Dott.ssa Patrizia Conti

Dott.ssa Patrizia Conti

psicologo, psicoterapeuta, consulente tecnico, mediatore familiare

Narrazione, ricostruzione del proprio passato e creazione del futuro

NARRAZIONE RICOSTRUZIONE DEL PROPRIO PASSATOE CREAZIONE DEL FUTURO

 

“Rivivere il momento in cui abbiamo incontrato per la prima volta V. evoca sempre una forte emozione. E’ stato un momento “collettivo”, in cui tutti ci siamo trovati di fronte a questa personcina che sarebbe diventata parte integrante della nostra famiglia e di noi, ma che sicuramente ognuno di noi ha vissuto in modo personale e con sensazioni proprie. Io parlo a nome di tutti e tre ma in realtà parlo delle mie sensazioni ed emozioni, del mio sentire... E’ stato il momento in cui tutte le speranze dette e non dette di anni di attesa si sono concretizzate, sono diventate qualcosa di reale. Se dovessi esprimere quali fossero queste speranze, non lo saprei dire. L’arrivo di un nuovo bambino che cosa significa di preciso? E’ un insieme di emozioni e di sensazioni, è un terremoto emotivo che ti travolge, nel bene e nel male. Bisogna semplicemente essere pronti ad essere travolti....”

 

Che ricordo hanno i bambini del loro abbandono? Nei primi anni di vita sappiamo esservi solo la memoria procedurale o implicita, inaccessibile alla coscienza, automatica e inconscia, che può essere inferita solo tramite modificazioni sul comportamento (Fonagy e Sandler, 2005).

Non è tanto il recupero delle radici episodiche dei ricordi impliciti a costituire un fattore riparativo, quanto piuttosto l’esperire la possibilità e il viverla concretamente, di modificare i pattern di attaccamento e pertanto le modalità relazionali, esperienze che possono portare a modificare le procedure mentali.

Le procedure mentali preesistenti e determinate dall'abbandono possono essere modificate dall’adozione, se questa diventa un processo che porta a nuovi modi di pensare senza annullare - fortunatamente - i pensieri precedenti.

Gli stati della mente divengono man mano esperibili e rappresentabili grazie alla capacità di contenimento, elaborazione, rielaborazione e restituzione della mente del genitore, oltre che nella crescente possibilità di creare successive sintonizzazioni che favoriscono il consolidarsi del legame di attaccamento.

Il racconto, ascoltato e riascoltato, accompagna fin dalla nascita i primi fondamentali sviluppi della personalità del bambino.

Dalla storia ascoltata (“le favole della buona notte”), si passa alla creazione autonoma di storie (“il gioco”), alla composizione della tematica delle origini e della famiglia (nell’ultimo anno della scuola materna e nel primo della elementare), ma ancora alla narrazione di sé ai pari e al gruppo di essi (adolescenti), per arrivare alla prima ricostruzione narrativa del proprio percorso di crescita (ingresso nella fase di giovane adulto).

Le narrazioni costruite su di sé e sul mondo permettono di dare senso alla esperienza quotidiana e influenzano la sua percezione del mondo.

Diventano, così, vere e proprie opere d'arte.

Il narrare e narrarsi, il costruire un racconto e l’ascolto di quanto viene intessuto può, allora, rappresentare la strategia più efficace e pertanto autenticamente “adattiva” in quello specifico momento per affrontare il conflitto nucleare emerso.

Il bambino adottivo deve poter affrontare e rielaborare la ferita dell’abbandono, scontrandosi con la realtà del “rifiuto”, accettandone la presenza, ma anche superandone il potenziale destrutturante e distruttivo. Egli deve poter esperire, nelle relazioni che finalmente sperimenta come responsive ai suoi bisogni, la certezza di un contenimento e di una elaborazione delle sue emozioni, della comprensione dei suoi stati emotivi, dell’accoglimento dei suoi vissuti.

Deve potersi dire alla fine di non aver alcun bisogno di capire i motivi per cui suoi genitori lo hanno accolto.

