Dott. Marco Ventola

Dott. Marco Ventola

psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista

Priorita → Pensare le priorita

Chi si adatta rinuncia a pensare; anzi si può dire che sono due funzioni che si escludono a vicenda: il pensare ha come presupposto la libertà di mettere in relazione cose non collegate in precedenza, mentre chi aderisce fa cose pensate da altri. In termini più semplici, riuscire ad individuarsi, a scoprire se stessi significa sostanzialmente farsi carico interamente della propria esistenza: è però importante dire che sebbene consenta di conferire valore e qualità alla propria esistenza, questa conquista ha un “costo” psicologico molto elevato.

Se in alcune fasi dello sviluppo umano è indispensabile dipendere in maniera quasi simbiotica dall’altro (basti pensare al bambino con la madre, ad esempio), arriva un momento in cui è indispensabile iniziare a fissare degli obiettivi, operare le scelte in base ai propri desideri ed alle proprie priorità. Certamente si può anche scegliere di vivere “assecondando” le tendenze altrui e grosso modo possiamo ritenere che chi accetta questa sottomissione rivela la difficoltà della propria affermazione individuale. Se, infatti, aderire esclude la facoltà di scegliere, è anche vero che decidere per se stessi significa anche assumersi pienamente le responsabilità del fallimento e della disapprovazione altrui.

È pur vero che la libertà di scegliere e perseguire i propri obiettivi significa centrare la propria esistenza sulle esigenze personali, anziché su quelle degli altri. In una cultura profondamente cattolica lavorare “per gli altri”, sacrificarsi per gli obiettivi altrui, risulta essere un atteggiamento di vita molto simile a quello auspicato dai dettami religiosi: l’altruismo incondizionato. Per lo stesso motivo ad alcune persone accade, infatti, che nel scegliere, o avere dei propri obiettivi, scatena sensi di colpa; come se questo fosse sinonimo di egoismo e di irriconoscenza. In questi casi, nel tentativo di eludere il senso di colpa, spesso si ricorre a delle finte giustificazioni. Sono molte le persone che si portano dietro un pesante fardello e si impediscono qualunque sviluppo personale; quelle stesse persone che accampano scuse di ogni tipo per rimanere ancorati ad una realtà mediocre nel timore di ogni più piccolo cambiamento.

Ancora una volta le giustificazioni per non mettersi in gioco, per non rischiare, per non affrontare desideri legittimi che appaiono come pretese irrealizzabili giungono facilmente alla mente: molti si cullano nella fantasia di essere intrappolati nell’educazione fornita dalla propria famiglia e che, se non fosse per la madre troppo oppressiva o per l’educazione troppo rigida, la loro esistenza sarebbe meravigliosa. Il meccanismo è ancora una volta quello dello “spostamento” delle responsabilità: non è colpa mia se perseguo i miei obiettivi lavorativi, ma del ruolo professionale che rivesto; non sono io ad essere intrusiva con mio figlio, fa parte dei compiti di madre; e viceversa: non sono io a determinare la mia vita, ma i miei genitori con i loro condizionamenti. Si può dire che quando l’individuo si trova ad azzerare se stesso spostando sulla realtà esterna tutte le sue difficoltà interiori, e perdendo di vista le sue potenzialità, commette un errore che impedisce qualunque cambiamento.

È il caso del cliente che sostiene di sentire che tutte le porte gli si chiudono e lui si ritrova escluso da ogni relazione sia lavorativa che affettiva. È chiaro che sul piano della realtà non esistono porte chiuse o porte aperte ma solo occasioni e potenzialità da sviluppare, ma se si rimane intrappolati nella convinzione che l’esterno ce l’abbia con noi allora diventa impossibile ogni evoluzione. La logica che sta dietro allo “spostamento” dalle difficoltà interne a quelle esterne può essere facilmente comprensibile se si segue la logica che sta dietro a questa modalità di costruzione dei legami relazionali: è più semplice “incolpare”, seppur indirettamente, qualcun altro, che riconoscersi come unica vera causa delle proprie insoddisfazioni; così come risulta spesso più comodo trincerarsi dietro finti ostacoli, piuttosto che rischiare in prima persona di fallire.

