Perché non faccio niente per stare meglio?
Salve. Ho quasi trent'anni e sono depressa da cinque. O forse anche da prima, però riuscivo in qualche modo a "funzionare": vivevo nella città in cui ho frequentato l'università, sostenevo gli esami in tempo e avevo una media molto alta nonostante l'ansia che era sempre presente durante le varie sessioni, avevo una vita sociale. Tutto è precipitato quando ho finito gli esami della magistrale, sono tornata a vivere dai miei e ho cominciato la stesura della tesi. Nel periodo in cui sono finita fuoricorso ci hanno chiusi tutti (primo lockdown) e da quel momento in poi non sono più riuscita a riprendere in mano un libro. A poco a poco ho cominciato a provare sempre più vergogna per la mia situazione, a chiudere con molte persone (non sempre per mia volontà, anzi la maggior parte delle persone che ritenevo amiche mi hanno abbandonata perché non stavo più bene), a diventare una persona priva di stimoli, energie e interessi. Ho cambiato tre psicologi che avevano approcci diversi ma purtroppo non sono riuscita a sbloccare la situazione. So che nessuno potrà sedersi al posto mio e farmi scrivere la tesi: dovrò farlo io e, anche se so che così potrei liberarmi di un peso enorme, non lo faccio. Perché non riesco a tirarmi fuori da questa situazione? Non so per quanto tempo riuscirò a campare così.
Federica, grazie per aver condiviso la tua storia con tanta sincerità e profondità. Le parole che hai scritto raccontano un dolore vero, stratificato, ma anche la tua consapevolezza, che è già un passo importante — e non da poco. Quello che stai vivendo non è pigrizia, né mancanza di volontà. È depressione. Una condizione che può appannare il senso di sé, bloccare il desiderio, prosciugare la forza anche nelle azioni più semplici. E il fatto che tu stia chiedendo “perché non faccio niente per stare meglio?” non è un'accusa che muovi a te stessa: è un grido di aiuto. Ed è legittimo. Il fatto che non agisci non significa che non vuoi.
Molte persone, in situazioni simili, sanno benissimo cosa "dovrebbero" fare, ma tra il sapere e il riuscire a farlo c'è un abisso emotivo. Quando si è depressi, anche una cosa apparentemente banale come alzarsi dal letto può diventare una montagna. Il cambiamento di ambiente, l’isolamento sociale, la fine di un ciclo (l’università), hanno probabilmente attivato una crisi identitaria. Da lì, è facile sentirsi come se tutto si fosse “rotto”, come se tu non fossi più “tu”. Questo senso di vuoto è tipico di certi momenti di passaggio che diventano traumatici. La vergogna per non riuscire ad "andare avanti", per essere "fuoricorso", per non essere la versione di te che gli altri si aspettavano… ti ha lentamente paralizzata. E purtroppo il giudizio (proprio e altrui) è una gabbia che rafforza la depressione. Cambiare terapeuta non è un fallimento. Hai già avuto il coraggio di rivolgerti a tre psicologi: questo è fare qualcosa. Forse non hai ancora trovato la persona o l’approccio giusto. O forse ora non serve “capire”, ma essere contenuta, tenuta insieme, magari da un percorso più strutturato (come la terapia con un supporto farmacologico o un centro pubblico che ti segua a 360°). Perché non fai niente per stare meglio? Perché probabilmente non riesci. E non perché sei debole, ma perché sei esausta. L’autostima si è consumata, ti senti sola, sei ferita da abbandoni e forse ti senti anche “sbagliata”. Ma non lo sei. Non lo sei affatto.Forse, dentro di te, una parte sta ancora cercando di proteggerti: evitare la tesi, evitare il confronto, evitare di sentire il peso del “fallimento” è un modo (inconscio) per sopravvivere. Ma a lungo andare, questo meccanismo ti isola sempre di più. Cosa puoi fare adesso, anche solo un piccolo passo? Trovare un terapeuta con cui costruire un’alleanza terapeutica stabile. Uno che sappia lavorare con le depressioni resistenti, con il senso di colpa cronico e la vergogna. Magari anche un percorso nel pubblico, dove ci sia un’équipe multidisciplinare. Se non l’hai già fatto, un consulto psichiatrico non è una resa: è un’ancora. Alcuni farmaci, se usati bene, possono dare alla mente il minimo slancio per poter lavorare su di sé. Trovare uno spazio quotidiano piccolo, anche minuscolo, dove esisti senza giudizio. Un diario, una passeggiata, cinque minuti in cui ti parli con gentilezza. Non pensare alla tesi come a tutto. Per ora, il problema non è la tesi: è che ti senti sola dentro una battaglia invisibile. E ogni cosa sembra troppo. Prova a spostare l’attenzione dall’obiettivo al contatto umano — anche scrivere qui è un modo per tornare a contattarti. C’è ancora spazio per ritrovarti, anche se adesso non ti vedi più.
Dott.ssa Antonella Bellanzon
Psicologo- Mediatrice familiare - Massa-Carrara