Questi gli obbiettivi fondamentali del narrare e narrargli la storia adottiva. Ma qual è la verità narrabile? Se l’adozione è avvenuta molto precocemente, può esservi la tentazione di nascondere ad ogni costo al figlio la sua condizione di adottato. E ciò nonostante vi sia stata un'importante evoluzione nelle conoscenze e nella sensibilità dei genitori adottivi. Secondo Dell’Antonio (1980), in questo modo ci si sente più completamente genitori, e si soddisfa meglio il proprio orgoglio. Ma tale “congiura del silenzio” viene rispettata anche nel timore di perdere l’affetto del figlio.

Nel recente passato, tutte le volte che si sceglieva la verità, lo si faceva spesso tardivamente; si riteneva cioè giusto rivelare la sua situazione all’adottato una volta quasi adulto, in genere adolescente e quindi in grado quindi di apprezzare appieno quanto gli si svelava erano. In ogni caso le conseguenze psicologiche sono disastrose per il figlio adottivo. Quest’ultimo avrebbe dovuto e dovrebbe, invece, conoscere le sue vere origini molto prima: non è necessario che capisca, l’importante è che sappia.

La “verità narrabile” (Guidi e Nigris, 1993) rispecchia la sostanza degli eventi ricostruita attraverso la sequenza dei successivi ruoli dei protagonisti rispetto al bambino. Ciò che va comunicato è l’effetto prodotto dai fatti precedenti o immediatamente seguenti la nascita del bambino: i genitori naturali sono coloro che lo hanno messo al mondo, e che, rinunciando a lui, hanno  permesso ai genitori adottivi di diventare tali.

La ricostruzione della verità narrabile risponde pertanto a due bisogni. Il bisogno del genitore adottivo di essere legittimato come “l’unico e vero genitore” di quel figlio non partorito, e il bisogno del bambino di essere figlio di quel genitore e non di quello biologico. Diventa così estremamente importante narrare sin da subito, come avvolgendo il figlio in un contenitore linguistico metaforico, ma anche emotivo e simbolico che ponga le basi dei processi evolutivi primari.

Prende forma allora l’idea che nelle storie di adozione c'è sempre il futuro tra le righe, anche se potrebbe apparire prevalente, o persin quasi pervasivo il passato. Il passato nelle storie adottive è sempre a rischio di rimozione sia da parte del bambino, sia da parte dei genitori, e ciò rende, in un paradosso solo apparente, tanto “presente”, anche se non nominato, non riferito, non esplicitato il passato.

La tessitura, però, sempre, anche quando appare narrare solo del passato e comprendere solo un presente recente, rivela uno sguardo costantemente rivolto al futuro, uno sguardo che può essere impregnato di preoccupazione, o anche solo velato di inquietudine.

D’altronde molto più che nella generazione biologica il percorso adottivo è scandito dall’attesa e dall’indeterminatezza, in gran parte inevitabilmente tale, della tempistica che accompagna ogni passaggio che amplificano il formarsi di una percezione non solo di particolare acuta sensibilità, ma anche piuttosto soggettiva degli spazi temporali, delle fasi di vita.

Un processo implica sempre necessariamente la dimensione dello svolgersi e del divenire, e, quindi, anche l’adozione ricade sotto questa qualificazione così puntuale della scansione nel tempo. Ma difficilmente in altri ambiti della vita delle persone, si pensi al succedersi delle fasi e dei cicli esistenziali, vi è una precisa percezione soggettiva del passare del tempo e della proiezione di sé e degli altri vicini nella dimensione futura.

Importantissimo si staglia, dunque, l'aspetto di creazione in divenire: la narrazione dell'adozione non è mai "finita", si tratta sempre di storie "aperte" in senso metaforico, per quella implicazione squisitamente psicologica cui si faceva cenno, ma anche in modo concreto, costituendo una realtà, anzi “la” realtà di partenza e che rimane di fondo, "il vuoto nelle e delle origini".

