Dott.ssa Daniela Benvenuti

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Dott.ssa Daniela Benvenuti

Psicologa clinica cognitivo - comportamentale - Neuropsicologa forense

Cosa devo fare della mia vita?

Ed eccomi qui, finalmente ho preso il coraggio.
Vorrei chiedere un parere su una situazione che mi affligge da tempo (anni si può dire), e che mi impedisce di andare “completamente” avanti nella mia vita.
A tali fini dovrò inevitabilmente dilungarmi prima un tantino nelle premesse che mi hanno portato dove sono oggi.
I fatti stanno così: uscito dalle scuole superiori, dopo un percorso di studi portato a termine non certamente da studente modello, ma con una media piuttosto alta, non avevo la più ben che minima idea di quale fosse la facoltà universitaria che avrei voluto frequentare. Ovviamente non ero l'unico; si sa che l'istruzione italiana è abbastanza inefficace nell'orientare adeguatamente i ragazzi secondo le loro attitudini e il risultato di ciò è una grandissima dispersione.
Fatto sta è che avrei voluto continuare gli studi, credevo di avere tutte le carte in regola per farlo. Ero confuso, ma con tante idee.
Certamente sapevo benissimo quello che non avrei voluto fare (non mi vedevo né economista, né giudice o avvocato, né tanto meno ingegnere); ma non quello che volevo fare.
In cinque anni di liceo scientifico avevo tuttalpiù capito di nutrire un certo amore per la filosofia, materia in cui eccellevo, grazie anche a un insegnante favoloso. E un altro campo di studi dove stava crescendo il mio interesse era quello delle neuroscienze. Diciamo che mi sarebbe piaciuto studiare emozioni, sentimenti, pensieri dell'essere umano (e vivente) e riuscire a poter dare delle risposte “scientifiche” a questioni esistenziali.
Ho sempre avuto una grande attitudine all'introspezione, e tra le altre materie di studio che mi piacevano vi era indubbiamente lettere, nutrendo anche una grande attrazione per la poesia e per lo studio delle opere; al contempo, ero anche portato per la matematica, tanto da poter sfruttare questa cosa guadagnandoci qualche soldo come insegnante privato.
Sapevo benissimo che qualsiasi scelta dovevo fare dovevo prendere anche e soprattutto in considerazione il lato economico-occupazionale.
Alla fine, dopo aver passato notti insonni, più che a studiare sui libri per prepararmi all'esame di maturità, a fare una lista di pro e contro tra tutte le facoltà, (avvalendomi di statistiche del MIUR sui tassi di occupazione dopo gli studi, leggendo tra i forum opinioni di chi già frequentava, chiedendo consigli in giro praticamente a chiunque, parenti, amici, professori, ottenendo spesso posizioni in netto contrasto), ecco che prendo la decisione di iscrivermi al test di tre facoltà universitarie: medicina, biologia e psicologia.
Filosofia non la prendo nemmeno in considerazione poiché l'idea di dover essere un domani costretto a insegnare la materia stessa in assenza di altri sbocchi non mi alletta.
Il test di medicina non lo passo. Quello di psicologia si, arrivando addirittura tra le prime posizioni della graduatoria. Passo anche biologia, e alla fine propendo per quello. Il motivo è che studiando tre anni di biologia avrei puntato poi a iscrivermi a una biennale di neuroscienze.
Succede che perdo subito la motivazione, e con molta incertezza torno sui miei passi, pensando che dopotutto se avessi studiato medicina avrei avuto sicuramente possibilità di guadagni più alti e un lavoro praticamente assicurato. Ovviamente sempre rimanendo nel campo per cui provavo quest'inspiegabile attrazione, quello delle neuroscienze, continuando gli studi specialistici in psichiatria o in ultima analisi, neurologia.
Così abbandono a metà anno, senza nemmeno dare un esame e riprovo l'anno seguente col test di medicina, convinto di farcela questa volta. Risultato: passo il test, ma a causa di un problema con l'immatricolazione perdo la possibilità di iscrivermi.
Sto fermo un anno, riprovo quello successivo. Ormai forse senza nemmeno più tutta questa motivazione, ma mi trovo il test davanti e diventa una sfida con me stesso. Passo di nuovo (salvato nuovamente dalla grande quantità di domande di logica, che trovo decisamente alla mia portata).

