Dott.ssa Laura Ravaioli

Dott.ssa Laura Ravaioli

psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista

SOS Panico!

SOS Panico! Accorgimenti per non farsi travolgere o essere di aiuto a chi ne soffre

Presentazione al ciclo di incontri -Freud e il mondo che cambia- Castelfranco Emilia, dicembre 2009.

Ansia, panico: cosa sono?

L’incremento statisticamente vistoso (tra il 4% ed il 7% nei paesi occidentali) è in parte certamente collegabile con l’alta velocità – di movimento, di comunicazione e di pronuncia della società moderna, ma credo non ci si possa fermare ad una spiegazione sociale, perché il panico e l’ansia sono manifestazioni di disagio presenti in epoche e luoghi molto antichi, che niente hanno a che vedere con la frenesia dei giorni d’oggi (già Sigmund Freud descrisse ansia e panico nel caso di Katharina).

E’ in un luogo interno dunque che dobbiamo cercare, non esterno.

Proveremo a conoscere meglio questo disagio, a descriverlo ma soprattutto a cercare di capire “quale messaggio” porta.

Infatti, mentre la maggior parte degli approcci – da quello farmacologico a certe forme di psicoterapie mirate a eliminare il sintomo- hanno intenzione di combattere ansia e panico come fossero una sorta di virus, o  di smascherarle come inganni della mente-  mi piacerebbe al termine di questa serata aver potuto pensare con voi all’ansia, al panico (che come vedremo è la forma acuta e improvvisa dell’ansia) come messaggi della mente che attraverso il linguaggio del corpo comunicano qualcosa alla persona, ma anche all’ambiente circostante.

Proprio dall’ambiente che circonda la persona che soffre di ansia vorrei partire…  solitamente si compie la direzione inversa, ma per avvicinarsi a ciò che la persona prova è utile secondo me compiere un passo indietro, come se stessimo osservando chi ne soffre.

Allora immaginiamo di avere vicino a noi una persona che soffre di ansia: una sorella, il fidanzato , un figlio.  Non sappiamo perché, ma vediamo che a volte sta male, non vuole uscire,  ha difficoltà a respirare e tachicardia. A volte ci possiamo sentire anche vagamente in colpa, perché spesso lui o lei sta male quando non siamo presenti. Al Pronto Soccorso ci dicono che non c’è problema, che si tratta di un attacco di ansia, anzi, usano parole sempre diverse: ADP, disturbo di ansia, una questione di testa...   Però a lui (o lei) questa diagnosi anziché rassicurarlo, ci sembra lo faccia ancora piu' arrabbiare, e se proviamo a fargli notare che potrebbe essere così, ci dice che non abbiamo capito niente e che non siamo di aiuto. E allora ci verrebbe da ribattere di arrangiarsi, ma ci dispiace, e finiamo per alternare questi due comportamenti: la vicinanza ed il sostegno, e l'allontanamento.  Siamo impotenti, ci sentiamo inutili.  Talvolta anche limitati, forse più nei progetti che nella vita quotidiana: non ci possiamo allontanare da casa a cuor sereno, oppure organizzare un viaggio insieme è impensabile. Anche il sogno di una gravidanza può rimanere seppellito sotto questa crisi.

Dato che le motivazioni alla base del panico sono inconsce, cioè inconsapevoli, a poco o nulla valgono le rassicurazioni razionali, i consigli degli amici e della famiglia, la lettura di libri di auto-aiuto, e anche la più determinata forza di volontà spesso non porta sollievo.

Ci avviciniamo a quello che prova la persona a cui vogliamo bene, e che ci fa soffrire veder stare così male, ma altre volte sentiamo il bisogno di distanziarci come le persone alle spalle del protagonista del quadro di Much .

Il titolo originario è Der Schrei der Natur, in tedesco “Il grido della natura”; il quadro fu realizzato nel 1893 e dipinto in più versioni; la scena si dice rappresentare un’esperienza vissuta realmente dall’artista e legata all’eruzione del vulcano Krakatoa, i cui effetti di luci furono visibili sino in Norvegia e a cui Munch avrebbe assistito mentre si trovava a passeggiare con degli amici su un ponte della città di Nordstrand (che oggi è un quartiere di Oslo).

