L’importanza del rapporto col paziente nelle professioni d’aiuto 

Spesso durante il nostro lavoro di terapisti e operatori di aiuto ci accorgiamo di venire sopraffatti dalla fatica e avvertiamo il peso di e a rischiare di mettere in discussione tutta la nostra professione. 
Cercheremo in questo articolo di evidenziare due delle principali cause da cui potrebbero scaturire queste sensazioni: l'eccessivo o lo scarso coinvolgimento nella relazione terapeutica. continuare. Talvolta ci ritroviamo a dover ammettere di aver perso l'entusiasmo di un tempo, senza neanche sapere il perché. È lì che le nostre motivazioni vengono ogni volta messe alla prova financh
 
Nel caso dovessimo trovarci nel loop di un coinvolgimento eccessivo, probabilmente cominceremmo ad avvertire un peso al solo pensiero di dover riprendere a lavorare. O ancora potremmo ritrovarci coinvolti in una spirale di continua emergenza, a rincorrere continuamente gli appuntamenti, sopraffatti dalla fatica e dallo stress. Perché? Al di là della nostra natura altruistica, potrebbero esserci motivi di cui forse non siamo affatto consapevoli. Ecco che allora potremmo cominciare a farci qualche domanda di questo tipo: 
“Può essere che tutto ciò, abbia in qualche modo a che fare col tipo di rapporto che instauriamo con i pazienti?” Guardiamoci un attimo dentro: “Sento spesso in me la spinta, il bisogno di salvarlo dalla condizione in cui si trova o guarirlo dai suoi problemi definitivamente?” 
Se così fosse, potrebbe allora essere utile andare più a fondo per farci un'altra domanda: “Quale rapporto ho con la sofferenza? Per me è un vissuto da eliminare a tutti costi, da evitare oppure un'esperienza inevitabile da affrontare?”  
Questa l’ipotesi guida: Vuoi vedere che in questi casi, non sopportando di vedere la sofferenza degli altri ci coinvolgiamo tanto, perché in realtà non la sopportiamo in noi stessi? 
 
E se invece la sofferenza cominciassimo a guardarla così? 
Vi sono due tipi di sofferenza: quella “utile” e quella “inutile”. 
Quella utile è un’esperienza inevitabile, perché è una dimensione naturale della vita e come tale non si può escludere. È come il letame. Più la rimescoli e più puzza. Più la eviti e più ti perseguita. Ma se la utilizzi come fertilizzante può addirittura tornarti utile.  
Quella inutile, invece si può evitare, perché ce la causiamo da soli quando rifiutiamo o neghiamo per troppo tempo quello che ci fa soffrire. Questo rifiuto crea infatti un'ulteriore sofferenza che è senza fine, perché rifiutando la sofferenza si rifiuta la possibilità di imparare da essa. E per non star male...si sta peggio. È questo l'Inferno! Dalla sofferenza si esce, dall’Inferno no. 
Di qualunque cosa si tratti, l'importante è dare valore e significato evolutivo alla sofferenza. Dargliene almeno la possibilità, perché altrimenti implode e regredisce in quella che è la forma DOLORE. E la ragione di fronte al dolore fa capolinea. 
La sofferenza non si spiega. La sofferenza si esprime. La sofferenza si offre… 
(per approfondimenti leggi l’articolo: https://sintetizzando.it/la-sofferenza-inutile) 
 
