Dott. Franco Ferri

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Dott. Franco Ferri

psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista

Anoressia e Bulimia: cosa sono e come dobbiamo comportarci?

Quando sentiamo una madre esclamare “Io e lui siamo una cosa sola!” riferendosi al suo neonato nella beatitudine della poppata, ci rendiamo conto come essa rappresenti univocamente l‘unità indistinguibile madre-bambino: nella loro “con-fusione” abbiamo simultaneamente presenti sia l’appagamento per il buon latte dato e ricevuto, sia il piacere del calore generato e trasmesso, e infine il senso di benessere, protezione e reciproca soddisfazione dati dal contenimento dell’abbraccio materno.

Il potere simbolico di questa immagine però non sempre coincide con la realtà, che a volte è assai più complessa.

 

I disturbi del comportamento alimentare

Giulia, un’adolescente vivace e intelligente, con un passato bulimico e un presente anoressico, davanti alle angosce dell’imminente ingresso nell’età adulta, era venuta da me per essere aiutata ad affrontare la frustrazione incontrata nella costruzione di una identità più stabile e rapporti interpersonali più solidi. Attribuiva le sue difficoltà all’insoddisfacente rapporto col suo corpo, martoriato e martirizzato da lungo tempo in un continuo confronto fatto di attacchi bulimici e privazioni anoressiche: sentiva quest’ultimo, nella fase di passaggio dal corpo infantile al corpo adulto, come “una casa da ristrutturare” ma si era trovata in difficoltà nell’attraversamento delle trasformazioni adolescenziali, per loro natura, ineludibili.

La ricerca e la sperimentazione adolescenziale di nuovi rapporti, coi nuovi investimenti affettivi fuori dalle consuetudini infantili e più adeguati all’età, le avevano procurato parecchie delusioni, lasciando insicurezze evidenti nella struttura del suo sé. Le capitava spesso di guardare alla costruzione della sua identità adulta con ansia e preoccupazione.

L’incontro con lo psicologo lo sentiva come l’occasione per arrivare a decidere se sistemare i difetti strutturali della casa-corpo-sé, o ignorarli, depositando i problemi di base in soffitta, accettando in questo modo il rischio di conviverci senza averli risolti. La sua lucidità le permetteva di vedere qualche pro e qualche contro per ognuna delle due possibilità, senza però riuscire a scegliere.

Dopo una fase di reciproca conoscenza, insieme abbiamo valutato l’opportunità di un percorso che si è poi rivelato importante per la sua consapevolezza.

Vi è da dire che in Giulia, appena ci si avvicinava alla sofferenza psichica attorno alla quale si erano sviluppati i suoi sintomi, si coglieva con facilità una sorta di evitamento, un voltare lo sguardo da qualcosa di molto difficile da guardare in faccia: un dolore senza volto e forse senza forma, un disagio nascosto con radici assai lontane nel tempo. Ella sembrava restare in superficie, preferiva fermarsi sugli aspetti comportamentali, sui riscontri della bilancia.

Solo con molta, molta pazienza si poteva cogliere l’eco, soprattutto nei sogni, di sofferenze relazionali le cui propaggini conducevano alle esperienze primarie di sostegno e nutrimento della prima infanzia, per qualche ragione risultate insoddisfacenti. Rimaste sepolte nella memoria primitiva e mai sanate, queste sofferenze agivano senza essere riconosciute proprio nella relazione col terapeuta, comparendo regolarmente nei sogni che mi portava.

La psicoterapia con Giulia era, infatti, caratterizzata spesso da uno scollamento fra l’elevato livello di funzionamento intellettivo e sociale da una parte, e l’affettività e il mondo emozionale dall’altra, sorprendentemente immaturi o inadeguati. Si coglieva a malapena, o non si coglieva affatto, quella che gli psicologi chiamano “funzione riflessiva”, quella capacità di riflettersi nello sguardo degli altri come fonte d’informazione sul proprio modo di essere nel mondo e di entrare in relazione con esso.

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I mutamenti puberali di Giulia dunque, l’avevano costretta a fare i conti con una ridondante e perdurante confusione del senso di sé.