Leggiamo cosa scrisse Munch di questa esperienza:

Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò,

il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue.

Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto.

Sul fiordo neroazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco.

I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura...

e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.

E. Munch, “Diario”

sullo sfondo i due amici del pittore che si allontanano ignari lungo il ponte, su di una strada diritta, mentre il soggetto protagonista con la bocca spalancata emette un grido sconvolgente che deforma il volto e il corpo (quest’ultimo appare come privo di colonna vertebrale) fino a mutare anche il paesaggio circostante, dipinto con linee curve.

Il panico stravolge dunque l’esperienza percettiva e l’immediato ambiente del protagonista, ma la strada diritta e gli amici distanti sembrano richiamare la freddezza e l’impassibilità di talune persone o situazioni.

Il quadro di Munch si presta ottimamente a rappresentare il vissuto della persona che soffre di panico; anche quando, infatti, passata la fase della sorpresa, il paziente ha accettato l’idea di avere questo disturbo e ha potuto constatare che non è oggettivamente pericoloso, nondimeno egli prova un forte sentimento di solitudine, non riuscendo a comunicare, se non parzialmente e con difficoltà, questa sua terribile esperienza agli altri. Il quadro mi sembra invece proprio l’esempio più riuscito di comunicare il suo disagio interiore– ecco forse perché viene spesso scelto e citato, e non solo dunque per la sua bellezza.

Ora proviamo a metterci al posto di Munch: anzi, immaginiamo di essere noi a soffrire di panico.

Prima di tutto, ci vergognamo a parlarne, e la paura principale è proprio quella di star male di fronte agli altri. Abbiamo la sensazione che gli altri  sminuiscano sempre come ci sentiamo,  mentre per noi è “di una questione di vita o di morte”, perché realmente ci sentiamo morire o di fare una figuraccia “da seppellirsi”. Magari siamo sempre stati emotivi, ma il primo attacco di panico, così ci  hanno detto che si chiama, l’abbiamo avuto a 25 anni, perfettamente a metà di quella che dicono essere “l’età di esordio” che è tra i 15 e i 35 anni.

La prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di andare al Pronto Soccorso pensando di avere un principio di infarto, o una compromissione dell’apparato respiratorio, o una crisi acuta di un’altra malattia organica.

Quando però gli esami diagnostici e le visite mediche non riscontrano alcuna patologia fisica, non ci siamo per niente sentiti rassicurati, anzi, secondo noi i medici avevano sbagliato qualcosa.

Gli altri ci dicono  frasi fatte, o danno consigli estremamente personali… c’è addirittura uno psicologo in tv che ci dice che dobbiamo semplicemente reagire ed uscire. Certo, bravo, se fosse così facile e dipendesse da noi, certo che usciremmo... C’è un altro tipo invece, che ci dice che è una questione di sostanze nel corpo che mancano, e che si devono prendere dei farmaci; per un po’ li prendiamo ma non li vogliamo prendere per sempre. E poi c’è chi ci parla di questione psicologiche… ma quando stiamo male è proprio il corpo che non risponde più! Come una sensazione che viene,  incontrollabile e che costringe ad interrompere ciò che stiamo facendo: il corpo richiama tutta  la nostra attenzione.

Proseguiamo un po’ il viaggio insieme alla scoperta dell’ansia. Si usa il termine: ansia, paura, angoscia, panico. Ma c’è una qualche differenza?

Paura:    Tutti abbiamo provato momenti di paura intensa; da bambini il timore del buio, dei mostri e delle streghe sono molto comuni, così come durante l’adolescenza la preoccupazione per le interrogazioni o quella di non piacere agli amici, mentre in età adulta possono spaventare i cambiamenti. Potremmo dire che ogni età, ogni fase della vita ha le sue difficoltà e dunque le sue paure, ed è addirittura auspicabile che tutti provino un certo grado di paura, infatti se l’uomo non conoscesse paura si esporrebbe eccessivamente ai pericoli e la stessa conservazione della specie ne sarebbe minacciata.  La paura è dunque un’emozione universale, ma dato che non gode di buona fama, spesso è taciuta agli altri e nascosta anche a se stessi; altre volte questa emozione viene ricercata come fonte di piacere ed eccitazione: il successo dei thriller letterari e cinematografici ne è un esempio, così come quello di alcune giostre come le montagne russe o di attività estreme tra cui il bungee-jumping.