Nel caso invece ci accorgessimo di una mancanza di entusiasmo e di un appiattimento nel nostro lavoro, quanto tutto questo potrebbe essere invece dovuto ad uno scarso coinvolgimento con i pazienti? E perché? 
Un fallimento, o la perdita di un paziente sono esperienze inevitabili che possono scoraggiarci e intimorirci, fino a farci assumere un atteggiamento di freddezza, proprio per evitare di legarci e quindi soffrire nel momento del distacco. È tipico degli operatori sanitari finire nel tempo per ritrovarsi in questa condizione. Queste difese scattano automaticamente al fine di proteggerci e di farci andare avanti. Ma è tutto qui? O questa potrebbe essere solo una traccia di una ferita del passato che continua ancora oggi a condizionarci? Sarebbe in questo caso opportuno chiedermi: 
“Mi accorgo spesso di avere una tendenza a non legarmi personalmente ai pazienti, cercando il più possibile di evitare che possano appoggiarsi a me?” E ancora: “Più di una persona mi ha fatto notare di assumere una posizione distaccata soprattutto da un punto di vista emotivo?” 
Se questa mi sembra essere la strada buona, nel senso che in qualche modo queste parole mi risuonano dentro, allora potrebbe essere utile approfondire la questione ponendomi queste altre domande: 
“In passato mi è successo di soffrire troppo a causa degli altri? E se non facessi attenzione forse mi succederebbe ancora?” E quindi: “Sento in me una forte spinta a essere autonomo e indipendente?” 
Questa l’ipotesi guida: Vuoi vedere che per una reazione più o meno consapevole agli eventi, ho sviluppato la profonda convinzione che l'indipendenza dai legami è l'unico modo per rimanere in piedi e non soffrire? Una credenza antica che affonda magari le sue radici nel passato della mia infanzia e/o adolescenza, allorché ferito per non aver ricevuto quelle attenzioni che desideravo, ad un certo punto ho finito per affermare a me stesso: “Tanto io non ho bisogno di nessuno!”  
È la rabbia più che la paura, in questo caso, a generare l’evitamento. Ma come abbiamo visto precedentemente, l’evitamento genera degli effetti controproducenti. E così, in nome di una pseudoautonomia, finirò probabilmente per sentirmi ancora più solo. 
 
Sintetizzando, anche qui, ci ritroviamo di fronte a due tipi di dipendenza: quella “sana” e quella “patologica”.  
La dipendenza sana si genera quando una persona di riferimento ti accompagna fino a farti sperimentare quelle esperienze di successo che ti daranno la fiducia per iniziare a camminare da solo. La dipendenza patologica è quella che si crea quando chi ti dovrebbe aiutare non c’è, oppure non ti molla per paura di perderti ai primi accenni di autonomia.  
I confini sono sottili, ma determinanti: il limite è se la persona che hai di fronte crede davvero in te. L’energia psichica di cui stiamo parlando in questo caso è l’attaccamento. Il bisogno di attaccamento può appunto evolvere o involvere in diverse direzioni. L’ago della bilancia, lo fa il tipo di accompagnamento ricevuto. Un accompagnamento temporaneo e finalizzato, lo renderà una dipendenza sana, perché aprirà le porte a quelle esperienze di successo che consentiranno l’autonomia e il senso di appartenenza alla realtà circostante. Ma se questo accompagnamento non c’è oppure risulta morboso, si svilupperà in dipendenza patologica, spingendoci verso due possibili risposte:  
la morbosità di aggrapparci continuamente a qualcosa di esterno per sentirci protetti;  
una “pseudoautonomia” guidata dall’idea di non aver bisogno di nessuno, tanto irriducibile quanto il desiderio inconscio di attaccamento negatoci. Ed è questo il nostro caso. 
 
Noi tendiamo a rimuovere un bisogno straordinario che è il bisogno di dipendenza, di attaccamento. Non c'è una sola persona che non vedete orientata verso un'azione libera, espressione indipendente di sé, con l'obiettivo di essere autonoma e di non aver bisogno di nessuno. Ma non esiste proprio! Bisogna superare questa rimozione profonda del bisogno di dipendenza. Il bisogno di dipendenza rimosso blocca l'80% delle energie! [Antonio G. Tallerini] 
 
Seguendo questa prospettiva, possiamo immaginare l’importanza di consentire temporaneamente la dipendenza dei nostri pazienti nei nostri confronti, così da permettere le esperienze necessarie per iniziare ad avere fiducia in sé. Ma chi non ha mai sperimentato la dipendenza sana da parte di qualcuno che ha creduto davvero in lui, come potrà mai trasmettere questa esperienza agli altri?...  
 
Se vogliamo parlare di trasmutazione e di trasformazione delle energie, noi dobbiamo lavorare in direzione di ciò che ci porta all'APPARTENENZA. L'appartenenza è l'elaborazione più intelligente ed evolutiva di ciò che è la dipendenza. Cioè la sua trasformazione in senso costruttivo evolutivo. Essere appartenenti alla vita, alla materia, al corpo, alla terra, a tutto! [Antonio G. Tallerini] 
(per approfondimenti: https://sintetizzando.it/diventare-autonomi-ed-indipendenti) 
 
Dott. Giovanni De Gregorio  
Psicologo, Psicoterapeuta  
Specializzato in Psicosintesi Terapeutica  
www.giovannidegregorio.it 

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Dott.Giovanni De Gregorio

Psicologo, Psicoterapeuta - Napoli

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