può tradursi in uno stato di trance più o meno profondo. Mediamente, solo due o tre persone su dieci riescono ad entrare in una trance profonda, spettacolare, e priva di ricordi al “risveglio” come quella troppo spesso pubblicizzata nei film e negli show televisivi; ma è sufficiente un grado di trance media (ottenibile dal 60 per cento delle persone) per accedere alla visualizzazione spontanea di memorie o immagini.

A partire da questo stato mentale, l’ipnosi regressiva consente l’emergere di ricordi altrimenti nascosti che possono far luce sul passato dell’individuo. Tali ricordi possono risalire sino al periodo della prima infanzia, o andare ancora più indietro, permettendo di tornare alla vita intrauterina, o addirittura a ipotetiche vite precedenti.

Secondo i terapeuti che la utilizzano, questa tecnica ha il vantaggio di coniugare la ricerca individuale alla scoperta di sé, a cui la psicologia cerca di contribuire, con l’altrettanto nobile aspirazione alla spiritualità presente in ogni uomo, anche se spesso rimossa nell’odierna società individualistica e consumistica.

Inoltre, raramente chi pratica l’ipnosi regressiva ha la pretesa di affermare la veridicità delle ipotetiche vite precedenti che emergono durante l’ipnosi: anche se le presunte esistenze pregresse fossero solo delle simbolizzazioni metaforiche di esperienze infantili vissute dalla persona ipnotizzata, ciò non muta il potenziale terapeutico di tali visualizzazioni. Ciò che conta è, per il paziente, dare risposta alle difficoltà del presente trovando un senso o una spiegazione che ne collochi la radice nel passato, e che permetta di inserirle in un disegno esistenziale più ampio: cambia poco che tutto ciò avvenga in un piano reale o simbolico.

Peraltro, è assolutamente evidente che tutte le esperienze che, in ipnosi, vengono fatte risalire alle vite precedenti, hanno un legame inscindibile con il presente individuale: ma questo può essere considerato sia come una prova a favore dell’ipotesi meramente simbolica delle “esistenze pregresse”, sia come un implicito sostegno alla teoria indo-buddhista del karma, secondo cui tutto ciò che ci accade nel presente è il risultato delle nostre azioni passate, e i dolori che sopportiamo non sono altro che il faticoso tentativo di assimilare lezioni di vita che in passato non siamo riusciti ad apprendere.

Comunque la si voglia considerare, la letteratura sempre crescente che si occupa di ipnosi regressiva, o esplicitamente di reincarnazione, riporta numerosi casi di psicoterapie che hanno avuto conclusioni di successo proprio grazie alla riscoperta di un passato (reale o metaforico) in cui ritrovare le cause del malessere del presente.

 

Vignette cliniche

Allo scrivente è sorprendentemente capitato di assistere alla remissioni de sintomi patologici durante l’erogazione di forme di sostegno psicologico o psicoterapeutico che hanno consentito il dischiudersi di ricordi (o presunti tali) ancestrali.

Riporto i casi di due pazienti, Marco ed Elisa (i nomi dei protagonisti sono stati alterati, in ossequio alla loro privacy).

 

Il caso clinico di Marco

Marco è un ragazzo di 18 anni, la cui madre mi contatta chiedendomi un aiuto per il figlio e dicendomi che il ragazzo soffre di “attacchi di panico”. Fisso un primo appuntamento con la signora. Tamara si presenta come una quarantottenne estremamente attraente ed elegante, una donna in carriera loquace e sicura di sé, ma al contempo ben disposta a cogliere i propri lati emotivi e a condividerli.

Mi racconta di essersi lasciata alle spalle un matrimonio difficile, con un uomo diagnosticato, successivamente, come “schizofrenico”, soggetto ad eccessi di violenza verbale e, raramente, anche fisica. Da quest’uomo ha avuto due figli, di cui Marco è il primogenito. Benchè il marito si sia, nel tempo, rivelato un padre poco presente dal punto di vista quantitativo, tuttavia le è sempre parso che il rapporto coi figli fosse qualitativamente soddisfacente, sia prima che dopo la separazione.