Ansia: La parola “ansia” deriva dal latino tardo anxia, da anxius, “ansioso”, derivato a sua volta da àngere, “stringere”, così come la radice indoeuropea angh significa “stringo”, e anghù ha il significato di “stretto, angusto”: ecco dunque una descrizione acuta di quello che spesso si vive, si prova durante un momento di ansia. Per la maggioranza delle persone l’ansia, pur se avvertita distintamente, appare controllabile e non è sentita come un vero disturbo ma è considerata una reazione congrua alla situazione - perché l’esame, ad esempio, è importante, oppure perché il datore di lavoro è molto esigente - oppure è riconosciuta come timidezza o insicurezza e considerata un limite della proprio carattere.

Tutti abbiamo fatto esperienza di una certa ansia, per esempio prima degli esami o di un colloquio di lavoro: ripensandoci successivamente, un brutto voto o un rifiuto non erano pericolosi nel senso fisico, ma lo erano per l’immagine che si aveva di se stessi o per il timore di quello che avrebbero pensato gli altri del nostro insuccesso, dunque potevano minacciare la nostra autostima.

Solo quando l’ansia causa un vero e proprio disagio o un limite nel funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree di vita  importanti che si può parlare di un vero e proprio disturbo: è sicuramente diversa la situazione per cui l’ansia porta a vivere un esame con grande agitazione da un’altra in cui l’emotività impedisce di presentarsi ad affrontare adeguatamente l’esame; in quest’ultimo caso, l’ansia non può essere considerata una peculiarità del carattere che rende unica e speciale quella persona, ma diventa un meccanismo limitante che porta sofferenza e che semmai impedisce di accedere alle proprie risorse interiori e di esprimere la propria originalità.

Panico: quando l’ansia si presenta in modo particolarmente intenso, attivando tutta una serie di reazioni fisiche oltre che psicologiche, le è stato dato il nome di attacco di panico oppure, in passato, di accesso di angoscia; il più delle volte l’attacco di panico si verifica all’improvviso con un vissuto di paura travolgente, che sembra non avere alcuna ragione, ed in modo molto più intenso della sensazione di spavento che la maggior parte delle persone ha sperimentato.

Quindi il panico comporta il vissuto di paura, ma se ne distingue perché, mentre la paura è descritta come una spiacevole sensazione legata alla presenza o al verificarsi di qualcosa di specifico, il panico, come l’ansia, si scatena in modo misterioso e incomprensibile per chi lo prova.

Il terrore è collocato dentro il proprio corpo, il pericolo è identificato all’interno di se stessi e il proprio mondo interno sembra rivelarsi un luogo sconosciuto, contenitore di sensazioni sconvolgenti a cui non si può sfuggire.

Panico deriva dal greco panikòs, che richiama Pan, divinità dei boschi, dei campi e della fertilità, dio dei pastori e delle greggi; era infatti detto timor panico, o terrore panico, quel timore misterioso e indefinibile che gli antichi ritenevano causato dalla presenza del dio.

Quando qualche mortale si recava presso questo dio potente e selvaggio per chiederne i favori,  ma incautamente ne turbava il riposo, egli si arrabbiava moltissimo ed emetteva urla terrificanti.

Non che il suo aspetto spaventasse di meno, perché Pan è raffigurato con zampe irsute, zoccoli e corna caprine, il busto umano, il volto barbuto e l’espressione terribile.

secondo la mitologia greca Pan era lo spirito delle creature naturali ed il suo mito è legato alla foresta, alle cime dei monti così come all’abisso ed al profondo.

Della madre di Pan, la bellissima ninfa della Quercia, si narra molto poco, ma sappiamo lo abbandonò non potendo accettare il suo aspetto deforme; un comportamento innaturale e spietato, che può essere compreso (mai giustificato, anche nella realtà) pensando alla ferita narcisistica che deve aver suscitato l’incontro con un figlio così diverso dalle proprie aspettative gloriose.

