La ragazza dai capelli rossi

Mi viene segnalato il caso di una ragazza che soffre di anoressia non accompagnata da bulimia e ha un passato di tentativi suicidari. Mi sono chiesta a lungo se fosse per me troppo ponderoso prenderla in terapia perché temevo ingerenze controtransferali così forti da non permettermi di gestire la situazione.

La giovane età della ragazza (ventenne), il fatto che si sia rivolta lei al Servizio, oltre ad un pizzico di masochismo, mi spingono ad accettarla in cura.

Per ottenere cosa, ci chiediamo entrambi?
Per cercare di ascoltare ed accogliere, ma per me ciò, anche se non ne disconosco l’importanza, non è abbastanza. La mia speranza è invece quella di rendere B. più “consapevole” della sua malattia.

B. entra e si guarda attorno nervosamente. Il fatto che ci troviamo in una stanza più o meno spoglia, come tutte le altre del Servizio, non sembra infastidirla, mi sembra più che altro impaurita.

Appare subito chiaro che, sebbene si sia presentata spontaneamente, è molto ambivalente riguardo alla terapia.

Mi limito a comunicarle che faremo un ciclo di colloqui psicoterapici, non le so ancora dire quanto durerà, lo vedremo con il procedere della terapia.
Non si parla molto, ne si parlerà molto anche in seguito, almeno se si considera il verbale come l’unico, o il privilegiato, modo di espressione. Saranno soprattutto i suoi occhi, ancora di bambina, resi più grandi dal forte dimagrimento, a parlare.

L’anamnesi è presto detta: figlia unica, nata prematura al settimo mese di gravidanza, in incubatrice per circa un mese, vive lì (verosimilmente) il suo primo abbandono. B. fra le altre cose mi racconta che la madre, guardandola nell’incubatrice, aveva capito subito che sarebbe sopravvissuta perché si vedeva che era una “combattente”. Dopo che B. fu dimessa, la madre sarà iperprotettiva fino a quando la paziente, andata all’università in un’altra città, si affrancherà sempre di più dai genitori.

Sono genitori che, per un verso, le hanno dato sempre tutto quello che lei voleva, per un altro, non l’hanno mai lasciata veramente libera di fare ciò che avrebbe desiderato. Quando le chiedo perché non esprimesse ai suoi i propri desideri, la risposta è sempre la stessa: “tanto non avrebbero capito”. Un’altra possibile spiegazione della sua acquiescenza estrema è che si sia trovata a dover fronteggiare situazioni emotive molto pesanti, fra le altre la rabbia della madre che si sentiva intrappolata in una vita che non riconosceva come propria: di qui anche la sua, di B., paura di essere abbandonata dalla madre.

Pazienti che nella prima infanzia hanno subito da parte dei caregivers aspettative molto forti e/o la richiesta inconsapevole, da parte dei medesimi, di invertire i ruoli di modo che siano i figli a prendersi cura dei genitori (Miller, 1990) vanno spesso soggetti all’asservimento emotivo quasi completo, contraddistinto dall’inclusione nel proprio Io dei bisogni profondi di chi si prende cura di loro. Tali bisogni, poiché sono profondi e quindi primitivi, vengono immessi nel bambino come parti di sé. A questo punto il bambino si trova di fronte ad un bivio: o sceglie di allontanarsi emotivamente da questo gioco perverso, oppure, seppure inconsapevolmente, lo alazzoni. E’ questo un fenomeno che porterà la persona, diventata adulta, a non essere se stessa in quanto troppo è stato proiettato in lei.

Il sintomo di B. insorge quasi subito dopo l’allontanamento da casa, con la fantasia che, con la sua magrezza, almeno in un campo, quello corporeo, si sarebbe sentita a suo agio. Mi descrive infatti più e più situazioni in cui si era percepita fuori posto, ad esempio perché era più cicciotella delle altre, o perché al mare veniva sfottuta a causa della madre che non le permetteva ancora di portare il bikini, o perché alle elementari, all’uscita da scuola era assalita da un generico senso di malessere che col tempo era riuscita a ricondurre ad un misto di ansia, vergogna e paura. Non abbiamo mai capito a che cosa fossero dovute l’ansia e la paura, mentre era chiaro ciò che provocava la vergogna.

Per tutto l’iter scolastico B. era stata eccellente in tutte le materie, i genitori-insegnanti le facevano prendere lezioni, non perché rischiasse delle insufficienze, ma perché potesse prendere un voto più alto.