Parlando di se stessa, Tamara narra di un’incessante ricerca interiore svoltasi a 360 gradi, passata attraverso percorsi più “ortodossi”, come la psicoanalisi che continua tuttora, ed anche più “esoterici”, con strade legate alla meditazione e allo sciamanesimo.

Dice che tali argomenti hanno sempre affascinato ma al contempo spaventato il figlio. Marco, racconta, è sempre vissuto in simbiosi con lei, e fra di loro c’è sempre stata una grande confidenza; il ragazzo ha cominciato da qualche mese a manifestare episodi di sofferenza che la psicologa della scuola ha classificato come attacchi di panico. Il giovane frequenta il V anno di un istituto tecnico, e dovrà a breve affrontare gli esami di maturità, prova che lo impaurisce molto. Gli “attacchi di panico” sono cominciati dopo una serata in cui il giovane ha fumato degli spinelli con degli amici: è stata la prima volta in cui ha fatto uso di marijuana e si è molto spaventato. Teme di essere sbagliato, cattivo, di aver ereditato tare schizofreniche dal padre. Ma soprattutto riferisce di sperimentare frequenti momenti che mi pare di poter ricondurre a episodi di derealizzazione, in cui si sente separato dalla realtà.

Dico a Tamara che sono disponibile a un primo colloquio con Marco, purché sia il figlio a telefonarmi e a prendere appuntamento, cosa che effettivamente il giovane fa nel giro di pochi giorni.

Marco si presenta come un ragazzo alto e magro, con un fisico asciutto ma muscoloso, un abbigliamento poco curato e impregnato di un manifesto odore di fumo. Il tono di voce è particolarmente rumoroso: Marco, invece che parlare, urla, anche se non sembra rendersene conto.

Conferma il racconto della madre, legando l’inizio delle sue manifestazioni psicopatologiche alle “canne” fumate in gruppo: da quella sera hanno iniziato a presentarsi i sintomi che l’hanno poi accompagnato per i mesi successivi, fino alla data odierna. Alcuni di questi sintomi sono quelli “classici” dell’attacco di panico: tachicardia, sudore freddo, senso di terrore. Ma altri sono decisamente più inusuali: Marco ha l’impressione che la sua “anima si stacchi dal corpo”, almeno parzialmente, e di non essere quindi più in grado di controllare e manovrare il corpo. Gli sembra di non vivere più nella realtà condivisa, ma di avere fatto un passo indietro, verso una realtà “altra”, come nel film “Matrix”, e ora di essere affacciato su un muro che separa queste due realtà, senza potersi permettere di conoscere la realtà “matrice” che lo spaventa, ma senza nemmeno essere in grado di tornare nella realtà intersoggettivabile, che gli sembra lontana da sé. Ed è una lontananza, questa, che gli pare palesarsi anche fisicamente: le cose gli sembrano più lontane, nello spazio, di quanto lo siano per gli altri; gli sembra che vibrino, o forse, dice, sono i suoi occhi a vibrare; gli sembra che le cose siano prive di sostanza.

I suoi rapporti con gli altri si sono modificati dopo l’insorgenza della sintomatologia: Marco afferma di essersi chiuso di più in se stesso, di aver chiuso il fidanzamento con una ragazza con la quale tuttavia continuano, peraltro sempre più sporadicamente, a frequentarsi come “trombamici”, di essere riuscito a parlare dei suoi problemi solo con tre amici fidati, confidarsi con i quali gli ha fatto, asserisce, molto bene. Soprattutto, però, i suoi rapporti sono cambiati perché prova in continuazione il timore di essere cattivo e sbagliato: gli capita di infuriarsi con qualcuno che crede possa avergli fatto qualche sgarbo e di accorgersi di avere fantasie aggressive nei suoi confronti; anche se non è mai passato all’azione, perché è perfettamente consapevole delle possibili conseguenze di un suo ipotetico agire violento, tuttavia bastano già queste fantasie per farlo sentire colpevole e malvagio, se non addirittura pazzo. Teme di aver ereditato la cattiveria e la pazzia da suo padre e da uno zio (un fratello del padre), quest’ultimo con, in passato, un ruolo importante in un’associazione malavitosa.