Il genitore che lo accolse amorevolmente fu invece il padre, che lo portò con sé sull’ Olimpo; per gli antichi Greci, il dio Ermes incarnava lo spirito del passaggio e dell’attraversamento, e ritenevano che si manifestasse in qualsiasi tipo di scambio, trasferimento, violazione, superamento, mutamento, transito, tutti concetti che rappresentano in qualche modo un passaggio da un luogo o da uno stato all’altro; egli è in relazione con i cambiamenti della sorte dell’uomo, con lo scambio di beni, con i colloqui e lo scambio di informazioni consueti nel commercio nonché con il passaggio dalla vita a ciò che viene dopo di essa; egli era il messaggero degli dei, l’araldo, colui che accompagnava i morti nel trapasso verso l’Ade, protettore dei viaggiatori, dei commercianti e dei ladri. Divertendoci ad immaginarla una vera famiglia, potremmo dire che il padre, per queste sue caratteristiche di apertura ai cambiamenti e tolleranza delle diversità, possedeva maggiori strumenti interni  per accogliere l’originalità del figlio.

Pan era anche un dio con una forte connotazione sessuale, che esprimeva liberamente le sue passioni amando sia donne che uomini,  reclamando con brama di possesso l’oggetto della sua passione. Ma oltre alla derivazione etimologica, quali relazioni vi sono tra l’esperienza di panico e il dio Pan?

I boschi e gli abissi che Pan protegge richiamano quella remota parte all’interno di ciascuno di noi in cui si sedimentano le esperienze, ma di cui diveniamo consapevoli attraverso i sogni, i lapsus, gli atti involontari e il lavoro psicoanalitico: l’inconscio. Pan può ben rappresentare i nostri aspetti più vitali: le pulsioni aggressive, come quando si arrabbia urlando contro chi osa disturbarlo nel riposo, ma anche le pulsioni sessuali, come narrano i tanti miti a lui legati.

Pan stesso si dice che in un’occasione fuggì per la paura da lui stesso provocata: quanta paura può fare accorgersi della forza delle proprie emozioni, in questo caso, della propria aggressività? Un altro punto di contatto tra la storia di Pan e il panico si può dunque rintracciare nel timore di perdere il controllo, di abbandonarsi alle emozioni

Ma ritengo di particolare interesse il fenomeno dell’urlo: è con questo che Pan sfoga la sua rabbia, ma anche impedisce che altri lo disturbino nel sonno e così difende l’Olimpo dal mostro Tifone; il grido involontario, anche nel panico, oltre ad avere dunque una funzione di scarica, sarebbe al contempo una richiesta di aiuto.

Ma in che senso: funzione di scarica? E richiesta di aiuto?

Sigmund Freud notò che le crisi avvenivano spesso in conseguenza di cambiamenti nella vita sentimentale; come se il desiderio, la libido si accumulasse trasformandosi in angoscia, ma mantenendone le caratteristiche primariamente fisiche, tra i quali l’aumento del battito cardiaco, l’irregolarità del respiro, la sudorazione profusa…  un “ingorgo” del desiderio. Successivamente riformulò l’angoscia come reazione ad un pericolo: in particolare osservò la reazione ansiosa del bambino quando era separato dalla persona che più di tutti ama, la madre.

Edoardo Weiss, pioniere della psicoanalisi italiana, parlò di una fragilità del sentimento dell’Io e del rapporto con l’ambiente esterno come fosse una rappresentazione dei propri stati mentali. Secondo le sue osservazioni, gli oggetti sono rappresentazioni simboliche di certe funzioni del proprio Io che colui che soffre di panico non sente contenute dentro di sé.

Pensiamo agli psicofarmaci da utilizzare al bisogno: per molte persone che soffrono di panico il solo sentire di averli in tasca o in borsa è sufficiente a rassicurarle, e ci si può interrogare sulla funzione alla quale questi oggetti assolvono nell’immaginario.

E tutto ciò che si pone come limite fisico o sbarramento per la persona, come ad esempio i passaggi a livello chiusi, i caselli autostradali o gli ascensori,  genera una forte angoscia forse proprio perché probabilmente richiama un blocco interiore, mentre agli spazi aperti si ricollega una inebriante libertà che fa paura. Nel panico, infatti, il corpo sembra esprimere un conflitto tra il desiderio di controllo e quello per la libertà di vivere pienamente la vita e se stessi.

La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare (Lorenzo Cherubini, “Mi fido di te”).