Nell’ambito adottivo, non diversamente da ogni narrazione il registro implicato è sempre piuttosto complesso, coinvolgendo non solo più livelli espressivi, ma anche diverse dimensioni.

Diventa, allora, doppiamente importante quale presenza rievocativa, ma anche strutturante, della immaginazione e della fantasia, capace di evocare, ma anche creare nuove rappresentazioni, senza mai dimenticare la realtà vissuta, quella esperita anche in modo condiviso, né la realtà pregressa, spesso solo semplici frammenti, talora anche confusi, vaghi e incerti.

La narrazione delle storie adottive affronta anche il rischio della persecutorietà di cui si colora la relazione con i genitori biologici, la stempera, la rielabora, la trasforma e presenta due funzioni centrali prioritarie: la funzione "coesiva" per il Sé, ancor prima che ristrutturante per l'assetto identitario, e la funzione "connessiva", la solidificazione, che ripara le lacerazioni. L'implicazione a livello individuativo diventa pertanto molto evidente.

Non vi è, infatti, solamente il contesto familiare e sociale in cui il bambino è nato da integrare. Compaiono quali elementi da considerare e connettere anche i contesti successivi in cui il bambino è stato accolto a far tempo del suo abbandono, l’istituto, l’orfanotrofio, la missione, talvolta unico altro contesto, più spesso molteplici e diversi, che si sono succeduti nel corso di un tempo talora anche piuttosto ridotto. Torna il discorso della molteplicità versus una unicità che risulta essere meta ideale quanto mai lontana dalla concreta esperienza reale.

Possono essere, allora, compresi nella creazione narrativa le “persone” degli orfanotrofi, degli istituti, ma anche degli enti e delle associazioni che dell’adozione si sono occupati, oltre eventualmente anche a figure familiari.

Ed ecco che nella narrazione trovano integrazione creativa le due dimensioni di cui è intessuta, poiché su esse si poggia, l’esperienza di noi stessi, dell’altro e del mondo, quella cognitiva e quella affettiva.

La narrazione rappresenta una "magica" alchimia di cognitivo e affettivo, producendo indistinguibili effetti e esplicando una funzione integrata su entrambi i piani. Inutile ripetere quanto da Winnicott si è appreso sulla sfera transizionale, e come in ogni atto creativo essa trovi modo di esprimere tutta la sua forza strutturante la relazionalità.

La narrazione adottiva è fin da subito inserita in una dimensione intersoggettiva, e non solo perché il proposito di raccontare implica necessariamente un ascoltatore, ma anche perché si tratta di un dialogo a più voci e a più persone, di cui spesso una, quella che muove il tutto, non è ancora rappresentabile, se non in una sorta di ideale essenza senza forma né contrassegni specifici. Ma nel momento in cui può diventare vera e propria narrazione, ogni personaggio ha acquisito la sua forma definita, in particolare il destinatario supposto di tale creazione, il bambino, anche se adombrati i destinatari sono, e forse anche prioritariamente, i genitori stessi.

Il passato "anamnestico" di cui non conosciamo quasi nulla nell’esperienza del post adozione, è dinamico e attivo, e in questo modo esplica inevitabilmente la sua azione. I genitori ne colgono via via, pezzo per pezzo, le dinamiche in un modo discontinuo, frequentemente improvviso, avendo pochi punti di riferimento o parametri per poterne attuare una prima lettura sufficientemente "equilibrata" tra cognizione ed emozione. Ciò implica la presenza di "sconvolgimenti" affettivi più profondi, inserendo elementi specifici di certa pregnanza emotiva e di certa significanza affettiva, in un equilibrio mentale e relazionale ancora piuttosto fragile, bisognoso di nutrimento, di certezze più che di continue rimesse in gioco in discussione.