Riprendendo la metafora della casa, nella ristrutturazione bisogna porre molta attenzione al difetto originario: esso tenderà a manifestarsi nel punto di maggior tensione delle strutture portanti. Allo stesso modo in adolescenza, ogni disagio psichico e relazionale originario di qualsivoglia natura troverà la via per esprimersi nel punto di maggior vulnerabilità dell’individuo, laddove il corpo ormai sessuato, diventa il centro nel quale si raccontano le fragilità più nascoste.

Giulia, come capita a buona parte degli adolescenti, aveva però messo in atto, con le accresciute risorse fisiche e mentali prima non disponibili, le difese più tenaci proprio contro la presa di coscienza della sua sofferenza emotiva, particolarmente quella connotata da reminiscenze infantili. Si sentiva invischiata in una sorte di palude dove regnava la confusione su ciò che le accadeva nel corpo e nella mente, generativa a sua volta di confusione anche al suo senso di sé. Ella era in grado di vedere con lucidità come il procedere verso un futuro per lei indecifrabile si accompagnava con l’angoscia di dover abbandonare tutte quelle sicurezze infantili a cui era avvezza; coglieva la concreta possibilità di sentirsi gratificata e soddisfatta per le sue crescenti capacità, ma si sentiva allo stesso tempo inesorabilmente sedotta dal richiamo di sirene seducenti sotto forma di certezze e comodità infantili. Tutto questo con la testa. I suoi vissuti però non erano altrettanto chiari e la loro forma caotica si traduceva in momenti di grande disorientamento nei quali si sentiva portata ad agire senza pensare o a pensare senza riuscire ad agire.

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Davanti ad espressioni verbali come “fame d’affetto” può capitarci di associare che il senso comune a volte contiene più verità di quello che appare a prima vista.

La fame bulimica si presta allora, ad una lettura più riflessiva, come l’inconsapevole esibizione e simultaneamente il nascondimento di un famelico desiderio d’affetto: una sorta di cedimento ai desideri del corpo (ancorchè quelli di un corpo sessuato), volto a mascherare, a non vedere o a non far vedere, o addirittura non riconoscere, la corrispondente brama d’affetto. Di quale affetto?

In questa linea di pensiero, per converso, il blocco anoressico si configurerebbe come il nascondimento e contemporaneamente l’esibizione di inconsapevoli carenze negli investimenti affettivi: una mortificazione del corpo, e forse ancor più del corpo sessuato, per impedire l’accesso alla consapevolezza degli affetti in gioco.

Perché gli affetti (cioè gli investimenti affettivi) sarebbero sentiti come così pericolosi?

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Nel lavoro con Giulia, nella fase conclusiva della sua adolescenza, colpiva proprio la potenza del pensiero dispiegato per ingaggiare una lotta inesausta contro la sperimentazione di nuove richieste relazionali: ogni nuovo investimento affettivo si impantanava in un conflitto infinito fra istanze regressive (dove il corpo sessuato poteva essere lasciato sullo sfondo) e istanze progressive (dove il corpo sessuato era usato “meccanicamente”, senz’anima, e vissuto come fonte di angoscia). Ne risultava un pensiero scollegato dalle emozioni e dagli affetti, risolto in una comunicazione verbale priva di spessore emotivo.

In lei la ricerca di nuovi oggetti relazionali avveniva in un qualche modo congelando la parte emozionale e affettiva, sentita appunto come pericolosa. L’importante per Giulia era evitare il rischio di far emergere alla coscienza tanto i bisogni regressivi e i desideri di dipendenza infantile, quanto i fantasmi di una voracità affettiva esigente e incontrollata.

Il rifiuto del cibo si delineava allora dentro di lei come una sorta di finta (inautentica) battaglia contro le esigenze un “corpo organico” preso a sé stante, per mantenere una distanza di sicurezza dalla realtà del “corpo emozionale in relazione con un oggetto investito affettivamente”: il legame affettivo messo in gioco era sentito come fonte di grande sofferenza, perché connotato dalla confusione dei sentimenti nei confronti dell’altro e dei sentimenti verso sé stessa, sui quali le capitava di ricamare infinite trame senza alcuna forma definita.