La realtà è un’altra: la famiglia c’entra fino ad un certo punto nella vita che si decide di vivere; al di là dell’educazione ricevuta si possono sempre operare delle scelte individuali, e si può riflettere su come utilizzare le esperienze passate. Inoltre nessuna famiglia è perfetta; se si avvertono degli ipotetici limiti nei propri parenti è perché si ha in mente un’immagine astratta della famiglia ideale. Anzi, a pensarci bene, lo stesso concetto di perfezione è disumano e anche abbastanza noioso. Non si può vivere nell’idea della perfezione, come non si può essere liberi da difetti, eppure si è condizionati molto spesso da modelli che parlano di perfezione; prevale la convinzione che ci sia la donna o l’uomo perfetto, il lavoro perfetto, la vita perfetta. Di conseguenza succede che si rimane puntualmente delusi dal riscontro con la realtà.

Una visione superficiale della psicoanalisi è quella che attribuisce tutto il proprio modo di essere e di comportarsi al passato, all’ infanzia oppure ai condizionamenti subiti dalla propria famiglia. Sicuramente l’educazione, la famiglia o le ferite subite nelle relazioni sono fattori che influenzano il corso degli eventi, ma tutto questo dipende da come si utilizzano le esperienze. Qualunque sofferenza uno abbia potuto provare, qualunque difficoltà si possa incontrare, c’è sempre la possibilità di scegliere. Scegliere come utilizzare quella esperienza frustrante o limitante per farne una risorsa, per poterla adoperare nella propria vita; ci sono moltissimi esempi di persone che potremmo in apparenza definire “sfortunate” per condizioni familiari o economiche che hanno saputo trasformare quelle esperienze in apprendimento e vitalità. Così come ci sono altrettante persone in apparenza baciate dal successo e dalla fortuna che si sono ritrovate a condurre esistenze vuote e insoddisfacenti.

L’ iperadattamento all’altro, equivale alla rinuncia di essere liberi, e di apprendere da se stessi e dai rapporti, per vivere sterili abitudini. All’improvviso si scopre che le esperienze sono passate sotto il naso senza aver sperimentato nulla di se stessi; ci si è tenuti ben lontani dal coinvolgimento, preferendo accettare acriticamente quello che “passava il convento”. Un altro ostacolo che impedisce frequentemente di effettuare dei salti di qualità nella propria vita consiste nel rimanere a guardare dallo spioncino dell’esistenza piuttosto che fare esperienza diretta. Quando si impara a distinguere il sapere per sentito dire ed il comprendere attraverso l’esperienza, allora accadrà un cambiamento molto prezioso: è la dinamica del “non accontentarsi”, di indossare abiti di seconda mano. Non si può conoscere una persona solo perché viene descritta da qualcuno, come non si può comprendere una dimensione emotiva solo perché l’ha provata qualcun altro. È necessario passare attraverso l’esperienza; solo in quel caso si può dire di aver compreso realmente, e quella comprensione diviene un bene prezioso che nessuno può sottrarci poiché va a far parte di un proprio modo d’essere e di sentire.

Allora e solo allora si può dire di aver sperimentato l’incontro. Delle volte il sapere per sentito dire diventa un anticipare la propria conoscenza delle cose e al tempo stesso un proteggersi dalla paura della incomprensione; ed allora ci si può ritrovare ad avere come unica capacità quella di “saper dire solo quello che si è sentito dire”. Per quanti libri si possano leggere, per quante informazioni più o meno obiettive si possano raccogliere, nulla può essere sostitutivo del confronto con l’esperienza. Con questo non si vuol dire che chi legge o si tiene informato stia automaticamente sostituendo la conoscenza con l’esperienza, anzi bisogna sottolineare che la lettura sia un veicolo utilissimo per ampliare i propri orizzonti ed orientarsi in modo più significativo. Vi è però una bella differenza tra sentire racconti di chi ha viaggiato o ha incontrato e scambiato e permettersi in prima persona l’avventura dell’incontro. Ed allora riuscire a prendere le distanze da ciò che “circola” in giro vuol significare uscire dalla moda del pensiero collettivo e del consenso.

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