Sin dal primo giorno di università, invece di provare una sana tensione elettrica per il percorso che mi si sta delineando davanti, sono preso d'assalto da innumerevoli dubbi e dalla paura di non essere all'altezza del ruolo.
Riecheggiano prepotenti nella mia mente le parole dei professori che ci ammoniscono più volte che quello del medico non è un ruolo per tutti, e che (come giustissimo che sia), abbiamo sbagliato se nella nostra scelta abbiamo pensato al risvolto economico della professione.
Iniziano a instillarsi quindi innumerevoli dubbi nella mia testa, sono preso dall'ansia.
Durante le lezioni sono troppo spesso distratto. Davanti alle diapositive che descrivono le cellule di un tessuto osseo, piuttosto che il ciclo di Krebs, la mia mente si sposta a Nietzsche o a Freud, o crea musiche e scrive canzoni.
Non posso fare a meno invece di notare un grandissimo entusiasmo stampato sulle facce di tutti gli altri miei colleghi, e questo accresce ancora di più il mio scoraggiamento. Non si trovavano lì per caso, ovviamente. Avevano intrapreso il percorso formativo che li avrebbe portati a realizzare il sogno della loro vita.
Arrivo a sentirmi un pesce fuor d'acqua. Tutti ovviamente interessatissimi per quel che concerne la totalità delle discipline mediche, laddove a me interessano solo di striscio. In molti noto addirittura un disprezzo per le altre aree del sapere umanistiche (tra cui la mia amata filosofia, sigh...).
In futuro, un ruolo da chirurgo o nel campo clinico, in uno qualsiasi dei tantissimi rami della medicina, a molti sarebbe stato indifferente: tutto ciò che volevano era diventare medico. Io che ero unicamente attirato dallo studio della mente, trovavo abbastanza strano vedermi con il camice da chirurgo, un giorno, a operare sui pazienti. Il sangue mi impressiona, l'idea di aprire cadaveri non mi fa gola.
Mi sento sempre più estraneo, sempre più un outsider a quel mondo.
Sebbene riesco anche a stringere qualche amicizia, sono costantemente colto da un ansia sociale che non mi permette di sentirmi mai a mio agio con gli altri; mi nascondo. Provo a studiare, ma con scarsissimo risultato. La mia mente mi porta sempre dove vuole lei, è una sfida persa in partenza.
Eppure non posso lasciare! Dopo tre anni passati a rincorrere questa strada, ed essere passato più volte ai test, suscitando le invidie di molti, devo portare a termine questa faccenda. Chiunque mi crederebbe pazzo, con un mercato del lavoro inesistente, a voler rinunciare a questa “strada spianata”.

Succede che, dopo aver resistito un anno, provando anche timidamente qualche esamino, crollo sotto il peso delle mie responsabilità verso me stesso, verso gli altri, verso il mondo.
Ho un grave esaurimento nervoso.
Da che avrei voluto esercitare la professione di psichiatra, sono costretto ad essere io il paziente. Ovviamente non do tutta la colpa al conflitto che stavo vivendo riguardo gli studi intrapresi, che credo abbia avuto soltanto un ruolo marginale.
Attacchi d'ansia sempre più frequenti, ipocondria, disturbo ossessivo del pensiero. Questioni esistenziali angoscianti mi avevano rapito a tal punto da rischiare quasi di andare “fuori di testa”, in una fitta, buia depressione senza fondo.