Si può già iniziare a notare alcuni elementi:

 

  • La solitudine tremenda di questa ragazzina, che appena ha un attimo di tempo, si mette a leggere, ma non per pensare, bensì per fuggire nei mondi-sentimenti dello scrittore, immaginando al tempo stesso di essere in una barca in mezzo al mare irraggiungibile da chiunque.
  • I genitori, che, quando sono presenti, la soffocano invece di capirne i desideri reali.
  • La mancanza di qualsiasi moto di ribellione, perché “a che cosa sarebbe servito? Come al solito non avrebbero capito, o avrebbero addirittura peggiorato la situazione”.
  • La mancanza di qualsiasi relazione amorosa: in primis perché così si sarebbe perso tempo che invece andava dedicato allo studio e poi per la paura delle emozioni. Già, le emozioni, queste sconosciute.
  • Appunto, l’assenza (presunta) di emozioni. Vedremo infatti che proverà dei sensi di colpa laceranti per la morte del nonno materno quando lei aveva diciassette anni. Rimasta a casa dal funerale, perché il giorno dopo aveva un’interrogazione (non ebbe il coraggio di chiedere alla nonna di andare con loro e loro non le dissero nulla), non provò niente per quella morte (aveva cordialmente odiato questo suo nonno, che esigeva che fossero gli altri a dare lustro al buon nome della famiglia, mentre lui non faceva niente dalla mattina alla sera essendo in pensione).
  • La decisione di prendere in mano la sua vita in quella dimensione in cui essa può essere più facilmente messa in atto: la gestione del proprio corpo.

 

Approfitta dell’essere da sola in un’altra città per mettere in moto diete che diventano sempre più drastiche, finchè dopo circa cinque mesi dall’inizio del quasi digiuno, la famiglia inizia a volerla alimentare forzatamente (anche con flebo quindi). La descrizione delle poche flebo fatte mi richiama alla mente i racconti di donne violentate: B. vive queste flebo (e non certo a torto lo sono) come un’imposizione sia sul suo fisico, sia sulla metodica che lei aveva trovato per non soccombere all’angoscia devastante.

Finalmente, un po’ i genitori, un po’ lei stessa, chiedono aiuto al Servizio. Il primo colloquio mette insieme me, il mio tutor, B. e i suoi genitori. B. starà praticamente sempre in silenzio. Io, dopo una pausa di riflessione, accetto di prenderla in cura.

Qui tana libero tutti è qualche cosa che dà il batticuore: vedo entrare questa ragazzina che è arrivata ad un livello di “starvation” che le si vede la lanugine che le sta crescendo nel corpo. Vi è una distorsione dell’immagine corporea (non so se vi fosse anche all’inizio dell’anoressia, cioè una forma di dismorfofobia, ma se anche fosse non lo ritengo l’elemento fondamentale) per cui non si rende conto di essere uno scheletro che cammina; anzi, se la terapia non inizierà a fare effetto quanto prima, non sarà neppure più in grado di camminare. Le pressioni per un ricovero sono tante ed ubiquitarie, ma io le rigetto. So che, se sarà ricoverata, la manterremo in vita, ma forse l’avremo per sempre persa come essere umano.

Per un appuntamento datole al Servizio, ci troviamo per caso tutte e due ad aspettare fuori dal portone e io a quel punto decido di mettermi in gioco (tana libera tutti): vicino c’è un parco giochi, le propongo di andarci finchè non aprono. Lei stancamente mi segue e poi guarda, con una curiosità che non le avevo mai vista in volto, dei ragazzini che stanno pattinando. A quel punto per la prima volta si rivolge a me e in più con emozione mi dice: “io non sarò mai come gli altri”.

Altri avrebbero magari risposto che non era vero, che, se era riuscita a fare questo al proprio corpo, poteva far di tutto. Io, probabilmente per identificazione proiettiva, mi sento esclusa come si sente lei, e al momento taccio, sperando in una situazione più favorevole in futuro. Neanche a farlo apposta siamo vicini a uno di quei chioschi dove vendono gelati, bibite e quant’altro (la stagione è calda, siamo in un torrido giugno) e vedo una madre (presumibilmente) che, scherzando, sta bevendo qualche cosa rivolta sorridente al proprio bimbo.

Ho la percezione, prima con la coda dell’occhio, poi volgendomi nettamente verso B., che lei li stia guardando meravigliata. Finalmente, dopo tanto parlare rumoroso e silenzioso in seduta, le posso mostrare tutto quello che le dicevo: ci può essere un rapporto gioioso (se non è con la madre, può essere con qualsiasi altra persona), si può bere senza che questo provochi sensi di colpa lancinanti perché ci si è autotraditi.

Capisco ed empatizzo con l’importanza fondamentale del controllo, capisco che la sua prima scelta sia stata quella del corpo, ma un conto è il controllo, un conto è non concedersi niente. Anzi ritengo tanto importante il controllo che mi piacerebbe che lo estendesse pian piano anche ad altre aree della sua vita: alle emozioni, alla sessualità, al pensare, a tutti gli aspetti del vivere, sperando ovviamente che poi diventasse sempre meno rigido.