Questa specie di accanimento terapeutico contro malesseri collocati illusoriamente nelle pretese del “corpo organico”, testimoniava la sua difficoltà nel maneggiare i fantasmi emozionali implicitamente coinvolti in ogni relazione autentica fra esseri umani: quelli dell’incontro con l’”altro”. Mettersi in gioco in un rapporto vero comporta l’accettazione del rischio di una possibile imprevedibilità e la capacità di tollerare ciò che non è ancora conosciuto. L’altro può accoglierci o respingerci, suscitare interesse o risultare deludente, essere disponibile o tirannico, affidabile o ingannevole e molto altro. …E può anche avere delle pretese insopportabili. Farsi conoscere per quello che si è comporta gli stessi rischi di scelte comportamentali non pianificabili: mostrare la capacità di accogliere o difendersi respingendo, investire l’altro di autentico interesse o rischiare di scontentarlo, essere percepiti come generosi o pretensiosi, essere sinceri o menzogneri… Scelte per le quali bisogna essere in grado di assumersene la responsabilità. Cosa non facile, soprattutto per l’inadeguatezza di un Sé fragile e immaturo come quello di Giulia.

 

I fantasmi notturni e quelli diurni agitati nella mente di Giulia dall’incontro con me nel “qui e ora” della relazione terapeutica davano corpo a quella confusione di sentimenti di un lontano passato per qualche motivo rimasti appunto bloccati in una sorta di rigida fissità, nei quali riverberava l’atteggiamento rimasto insaturo verso quell’oggetto primario che in epoca remota si occupava di lei. Fantasmi di dipendenza infantile segretamente sepolti nell’inconscio e che non potevano trovare spazio come tali in quella forma primitiva nella sua realtà attuale. Fantasmi inconsapevoli che parlavano di una madre depressa, dallo sguardo spento, senz’anima, con lo sguardo incapace di riflettere un mondo vivo e attirarla in una relazione vitale. Fantasmi inquietanti di una Giulia con una sua voracità dirompente e senza freni, col sospetto di essere dunque lei la causa di quella madre svuotata di ogni nutrimento e di ogni energia, il cui sguardo era investito del potere di far stare male più delle parole.

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Sul piano comportamentale, le nuove risorse mentali disponibili consentono agli adolescenti di mimetizzare in maniera molto efficace nel loro ambiente di vita la scissione fra ciò che può essere esibito e ciò che è e deve rimanere segreto. Di solito i giovani pazienti sono in grado di nascondere quelli che sono dei veri e propri rituali legati al cibo collocandoli dietro una perfetta normalità e adeguatezza sociale.

Le consuetudini legate alle grandi abbuffate sono così ben mimetizzate da risultare insospettabili, mentre quelle riconducibili a uno strenuo controllo sul cibo sono per lo più contrabbandate come insignificanti o come gioco ludico condiviso con altri (1).

Così era anche per Giulia: solo all’approssimarsi della maggiore età il suo problema è entrato nelle preoccupazioni dei suoi genitori e ha potuto essere preso in considerazione.

Dando una consistenza concreta, quasi palpabile, al problema originario non risolto del rapporto insoddisfacente con l’oggetto primario (quello che forniva calore e affetto assieme al nutrimento), l’età di mezzo ha costretto Giulia alla ricerca di una nuova sintesi fra bisogno e desiderio. Sintesi per lei difficile: una sessualità matura richiede un consolidamento dell’identità, e dell’identità di genere in particolare. Essa però veniva percepita da Giulia a livello preconscio come inconciliabile con la profonda, primitiva inadeguatezza del Sé. Inadeguatezza caratterizzata da vissuti di dipendenza/bisogno che minacciavano di riemergere ogni qualvolta le relazioni interpersonali adulte si proponevano come significative (2).

Desiderio e bisogno disegnavano le due facce della stessa medaglia: da una parte la ricerca di quanto di buono e piacevole può esserci nel sentirsi capiti, accolti e soddisfatti dall’oggetto relazionale aveva per lei la funzione di evitare che l’ambivalenza dei suoi sentimenti, carica di aggressività, affiorasse alla coscienza; dall’altra parte il desiderio di un oggetto benevolo e accogliente disvelava l’immaturità e l’inadeguatezza del suo sé rendendo evidente la dipendenza dall’oggetto relazionale. Quest’ultimo, per l’ambivalenza dei sentimenti di Giulia, proprio perché era desiderabile, era anche temuto e investito di vissuti tirannici, sadici e persecutori: bisognava per questi motivi tenerlo a distanza per non subirne la prevaricazione.