L’intervento psicologico nel periodo immediatamente successivo al rientro della coppia con il bambino dal paese d’origine di quest’ultimo e per il primo anno di vita del nucleo familiare costituitosi è il contesto in cui si possono raccogliere le prime, importantissime precise ricostruzioni narrative dell'incontro da poco avvenuto. Intervento è previsto dal protocollo dell’Ente[1] come offerta di un supporto, un sostegno, uno spazio di ascolto e di riflessione, nella consapevolezza dell’importante valenza preventiva implicata in un tale intervento, che appare così dare completamento al primo intervento informativo e formativo del periodo preadottivo. L’incarico all’Ente prevede così due interventi distinti, di natura differente in relazione alle ovviamente diverse finalità.

Gli incontri, che si svolgono a distanza di un paio di mesi con una durata di un’ora e mezza ciascuno, sono in genere quattro o cinque. In talune situazioni di particolare complessità, o con specifiche esigenza, possono aumentare in ragione delle esigenze riscontrate, fino a un massimo di otto.

Agli incontri vengono invitati sia i genitori sia il bambino, comprendendo gli eventuali fratelli presenti. La necessità di avere incontri con i soli genitori viene di volta in volta determinata dal riscontro di particolari bisogni, o in relazione a particolari passaggi del processo di inserimento del bambino adottivo.

Come già accennato, si tratta di un intervento di natura preventiva, e come tale rimane, anche in quelle situazioni in cui viene rilevato un rischio evolutivo. Il lavoro si rivolge ad un aiuto più specificatamente clinico, ma mai terapeutico in senso proprio, mirando piuttosto a preparare il terreno per un eventuale invio successivo del bambino, o talora anche dei genitori.

L’adozione è più facile si evolva positivamente se il rapporto bambino – adulto può radicarsi a livelli profondi, analoghi a quelli che si sviluppano nell’attaccamento per i  figli naturali. In questo senso, soprattutto le prime fasi dell’esperienza adottiva vanno preparate e seguite da professionisti (Morral Colajanni e Castelfranchi, 1992).

Nella maggioranza delle situazioni il percorso ha il suo andamento “regolare”, declinandosi per un periodo di particolare importanza e con straordinari risvolti che vanno dal rientro in Italia di genitori e bambini, alla ripresa graduale della quotidianità con tutte le modificazioni che il nuovo assetto familiare inevitabilmente comporta, all’inserimento nel tessuto sociale, all’avvio delle attività scolastiche ed extrascolastiche, alla ripresa dell’attività lavorativa e professionale della madre.

La decisione di riservare gli incontri ad ogni singolo nucleo è supportata da ben precise ragioni e motivazioni metodologiche che nella considerazione della valenza sul piano simbolico traggono forza.

Si intende, infatti, configurare il luogo simbolico del nucleo familiare, non delle relazioni e degli scambi con altri appartenenti al mondo esterno, sia pure nella condivisione di una esperienza analoga. Analogo non è mai simile, tantomeno identico. Nella condivisione della comune esperienza adottiva vi è sempre la sottrazione di una cifra individuale.

Il gruppo ha una valenza del tutto particolare e specifica, e mostra limiti evidenti nel non permettere la costellazione di alcuni assetti psichici che nel setting individuale (laddove per individuale si include l'individuale nucleo adottivo formatosi) trovano, invece, possibilità di manifestare la propria presenza in termini simbolici, ma poi anche concretamente travasati nelle rappresentazioni mentali, e pertanto emotive e affettive, dei soggetti coinvolti.

Nel procedere la presenza del singolo nucleo è un’entità unica con una propria mente relazionale, con le comunicazioni inconsce e le rappresentazioni mentali trasmesse e condivise, che il bambino avverte subito come peculiare dimensione. È evidente in bambini di oltre 18 mesi, ma non si può escludere anche per bambini più piccoli.

Particolarmente importante il primo contatto e poi soprattutto il primo incontro che riguarda da un lato una prima presentazione di sé come “nuova” famiglia e del proprio bambino in un contesto non privato o familiare, pur se non pubblico, né istituzionale, da un altro il primo momento di raffronto e confronto sul primo intenso periodo di vita con il bambino.