Ma perché parla il corpo?

Descrivere uno stato ansioso richiede dunque inevitabilmente l’utilizzo del “linguaggio del corpo”, in quanto l’ansia si impone nel vissuto della persona con i suoi aspetti somatici; il panico è descritto da sintomi fisici concreti, che però non hanno la funzione di simbolo, ma più grossolanamente sembrano prenderne il posto.

Il corpo esprime attraverso gli attacchi di panico un allarme che non si accompagna necessariamente al vissuto di paura o spavento, il che porta all’apparente ossimoro di attacchi di panico in assenza di paura

Ansia ed il corpo

L’ansia e il panico sono i sintomi di disagio psicologico in cui più si avverte la dimensione corporea, biologica: si percepisce aumento della frequenza cardiaca, aumento dell’intensità apparente del battito cardiaco, difficoltà di respirazione (sensazione di non riuscire ad inalare aria a sufficienza, senso di soffocamento), difficoltà di deglutizione, vertigini, stordimento o confusione mentale, sensazioni che qualcuno ha descritto come “di ovatta nella testa”, o “camminare sulle uova”, nausea, tremori, sudorazione, dolori al torace, fitte al cuore, vampate di calore, senso di freddo improvviso agli arti o sensazione di torpore o formicolio alle mani e ai piedi, che spesso si accompagnano a un vissuto di un terrore quasi paralizzante e alla paura di impazzire, di perdere il controllo della propria mente o alla paura di morire.

Queste manifestazioni somatiche dell’ansia trovano una parziale spiegazione nel meccanismo di attivazione naturale del corpo in situazioni stressanti; le nostre emozioni si correlano ad un’ampia serie di ormoni cerebrali (come la dopamina, la noradrenalina, le endorfine) e gli eventi esterni hanno la capacità di modificare l’equilibrio neuroendocrino (per esempio, un evento piacevole può stimolare la produzione di endorfine, l’attività sportiva e fisica può avere un effetto eccitatorio ecc.), ma la risposta agli stessi eventi è differenziata da individuo a individuo, in rapporto sia alla struttura fisica, che all’influenza delle esperienze precedenti.

Lo stress, quando supera la soglia di tolleranza, determina alcune modificazioni fisiche e psicologiche: tensioni muscolari, spasmi viscerali, sensazione di freddo al corpo, alterazione dei meccanismi neurovegetativi. L’attacco di panico sembra però differenziarsi dal vissuto di paura e dalla condizione di stress anche dal punto di vista delle modificazione biologiche: esso non si associa ad un’improvvisa crisi del sistema autonomo simpatico e nemmeno a segni di una stimolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene come ci si potrebbe aspettare in uno stato di paura.

Quando reagire non è possibile, un’altra reazione istintiva, chiamata “freezing”, permette all’animale-preda, di fronte alla minaccia, di immobilizzarsi nel tentativo di rendersi invisibile o fingersi morto. Non potendosi tuttavia attuare la scarica motoria coordinata al compimento dell’azione, si ripetono soltanto i fenomeni neurovegetativi che l’accompagnano, come la tachicardia, la difficoltà a respirare, la sudorazione.

Queste reazioni istintive si configurano come meccanismi di difesa rispetto ad una situazione che in quel momento è ritenuta pericolosa; nell’uomo si ritiene avvenga qualcosa di simile: la reazione di allarme che deriva dalla percezione, anche inconscia, del pericolo non evitabile ed inaffrontabile determina come nel freezing che la carica di energia che non può essere investita nell’eliminazione del pericolo defluisca sul sistema neurovegetativo provocando i fenomeni fisici percepiti nella crisi d’angoscia.

Le ricerche scientifiche hanno dimostrato che la maggior parte dei disturbi mentali è correlata ad una disequilibrio nella regolazione di queste sostanze, ma tuttora la scienza medica non è in grado di dire se questa sia la causa del disturbo mentale, oppure la conseguenza.

