Dott.ssa Roberta Vespignani

Dott.ssa Roberta Vespignani

Psicologa, Psicoterapeuta

Il significato della mela di Eva e del pomo di Adamo

Storia dell’ IDENTITA’ MASCHILE

 

Buongiorno, oggi vorrei riflettere con voi  sul modo di concepire la nostra identità di uomini  e di donne.

Vi chiederete il perché di questo titolo: la mela di Eva e il pomo di Adamo sono la stessa cosa; sono la mela che nel giardino dell’Eden simboleggiava la consapevolezza del bene e del male, in altre parole il nascere negli esseri umani della coscienza. Ora se Eva la accoglie con iniziativa e gioia, ad Adamo rimane un pò indigesta, gli rimane in gola; infatti chiamiamo il pomo di Adamo, quella parte del collo dell’uomo che ha  quella sporgenza (quasi per dire che la mela di Eva gli è rimasta lì).

Questa mi sembra una bella metafora sul fatto  che la riflessione dell’uomo, dell’essere umano di sesso maschile, su se stesso è rimasta per secoli ferma a stereotipi che egli stesso, certo inconsapevolmente, si è cucito addosso.


O meglio, come afferma Sandro Bellassai, che di queste questioni si è occupato, per molti secoli la riflessione sulla virilità non c’è stata, anzi nei secoli succede che  “il maschile si traveste da universale, come genere, come parte sessuata dell’umanità, il maschile rimane invisibile a se stesso…quando la voce degli uomini descrive e costruisce grandi orizzonti concettuali, gli uomini parlano a nome dell’umanità”

(Bellassai, “la mascolinità contemporanea” Carocci pag 31)

Una prova di ciò l’abbiamo se analizziamo il linguaggio dell’antico greco e latino: il greco per designare la parola uomo in senso di umanità aveva antropos, mentre distingueva dalla donna l’uomo, il maschio chiamandolo avep, idem in latino con homo e vir per designare il maschio. Invece in Italiano e, presubilmente già dal medioevo,  si usa sempre uomo per tutt’e due i significati


Ricordiamo inoltre il fatto che, nelle prime civiltà umane, la rappresentazione della vita era declinata al femminile. La  Dea Gea, simbolo della terra e della fertilità, era una dea comune alle popolazioni  mediterranee e mediorientali (assiri babilonesi, Micene ect) molte divinità dell’Olimpo greco erano femminili e così anche le sacerdotesse addette ai loro culti. Ciò non vuol dire che nel mondo antico la condizione della donna comune fosse ottimale, ma solamente che non c’era questa identificazione tra sesso maschile e genere umano

Questa identificazione si opera con la caduta  dell’impero romano e l’affermarsi del potere spirituale e secolare della Chiesa. La Chiesa romana va a rimpiazzare in tutto e per tutto la funzione temporale dell’impero, rifacendosi per altro ad un interpretazione del cristianesimo che ne neutralizza la carica liberatrice anche nei confronti delle donne (dagli Atti degli apostoli sappiamo che c’erano donne che erano a capo di alcune prime comunità cristiane). Il Cristianesimo viene veicolato nei palazzi romani del potere, tramite un interpretazione basata sulla filosofia greca precedente, ripresa dai padri della Chiesa quali Sant’Agostino, Sant’Anselmo ect, che non avevano certo una buona  immagine delle donne, anzi le definivano la “porta del diavolo“. (forse perché non riconoscevano la responsabilità dei propri impulsi sessuali). Ancor prima San Paolo, (in contrasto al suo maestro Gesù che portava ad esempio le donne agli uomini), scrive nelle sue lettere, dirette alle prime comunità cristiane, una frase: “Poiché, quanto all’uomo, egli non deve coprirsi il capo essendo immagine e gloria di Dio, ma la donna è la gloria dell’uomo (ndr quindi conclude il testo  deve coprirsi il capo durante le celebrazioni)”. (1 Corinzi 11, 7-8). Questa frase fa ai nostri scopi, dimostra bene come solo il maschio, abbia dignità di essere umano, per natura, per l’evoluzione, per la società e per volontà divina. La donna non e’ ad immagine di Dio e neanche è del tutto umanità.

Tutte queste codifiche simboliche sanciscono un’esclusione della donna dalla vita pubblica che dura millenni, fino alla rivoluzione industriale di metà 800. Infatti Bellassai ancora afferma che “Superiorità e mascolinità apparivano intimamente legati: e non per accidente storico, ma perché così era stato voluto  dalle eterne leggi di Dio e della natura” idem pag 34.

Questo atteggiamento, fino alle soglie dell’era moderna, ha fatto si che la scena pubblica fosse dominata dagli uomini, infatti lo spazio pubblico era ritenuto  “estensione “civile” della superiore intelligenza dell’uomo“ (Bellassai pag 34), in quanto maschio. In altre parole per millenni doti maschili e sfera pubblica sono stati identificati e la donna invece equiparata al privato.

Ma  appunto, come dicevamo, con la rivoluzione industriale di metà ‘800, grazie ai mutamenti sociali e al mito del progresso, si affacciano le prime rivendicazioni femminili (voto, uguaglianza giuridica, accesso alle professioni), senza  tuttavia andare a toccare, in questo primo femminismo, la subalternità morale. Ma  anche solo la maggior partecipazione nella società che le donne, le “suffragette” chiedevano, mise in crisi gli uomini tanto da suscitarne una reazione. In tale reazione  gli uomini non avevano solo la sensazione di difendere se stessi, ma la stessa intera società, che fino ad allora era sempre stata basata sui valori maschili del potere e della “razionalità”. Ecco che per tutta l’era moderna, cioè tra fine ‘800 e fino ai primi anni ‘60 del 1900 si è cercato, dapprima col mito del patriota-guerriero, poi con quello del buon padre di famiglia al passo con i tempi e le comodità moderne ( lavatrice, frigorifero ect, chi poteva procurarle alla propria famiglia era un “vero uomo“..)  di conservare in qualche modo questo primato maschile; e, anche se  a volte con esiti caricaturali, l’uomo dominava ancora la sfera pubblica.