In Giulia, il bisogno di sentire in un qualche modo di avere un potere sul desiderio e sentirsi capace di sottrarsi ai fantasmi della dipendenza da un oggetto inconscio prevaricatore e malvagio, veniva riversato nella fantasia di un controllo totale sul corpo.

Strategia alquanto pericolosa.

Nella precedente fase bulimica di Giulia, in piena pubertà, comparivano invece fantasmi di sottrazione e accaparramento del cibo, che poi prendevano forma concreta in quella sorta di “imbottitura adiposa” che avvolgeva il suo corpo, con la funzione di proteggerla, almeno illusoriamente, dalla fame insaziabile e inesauribile di calore e affetto, eco di una relazione primaria se non incoerente, quantomeno insoddisfacente. Giulia si ricordava del periodo bulimico con un misto di incredulità e rimpianto: nella mente le è rimasta l’impressione che tutti si rivolgessero a lei soltanto con interrogativi e considerazioni sul suo peso, il che la mortificava, ma d’altro canto sentiva in quel modo di avere una identità, di essere al centro di attenzioni e interesse che la riempivano di angoscia ma la facevano anche sentire viva.

Nella selva intricata dei sentimenti consci e inconsci, il vomito compulsivo cui ricorreva aveva tanti significati che comparivano nei suoi sogni, a partire da quello del rigetto delle gratificazioni affettive ingurgitate, con lo scopo di sottolinearne lo scarso valore e negarne il bisogno vitale, o negare l’aggressività rapace e distruttrice dell’oggetto primario.

 

Si comprende allora come il lavoro di ricucitura tra presente e passato, tra conscio e inconscio, tra regressione e crescita, tra corpo e mente, e alla fin fine, tra il desiderio e il bisogno, sia stato con Giulia un lavoro non scontato, di grande pazienza.

Lo scopo della psicoterapia con lei non è stato tanto la ricostruzione del tutto ideale di quella magica fusione primigenia tra la madre e il suo bambino da cui siamo partiti, per tante ragioni irripetibile. Più ragionevolmente, nella prospettiva di una vita relazionale ed affettiva più piena, abbiamo lavorato d’impegno per l’ottenimento di una più consapevole rinuncia al sintomo contenendo la mortificazione dei sentimenti. Giulia ora afferma di aver ottenuto risultati soddisfacenti e si dice pronta ad affrontare la vita adulta.

La possibilità di un esito durevolmente positivo di questi risultati sarà in relazione alla sua capacità di attingere all’esperienza terapeutica per alimentare la sua fiducia nella possibilità di costruire relazioni adulte soddisfacenti per sé e per gli altri.

 

mail: franco.ferri49@yahoo.it

Mestre Venezia  335 5342663

ferrifranco.xoom.it

 

 

 

 

NOTE

(1) Alcuni report giornalistici riferiscono che negli Stati Uniti le adolescenti bulimiche sono molto attive nella rete e costituiscono gruppi di autogestione molto vivaci, in grado di suscitare anche un certo grado di allarme sociale.

(2) Molti resoconti di psicoterapie di tardo adolescenti mostrano come per la mente adulta di una paziente anoressica sia intollerabile la coltivazione di un desiderio nel senso adulto del termine. Quest’ultimo comporterebbe un adeguato esame di realtà col suo carico di frustrazioni e rinvii: nella mente anoressica il desiderio tende invece a connotarsi come un desiderio infantile, dove non c’è confine tra il desiderio e il diritto di tutti i bambini di essere capiti e soddisfatti nei loro bisogni, a prescindere.

Il desiderio diventa dunque un desiderio “corposo”, concreto, connotato col sentimento di un bambino onnipotente ma anche bisognoso. Ad esempio, un desiderio infantile come quello di rispecchiarsi negli occhi della madre, diventa evocatore del fantasma persecutorio di un infante assolutamente ingordo che ha inaridito il seno della madre, la quale di conseguenza, non può che rispondere con lo sguardo spento di una madre “svuotata” e inutile: un evidente cortocircuito tra desiderio e bisogno.

Altri resoconti portano in evidenza i fantasmi conflittuali di identificazione con la madre nella riproposizione del conflitto edipico adolescenziale, oppure l’assenza dell’immagine del padre dentro la mente della madre e nella mente della bambina come ostacolo per il passaggio dalla bidimensionalità relazionale alla tridimensionalità edipica.

 

 

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