Per fortuna (o per merito mio e della terapia) mi riprendo.
E' da tempo ormai che non seguo più, anche se in testa balena spesso l'idea di ricominciare. Più scorrono i mesi e più mi è difficile riavvicinarmi, quasi come avessi una sorta di “ansia sociale” nel rivedere tutti i colleghi che ho abbandonato, e anche il fatto di dover ricominciare da capo, non sapendo bene da dove e rimboccarmi le mani dopo così tanto, mi avvilisce completamente.
Oppure, altre volte penso che avrei dovuto iscrivermi a qualche altra facoltà più “easy”, più in linea con i miei interessi (a volte penso che se avessi intrapreso un altro percorso a quest'ora lo avrei anche completato), ma poi si aprono tanti altri dubbi. Ho sempre molta paura di intraprendere un impegno a lungo termine.
Altre volte vorrei mollare tutto e andar via altrove (magari anche ricominciando un percorso di studi), ma poi penso che anche in quel caso probabilmente tornerei sui miei passi e mi sentirei ancor più inconcludente.
Nel frattempo per non stare “senza far niente” mi barcameno in tante altre attività, corsi di vario genere, dalla produzione musicale (altra mia fondamentale passione), alla programmazione informatica, al marketing, al teatro, alla fotografia... tutte cose che poi non ho il coraggio di approfondire realmente perché è come se avessi sempre un blocco che non mi impedisce di “reinventarmi” in qualche altro campo. Sento sempre questo peso di non aver finito gli studi (che avevo a malapena iniziato).

E intanto, il tempo che passa, io che divento sempre più “vecchio”, convivo col terrore che tutto mi stia scorrendo dalle mani e io impotente osservo ogni anno della mia vita volar via senza uno scopo. Come se ormai questa vita fosse “andata” e debbo rassegnarmi a ciò.
E il senso di inferiorità. Addirittura evito di conoscere nuove persone (e spesso anche di confrontarmi con quelle “vecchie”) perché non voglio espormi su quale sia il mio “ruolo” nella società, non voglio far sapere agli altri che non ho avuto il coraggio di completare gli studi che mi avrebbero portato a una stabilità, che non ho una laurea, in un mondo così competitivo e arrivista. E quindi non posso far altro che vivere nascondendomi.
Anche se gli amici non mi mancano, sento di aver difficoltà nelle relazioni di qualsiasi genere (che peraltro ho sempre avuto), ma in particolar modo con l'altro sesso. Vorrei riuscire ad abbandonare tutte le manie mentali, tutte le ossessioni e “buttarmi nella mischia”.

Ho 26 anni e vivo nella mia testa. Ancora rifletto ossessivamente su quale sia la strada da dover intraprendere mentre persone che mi sono vicine mi credono un perdigiorno che non ha voglia di dedicarsi a niente, alcuni addirittura dicono che dovrei iniziare a “riflettere” su cosa devo fare della mia vita (e questa cosa è talmente paradossale che mi fa implodere di rabbia). Non ho un lavoro, non ho una stabilità, ogni cosa che provo a fare finisce perché ho paura che anche se andasse bene non mi farebbe sentire realizzato, credo che c'è sempre qualcosa da qualche altra parte che debba esser fatto, ma non so esattamente cosa.

Caro Fausto, la sua lunga bellissima lettera analizza in maniera assai lucida il problema di fondo, che è un modo personale ma disfunzionale di affrontare le scelte che le appartiene come una seconda pelle e che la limita e di cui lei è estremamente consapevole. E' sostenuto da una mente assai brillante ma mi sembra che nella sua ansia di perfezione e di controllo estremi lei perda di vista l'obiettivo.

Perchè? Perchè tutto dev'essere perfetto e prevedibile? Perchè lei non si perdonerebbe se qualcosa sfuggisse alle sue personali previsioni? Cosa le fa pensare che si possa prevedere tutto nei minimi particolari? Si può trovare se stessi anche percorrendo strade diverse, perchè è la persona al centro del processo e non la situazione.

Serve spezzare il filo di questo pensiero tirannico che si avvita su se stesso e che blocca l'azione. Veda lei come...psicoterapia con un professionista preparato, mi viene da dire.

Ora a lei decidere...

Un caro saluto

domande e risposte

Dott.ssaDaniela Benvenuti

Psicologa clinica cognitivo - comportamentale - Neuropsicologa forense - Belluno - Padova

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