Questo millenario stato di cose  viene rotto per sempre dal neofemminismo degli anni 70. Con esso le donne, prima che reclamare diritti, mettono in discussione la loro subalternità di genere, il loro essere “costole di adamo”, “angeli del focolare” e tutto ciò che le aveva condannate a una vita di esseri-complemento dell’uomo, del pater-familias.  Insieme a ciò mettono in discussione la loro esclusione dalla vita pubblica (cosa che in parte era già venuta a cadere), e ancora più il fatto che la struttura sociale debba reggersi su rapporti economici e politici di potere, di dominio e strettamente gerarchici. Le donne, le femministe degli anni‘70  fanno uscire, con il lavoro di autocoscienza svolto in gruppi, le competenze femminili riguardanti l’organizzazione dei rapporti, la percezione di sé e dell’altro, la relazionalità, dalla sfera privata per farle entrare nella sfera pubblica. Attuano così la capacità di usare un’ottica di genere nei discorsi della pubblica convivenza (politica, economia,lavoro), che comprenda anche la capacità di vivere e lavorare usando e comprendendo le emozioni proprie e altrui.

Tutto questo cambia per sempre le norme della convivenza civile, infatti come ripetono “il personale è politico” e niente può essere più come prima.

E  visto che per millenni il ruolo di genere della donna aveva fatto da controaltare a quello dell’uomo, questo cambio di paradigma delle donne coinvolge, o meglio  investe come un uragano anche gli uomini. Solo alcuni, in Italia per la verità pochissimi, sanno interrogarsi su di sé, mentre altri continuano a vivere i mutamenti che li riguardano arrangiandosi come possono.

Con questa espressione intendo che sono vittime ancora di stereotipi ed educazioni emotive e civili, che sono apparati adatti ad  un uomo non proprio primitivo, ma quasi. Infatti molti uomini, rispondono  a questi rapporti rinnovati col sesso femminile in qualità di compagne, amiche sorelle madri, colleghe di lavoro, con una distanza emozionale, una diffidenza  a coinvolgersi, talvolta in casa, talvolta nel compito da svolgere al lavoro, in fin dei conti con un distacco emozionale e sociale. Ciò accade perché da una parte l’uomo, nella sua identità di genere tradizionale, è attaccato all’abitudine dei propri privilegi (molto in maniera inconscia) e dall’altra è terrorizzato da non essere all’altezza dei canoni sociali di forza, virilità, disprezzo delle emozioni e del dolore appresi fin da piccolo. Ma interiorizzare queste aspettative della virilità, come fa notare l’analisi femminista, è impossibile da realizzare.  Infatti se da una parte il concetto di virilità vuole comunicare agli altri la forza e la sicurezza dell’individuo che lo mostra, dall’altra lo fa attraverso una distanza emozionale, una CORAZZA, che lo esclude dalla vita di relazione e per  cui, il maschio, non può comunicare niente, rimane solamente isolato nei suoi pensieri, nelle sue paure (anche quelle dettate dall’aspettativa di non riuscire a ricoprire il suo ruolo tradizionale) e non si può porre in una comunicazione omeostatica, permeabile ad un mondo e a un genere femminile in continua trasformazione. L’unica cosa che l’uomo, che si trova in questa situazione può fare è tradurre tutta la gamma di sentimenti (tristezza, frustrazione, paura incertezza) che prova in rabbia, dato che quella è l’unica espressione emozionale che la società accetta da lui e con cui è abituata a trattare (per un ulteriore analisi vedere The Seven P's of Men's Violence dal sito www.michaelkaufman.com). Ecco uno dei motivi della violenza di genere, uno dei motivi della incomunicabilità tra i sessi.

Per fare un esempio: ogni donna avrà trovato al suo rientro a casa il compagno che silenzioso ha tutta l’aria di rimuginare su un problema, ma poi se gli si chiede se ne vuole parlare si irrita, però continua ad avere una area funerea. Da una parte l’uomo per mentalità è abituato a risolvere un problema per volta, e per lui trovare una soluzione e parlare con la sua compagna fanno due problemi, dall’altra dire alla sua donna che “non sa che pesci prendere” è ammettere di avere una fragilità davanti ad una situazione di vita concreta, cosa che per il suo ruolo tradizionale di genere non può tollerare

 

In  Conclusione cosa fare? l’uomo, il maschio è condannato da un apprendimento sociale e biologico lungo 10 mila anni ad essere una pentola a pressione psichica, un individuo che può mettersi la corazza, o invece può lavorare sulle sue paure e  fragilità in modo da rendere  le stesse una risorsa?

La risposta non può essere che affermativa se si comincia ad andare oltre il già noto, se il genere maschile smette di essere invisibile a se  stesso, e con il lavoro in gruppo tra uomini, ma anche tra uomini e donne già avanti in ciò, si può rifondare un identità maschile che liberi tutti i propri vissuti, per fondare su questi ultimi il saper fare e il saper essere con l’altro. In gioco c’è la possibilità di liberare la MASCOLINITÀ DALLA GABBIA DELLA VIRILITÀ, per costruire rapporti rinnovati tra uomini, ma anche tra uomini e donne che diano spazio a ciascuno, sulla base di un potere non gerarchico ma condiviso e emotivamente fondato.

 

 

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