Ultimamente, la psicoanalisi e le neuroscienze hanno manifestato reciproci segni di attenzione. Se pensiamo inoltre che le recenti ricerche hanno riconosciuto una grande importanza alle esperienze intrauterine (prenatali) diventa piuttosto forzata e sterile - mi sia concesso il gioco di parole - la contrapposizione tra influenze ambientali e innate

Dunque pur essendo stato riconosciuto un substrato biologico che sottende il panico, la modalità di cura più adatta per questo disturbo è l’intervento integrato che unisce la terapia farmacologica, utile nel momento di presa in carico e gestione dell’emergenza, con la terapia psicologica.

L’orientamento psicoanalitico, in particolare, permette un lavoro in profondità e nel rispetto dei tempi del paziente, al fine di chiarire le cause che hanno determinato questo disagio ed attivare un processo di reale cambiamento. E' importante considerare che la terapia farmacologica da sola va incontro a  percentuali di ricadute che oscillano tra il 71% e il 95% alla sua interruzione.

Abbiamo potuto vedere come il panico nasconda significati e disagi che vanno ben al di là di un malessere corporeo. Nella maggior parte dei casi, solo in seguito ad una psicoterapia sufficientemente approfondita è possibile chiarire le circostanze che hanno attivato questo meccanismo, in quanto la persona percepisce solamente i correlati fisici e il lavoro analitico permette di porsi in ascolto di se stessi al fine di recuperare l’aspetto affettivo che si nasconde dietro la sensazione fisica di panico, e successivamente chiarire le circostanze che hanno attivato questo meccanismo.

Ma in che modo la psicoanalisi cura il panico? I pazienti che presentano disturbi di panico, o comunque privilegiano il corpo come veicolo per comunicare le proprie emozioni, trovano come primo beneficio la creazione di un’area pensabile per le proprie emozioni e, spesso, quelle che prima erano incomprensibili sensazioni corporee diventano pensieri di cui parlare ed acquisiscono un significato.

La libertà sembra costituire il più grande desiderio, ma anche la più grande paura.

1. Un primo, banale accorgimento per chi ha sperimentato un attacco di panico è sicuramente quello di rivolgersi agli specialisti per definire insieme l’opportunità di un percorso psicoterapeutico: il panico è un segnale di allarme che va colto, ed accolto, come una comunicazione di cui, ancora, non si capisce il significato. Non ascoltarlo, o zittire semplicemente il segnale (come si potrebbe fare con la sola terapia farmacologica), significa andare incontro a possibili ricadute e sarebbe come se in una casa in cui suona l’allarme io togliessi la sirena, anziché domandarmi perché e dove è scattato l’allarme.

2. In secondo luogo, per gestire al meglio i momenti critici, si può iniziare a riflettere su quali siano le situazioni o le condizioni che fanno scattare il timore che un successivo attacco di panico si ripresenti, e cosa in queste situazioni può aiutare a far fronte al panico: se, ad esempio, la presenza di un collega, un amico o un parente può essere di aiuto.

Si può anche informare preventivamente queste persone su quel terribile miscuglio di sentimenti e sensazione fisiche che si prova, perché, se è sicuramente vero che essi non possono condividerle, almeno avendo le informazioni necessarie possono evitare di agitarsi anch’essi, accrescendo la tensione del momento.

3. Comunque, l’accorgimento più importante e che riunisce i precedenti sembra essere quello di non isolarsi, ovvero di non allontanarsi rispetto agli altri, rispetto all’aiuto che si può avere dagli specialisti, ma anche rispetto alla propria esperienza, a quella parte di sé, sicuramente fragile, che reclama attenzione.

4. Per i familiari e gli amici questo può tradursi nella domanda: “Cosa posso fare, cosa ti fa piacere e cosa invece ti dà fastidio che io faccia nel momento in cui provi panico?”, ovviamente posta in un momento e in un luogo in cui la persona si senta piuttosto tranquilla e al sicuro, e non durante la crisi.

Anche se lo vorremmo, infatti, non si può impedire la sofferenza che il nostro caro prova, e che implica un suo personale cammino di consapevolezza e di crescita, ma lo si può sostenere in questo percorso: non ci sostituiremo dunque a Munch, ma nemmeno saremo così distanti, come i suoi amici del dipinto, da non sentirne il richiamo di aiuto.

Riferimenti

L. Ravaioli "L'urlo interiore. Capire e affrontare il panico", I saggi, Foschi Editore. 2009

commenta questa pubblicazione

Sii il primo a commentare questo articolo...

Clicca qui per inserire un commento