Dice di avere ricorrenti pensieri di morte e di suicidio, legati al timore di non riuscire più a liberarsi della sua sintomatologia, e più in generale alle preoccupazioni per il futuro, al non sapere come fare per diventare uomo, lavorare e badare ai suoi futuri figli, alla paura di non riuscire più a recuperare la serenità di quando era bambino.

Spesso si chiede se la realtà sia “vera” o tutto non sia, piuttosto, un sogno che lui o qualcun altro sta sognando.

Quando parla della sua situazione si innervosisce, addirittura si adira, vorrebbe una soluzione magica e immediata, anche se razionalmente capisce che non è possibile. È molto preoccupato dal fatto che i suoi “attacchi di panico” gli stanno facendo perdere molti giorni di scuola, tanto che è a rischio la stessa ammissione agli esami di maturità.

Nel corso del tempo, impernio la terapia contemporaneamente sull’insegnamento del training autogeno, quale strategia elettiva per contrastare gli attacchi di panico, e su colloqui di sostegno durante i quali aiuto Marco a comprendere che dietro i suoi sintomi c’è la paura di crescere, di tagliare il difficile traguardo della “maturità” (intesa sia in senso scolastico che esistenziale), di ritagliarsi una nuova identità non più infantile ma adulta, compito reso difficile dal suo timore di poter “replicare” i tratti disfunzionali già manifestatisi nel padre, diagnosticato come schizofrenico, o nello zio, con tendenze al comportamento criminale.

Durante la quarta seduta di training autogeno, che riepiloga e conclude gli esercizi atti a stimolare una rilassata “pesantezza” in tutto il corpo, a Marco compare spontaneamente un’immagine mentale: gli sembra di rivivere dei flashback ambientati nella Berlino degli anni ’40, con spaventose scene di guerra. Ha la sensazione di una morte violenta, dopo la quale la sua anima si libra verso l’alto per poi ridiscendere in un mare scuro, preludio alla nuova incarnazione. Profondamente rilassato ma al contempo partecipe della sua visione, Marco racconta la difficoltà di identificarsi con quel corpo così piccolo, embrionale prima e fetale poi, la complessità nell’imparare a manovrarlo, la sensazione del liquido amniotico in cui è immerso, come in un mare opaco. All’improvviso la narrazione si fa più concitata, e Marco esprime il timore di separarsi dal nuovo corpo: ha l’impressione che il suo piccolo corpo stia male, talmente male che la sua anima volteggi al di fuori di esso non potendo più controllarlo ma solo osservandolo dall’esterno, soffrendo di una sensazione analoga a quella che prova negli “attacchi di panico”; il resoconto di Marco presenta diversi punti in comune con i racconti di coloro che hanno vissuto esperienze di pre-morte, e termina con il definitivo ritorno dell’anima al corpo, in un nuovo, definitivo avvio dell’indwelling (il processo d’insediamento e di integrazione della psiche nel soma, così come definito da Winnicott). Le esperienze di pre-morte, o near-death experiences (Moody, 1975; Facco, 2010), sono caratterizzate da un’estrema prossimità alla morte che si verifica sovente nel corso di arresti cardiaci, malattie terminali o gravissime, incidenti: le persone che le sperimentano asseriscono di vedersi fluttuare fuori dal corpo e di osservare dall’alto il loro corpo apparentemente morente, con una visione dettagliata che sarebbe limitante ridurre ad un’allucinazione autoscopica; le persone riferiscono infatti dettagli particolari della scena, che non possono essere stati percepiti con i sensi fisici del loro corpo inerme, ma che vengono poi confermati dai testimoni; molto spesso raccontano di attraversare un tunnel che li conduce in un mondo luminoso pieno di amore incondizionato, dove delle entità di luce, descritte come parenti defunti o esseri spiritualmente elevati, li accolgono gioiosamente, esaminano con loro la vita terrena fino a quel momento vissuta, e infine li invitano a tornare sulla Terra, nel loro corpo, poiché il loro “momento non è ancora giunto”