Certo non potremo mai controllare tutto, a volte non riusciremo a controllare niente e dovremo subire, ma non è vero che il subire da parte del mondo sia peggiore di quello che noi esercitiamo su noi stessi. Esiste poi un mondo che è al di fuori del controllo e questo non necessariamente significa caos, se sappiamo come gestirlo. Ecco, tutto questo le vado sussurrando, alcune parole sono solo immaginate, altre veramente dette.

Mi guarda con uno sguardo che mi chiede se può fidarsi di me, del mondo e del modo di vivere che le ho raccontato. Io le rispondo un sicuro sì. Da lì, quando tutte e due ci siamo liberate degli orpelli che ci proteggevano, ma che in questo caso impedivano una reale comunicazione, è potuta finalmente iniziare una psicoterapia. Tengo a dire che prima la richiesta è stata quella di poter aver fiducia, di potersi affidare a qualcuno (tana libero tutti), solo dopo, la richiesta è stata quella di essere capita: la cosa fondamentale è stato l’affidarsi, affidarsi che poteva esserci anche se non la capivo, solo dopo ha avuto importanza l’essere capita.

Passarono mesi e mesi durante i quali B. sarà dilaniata dal desiderio, meglio necessità, di vivere finalmente ammettendo di poter credere che non tutto può essere controllato. Anzi all’inizio, proprio per il controllo onnipotente che lei ha sempre tentato di esercitare, tutto sembra esplodere: rabbia furiosa, dolore che sembra squarciarle le viscere. In questa fase io e B. riusciamo ad essere molto alleate, anche perché entrambe temiamo che ad un certo punto avvenga un crollo psichico.

Con il procedere della terapia il lavoro consisterà appunto nel rafforzare l’Io di B. in modo da riuscire pian piano a “maneggiare” le sue emozioni che a volte scottano soltanto, a volte sconquassano emotivamente e anche cognitivamente la mia giovane paziente.

Già, di nuovo le emozioni: quando sembra che non vi sia rifugio alcuno, neanche un minimo di riparo reso possibile dalla terapia e da me, esse sono da espellere: capita così che B. trovi sollievo nel tagliarsi. La motivazione è la stessa dei pazienti border quando non tollerano le emozioni: B. non regge soprattutto la rabbia verso la madre, sia a causa del passato in cui non si è mai sentita capita, sia a causa del presente, perché la madre in tutto questo percorso mai empatizzerà effettivamente con i vari perché della figlia.

Durante questa fase della terapia sarà di fatto difficile fare una diagnosi per cercare di dirimere se il meccanismo psichico in atto appartenga più ad un disturbo di personalità borderline o ad un disturbo dell’alimentazione. Poiché in questo caso, in questa fase, le esigenze sono le stesse per entrambi i disturbi personalmente non mi pare rilevante quella che potrebbe finire con l’essere una mera indagine entomologica. L’importante è rafforzare l’Io di B.

Fra digiuni, tagli, ricoveri in Pronto Soccorso per essere medicata, B. pian piano a volte riesce ad affrancarsi dal “clima familiare”. Ovviamente per ottenere qualche risultato in terapia dovranno passare mesi di progressi e ricadute, ricadute spesso caratterizzate da scenate della madre per qualche taglio. Ho in mente a questo riguardo un episodio particolare: B. aveva una seduta con me e si era presentata sanguinando copiosamente dal lato ventrale dell’avambraccio, scelto con cura per provocare il massimo danno possibile e quindi la maggiore fuoriuscita di sangue.

La avevo portata nell’infermeria del Centro di Salute Mentale in cui al momento la seguivo e pochi minuti dopo sentimmo in sala d’attesa le urla della madre che voleva vedere la figlia, non per un amorevole abbraccio, ma per poter lasciar fuoriuscire la sua di rabbia: già, tale madre, tale figlia.

A quel punto, semplicemente con uno sguardo con l’infermiera, decisi che lei e io- infermiera di complemento- saremmo state dentro l’infermeria con B. per la medicazione, mentre un altro operatore avrebbe “trattenuto” la madre. Dal punto di vista prettamente medico la ferita richiese vari punti di sutura, ma B. mi ha da tempo detto che quando è in queste condizioni ha l’intero corpo anestetizzato, lo percepisce come proprio, ma è insensibile (altro elemento in comune con i pazienti border). Poiché B. era però terrorizzata dal “teatrino istrionico” inscenato dalla madre, decisi di restare dentro con lei affidando all’infermiera il compito di tacitare sgarbatamente la madre. L’infermiera rientrerà poi per finire di bendare B.

Mi si strinse il cuore quando arrivò l’ora di riconsegnare B. alla madre; mesi dopo, però, la paziente mi dirà che era stata quell’occasione in infermeria che per la prima volta l’aveva fatta sentire veramente protetta: le parole servono, sono utili, certo, ma mai quanto la protezione fisica che avevamo messo in atto: una vera e propria barriera tra lei e la madre proprio quando B. non sarebbe veramente riuscita a sopportarla. Da quel momento in poi noi due ci incontrammo nella tana.

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