Dott. Luigi Scandella

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Dott. Luigi Scandella

psicologo, psicoterapeuta, analista transazionale

I diversi modi di affrontare un DSA. Il bambino impara come affrontare una difficoltà nuova

Assistiamo negli ultimi anni a una crescente attenzione alla diagnosi e al trattamento dei Disturbi Specifici dell'Apprendimento (DSA).

Recentemente, c'è stata una standardizzazione dei criteri per la valutazione attraverso la Consensus Conference (2007); la Regione Lombardia ha decretato specifiche modalità di certificazione per poter diagnosticare e trattare un DSA.

Questo ci dice l'attenzione che sta dietro all'individuazione e al superamento di un disturbo che può causare problemi e fatiche nel lungo periodo.

Poco invece si è detto sulle conseguenze psicologiche che un bambino può avere, una volta entrato nell'iter dell'individuazione e successivo trattamento del disturbo.

Credo invece che valga la pena approfondire la questione, per una serie di motivi:

In primo luogo, di solito i DSA vengono solitamente riconosciuti durante i primi anni della scuola (quella che Freud coniò come età della latenza), quando il bambino sta cominciando a prendere le misure tra l'immagine di sé, il confronto in un gruppo di pari con caratteristiche di competizione e di valutazione, e di conseguenza con sentimenti di inferiorità o superiorità e con la gestione non sempre facile dei successi e delle fatiche.

In altre parole, il bambino si trova all'interno di un laboratorio di socialità, dove sperimentare le proprie capacità relazionali, imparare ad affrontare problemi nuovi e approfondire le proprie abilità.

Inoltre, tra le caratteristiche del DSA manca la compromissione cognitiva; la capacità di ragionare su di sé, sul proprio modo di ragionare, è intatta, e il bambino ha la capacità di porsi domande su come funzioni la propria mente, su come mai il proprio stile di apprendimento non sembra funzionare come dovrebbe.

Le risposte che si dà passano necessariamente dall'ambiente, dai riferimenti che gli girano attorno.

E siamo al terzo punto: lo stile familiare, le reazioni genitoriali, il modo degli adulti di affrontare la diagnosi di un disturbo relativamente nuovo, talvolta poco accettato, danno al bambino elementi importanti su come si reagisce, se si reagisce, a un evento potenzialmente traumatico.

E' un momento importante nel quale le componenti che formano il copione familiare, nell'accezione berniana, vengono trasmesse in maniera più marcata e profonda.

Tutti questi elementi fanno luce sull'importanza non solo degli strumenti di identificazione, di compensazione e sostituzione, ma anche essere attenti al vissuto emozionale del bambino, sostenendolo e offrendogli chiarezza su quanto sta avvenendo.

Guardiamo le cose dal punto di vista del bambino.

Di fronte a un compito agevole, pur nella consapevolezza della propria capacità, testimoniate da successi più o meno brillanti in più campi, il bambino non riesce. Cosa significa? Come giustificare un insuccesso così imprevisto, ma che diventano così frequenti da dover fare intervenire degli specialisti?

Sono tutte domande e riflessioni che esigono una risposta, ed il bambino non può far altro che pretenderle dal mondo degli adulti, delle persone di riferimento.

La famiglia rappresentano il luogo dove si apprendono le strategie per affrontare difficoltà e cambiamenti improvvisi.

Riprendendo la teoria di Berne sull'OK Corral (Berne, 1963), nella quale si vanno a vedere le diverse posizioni esistenziali con cui ognuno di noi si rapporta con mondo, e che definiscono stili diversi a seconda del percepire sé e il mondo in maniera positiva (+) o negativa (-), possiamo ipotizzare che il trovarsi di fronte a un disturbo dell'apprendimento inneschi e stimoli uno stile familiare particolare, che porta poi a diversi tipi di reazioni; semplificando, possiamo ipotizzare quattro stili:

Se si percepisce se stessi come un problema, si può scegliere di vedere il mondo, l'ambiente scolastico, gli altri come un altro elemento problematico (-), oppure come qualcosa che funziona (+) meglio di me, a cui dare fiducia, più o meno acritica.

Nel primo caso (io – tu -) non vi è ragione per nutrire speranza: io non vado bene, la scuola non va bene, non possiamo farci niente.

La posizione del ritiro depressivo, del lasciarsi andare a dire “E' tutto inutile”, che nega ogni possibilità di cambiamento e di intervento efficace.

Nel secondo caso (io -, tu +) la possibilità di cambiamento è possibile, ma parte dalla capacità dell'altro, senza il quale io sono inefficace. Il bisogno dell'intervento esterno è indispensabile, è vitale, vista la propria incapacitazione e passività.

La posizione dell'ansia, del bisogno asfissiante di un altro per potere funzionare, del sentirsi dipendente.

Declinata così, neppure questo modo di porsi di fronte a un problema può funzionare, in quanto perpetua il bisogno di un altro, atraverso sentimenti di insicurezza, di ansia, sempre più forti.

Un'opzione ulteriore, speculare rispetto a quella ansiosa, è di porre se stessi in posizione positiva (+), e svalutare l'ambiente, a cui si dà la responsabilità del problema.

Io vado bene, è la scuola che crea problemi dove non ci sono”, “io vado bene, cosa vogliono da me”, sono le tipiche espressioni di chi si pone in posizione di conflitto contro la scuola, il mondo, l'altro.

Il problema non è più visto in quanto tale, ma come minaccia; la reazione naturale è la fuga o l'attacco. Tradotto, può portare alla rinuncia (un po' come la posizione depressiva, ma con in più un sentimento di rabbia da gestire), od ostilità nei confronti del mondo adulto.

L'ultima posizione prevede invece la consapevolezza di sé e delle proprie abilità (+) e al contempo delle potenzialità, della capacità della scuola e del mondo adulto di essere autorevole , capace di insegnare.

In questo caso può nascere una relazione di fiducia e di cooperazione, nella quale ognuno può portare il proprio contributo per crescere insieme e trasformare il problema in opportunità.

Vygotsky (1927) parlava della zona di sviluppo prossimale, quella capacità di imparare grazie al rapporto con l'ambiente in cui viviamo, che ci porta ad apprendere anche grazie allo stimolo relazionale che il gruppo ci dà.

Se trasformassimo la D di DSA da Disturbo (-) a Diversità (+), potremmo smettere di vedere i DSA come problema, ma come modalità diverso di approcciarsi alle cose del mondo, privilegiando aspetti di cui talvolta non siamo consapevoli.

Ben vengano gli strumenti compensativi, ma non credo sia il caso di mortificare le modalità di approccio al problema che un bambino con DSA può rivelare.

Senza necessariamente andare a scomodare i vari Einstein, Leonardo da Vinci e altri dislessici famosi, non mancano esempi in vari campi quali l'astronomia o la crittografia nel quale persone con DSA svolgono prestazioni migliori di altre non-DSA.

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