Non so dire quanto, nella sua inaspettata visione, Marco possa essere stato influenzato dagli interessi “esoterici” della madre Tamara, peraltro parzialmente condivisi dal figlio. Gli chiedo comunque se sia a conoscenza di eventuali problemi fisici durante la gravidanza o il parto. Marco nega di sapere alcunché di simile; tuttavia, nella seduta successiva, mi racconta che la madre, richiesta in proposito, gli ha riferito di come invece abbia davvero avuto dei seri problemi fisici alla nascita che lo hanno avvicinato molto ad una precocissima morte: appena in tempo è stato tratto alla vita quando, poco prima del parto, il cordone ombelicale si stava avviluppando attorno al suo collo.

Riflettiamo su come l’assunzione di cannabinoidi possa aver stimolato in Marco delle sensazioni di paura e scarso controllo (cosa di per sé non infrequente) e come ciò possa aver fatto risuonare in lui il ricordo ancestrale di quella primordiale e rimossa esperienza di ben più grave perdita di controllo e di timore mortifero, vissuta alla nascita.

Alla fine dell’incontro, Marco pare molto più sereno, consapevole che i suoi problemi di “derealizzazione” e la sua paura di “staccarsi dal corpo, di non riuscire più a controllarlo” sono solo ricordi di un’angoscia passata, legata a un trauma ormai superato.

Nel corso delle successive sedute, il giovane, proseguendo nell’apprendimento dei diversi passi del training autogeno, vede via via diminuire d’intensità e di frequenza i suoi attacchi di panico e le sensazioni di derealizzazione. La frequenza scolastica riprende ad essere regolare, così come tornano ad ampliarsi le frequentazioni amicali, nonché quelle affettive con l’intreccio di nuovi flirt.

A fine anno, Marco supera con soddisfazione gli esami di maturità!

 

Il caso clinico di Elisa

Elisa è una donna di 34 anni, che mi contatta chiedendomi un ciclo di sedute di training autogeno, strategia psicoterapeutica che le è stata indicata dai medici che la curano per una ingravescente forma di fibromialgia, che la attanaglia da dieci anni.

Si tratta di una patologia che viene diagnosticata quando un paziente presenta dolori continui per almeno tre mesi e dolore alla palpazione su 11 di 18 punti di stimolazione. Altri sintomi caratteristici sono la stanchezza, i disturbi del sonno ed eventuali disfunzioni cognitive.

Da un punto di vista fisiopatologico, possono essere coinvolte disfunzioni ipotalamo-ipofisarie, disfunzioni immunitarie, disordini del sonno, disfunzioni mitocondriali, disfunzioni endocrine, difetti di coagulazione e infezioni croniche.

La fibromialgia ha inoltre un forte legame eziologico con lo stress che è allo stesso tempo causa e conseguenza della malattia.

Nel caso di Elisa, la patologia procura alla paziente persistenti dolori in particolare nel lato destro del corpo: i dolori si irradiano partendo dal fianco, ed arrivando alle spalle, al collo e alla testa. È in particolare la spalla destra a dolerle, anche se tutti i dolori stanno da tempo depauperando sensibilmente la qualità di vita della donna. Inoltre, Elisa soffre di atroci dolori all’ovaio destro, conseguenti ad una ciste che non vuole decidersi a togliere, poiché le è stato chiaramente pronosticato che un’eventuale operazione di laparoscopia rischierebbe di ridurre al lumicino le sue speranze di diventare madre.

Secondo l’interpretazione psicosomatica, le mialgie colpiscono soprattutto donne troppo identificate in una struttura o in un ruolo, che faticano a trovare nuove motivazioni, e che rischiano di scivolare nella depressione. Quando i dolori colpiscono il tratto cervicale, si può essere in presenza di un ipercontrollo restrittivo, che impedisce di guardare in alto e in basso. Quando ad essere in tensione è la zona trapezoidale, possono essere presenti paure persecutorie, ma si può anche essere perennemente pronti ad attaccare. Il dolore al tratto del cingolo sc

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Dott.Andrea Napolitano

psicologo, psicoterapeuta, ipnologo clinico - Milano - Roma - Padova

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