Il luogo della consultazione diventa così l’importante contenitore del primo racconto, (e non solo) momento denso emotivamente, intensamente rievocativo, simbolicamente pregnante. È l’incipit della narrazione che ben più ampiamente si dipanerà nel corso del primo anno di vita dell'adozione e poi accompagnerà tutta la vita stessa dell'adozione. È l’incipit della capacità e della possibilità narrativa che potrà perdurare per tutta la vita, accompagnando lo svolgersi dell’intera l'esistenza.

Il punto di arrivo dovrebbe poter essere per il bambino di non aver bisogno di capire perché i genitori adottivi lo hanno accolto, per i genitori di sapersi confrontare con la diversità e saperla accogliere dentro di sé, per entrambi di realizzare il superamento della logica di debiti/crediti, trasformando la riconoscenza in conoscenza, riconoscimento e appartenenza. La genitorialità adottiva rappresenta così una triplice sfida.

Per la società come insieme di famiglie la sfida è di “prendersi cura delle generazioni” nel permettere a un bambino di riprendere il suo percorso evolutivo e di portarlo a termine. Per la coppia è di creare uno spazio rielaborativo per ciò che di positivo si è ricevuto da figli e per i desideri rimasti insoddisfatti, nonché per le sofferenze sperimentate, elementi tutti che possono essere rinegoziati e risignificati. Prendersi cura del figlio vuol dire riconoscerlo come altro da sé e come nuovo individuo, inserirlo nella trama delle generazioni e garantirne l'appartenenza familiare. Per l'individuo la sfida è una rinegoziazione delle relazioni con i propri genitori, raggiungendo una legittimazione reciproca, affinando e proteggendo un costante processo di regolazione delle distanze intergenerazionali nel ridefinirsi come adulto, nel progettare il futuro ripensando al passato. Affrontare il tema della differenza tra sé e il figlio implica necessariamente il riconoscimento e la valorizzazione congiunta di entrambe le origini proprie e del bambino, ma anche di entrambe le famiglie di origine. Quella che viene riscritta è la storia personale, ma anche familiare.

E in questo si possono rintracciare importanti valenze individuative ad ognuno dei livelli citati.

La narrazione adottiva dovrebbe potere essere un percorso di ricostruzione della propria storia, un viaggio a ritroso verso le proprie origini che vanno recuperate per formare una connessione autentica, razionale ed emotiva, di pensiero e di sentimento, la presenza di un passato per costruire un futuro.

“Quando venni al mondo diventai l’angolo di una mappa ripiegata.

La mappa ha più di una strada. Più di una destinazione. La mappa, l’io che si dispiega, non ti mostra un itinerario preciso. La freccia che dice TU SEI QUI è la tua prima coordinata. Sono tante le cose che non puoi cambiare quando sei un bambino. Ma puoi fare i bagagli e metterti in viaggio ….” (pag.31)

(Janette Winterson “Perché esser felice quando puoi essere normale?” Mondadori 2012)

 

 

[1] L’associazione Enzo B è stata fondata nel 1991 da alcuni volontari che già allora operavano nell’area di via Onorato Vigliani 104, nel quartiere torinese di Mirafiori Sud. Il cuore dell'associazione pulsa a Torino nel "Villaggio ENZO B". In questa struttura convivono un centro d'accoglienza per donne sole con figli, una comunità terapeutica per minori tossicodipendenti, un centro di riabilitazione equestre ed infine un centro di lavoro guidato per persone diversamente abili. A livello internazionale ENZO B opera in 14 Paesi africani e in Vietnam. In particolare l'attività di ENZO B si articola nel settore delle adozioni, realizzando iniziative di solidarietà e di cooperazione allo sviluppo a favore di minori e comunità vulnerabili. L'impegno di solidarietà si è esteso anche in Romania dove l'attività dell'associazione è rivolta alla creazione di un polo di animazione sociale ed economico che valorizzi le risorse locali e crei legami di amicizia, solidarietà e scambio con l'Italia.  www.enzob.org

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