La Presenza come fine della terapia e mezzo per il superamento della sofferenza

Cerchiamo innanzi tutto di delineare i concetti di Presenza e sofferenza a cui ci riferiamo in tale articolo. Il quadro epistemologico all’interno di cui si svilupperà la nostra trattazione è quello della complessità. Seguendo tale modello utilizziamo la metafora di sistema per riferirci all’essere umano: “l’Io-soggetto” così come lo chiama Minolli (2009) è una totalità auto-eco organizzata in continua interazione con l’ambiente che, nel divenire dialettico della stessa, attua la propria coerenza nel processo della vita. L’auto organizzazione del sistema, in tale visione, diventa il garante dell’unitarietà del sistema, nonostante il continuo scambio con l’ambiente necessario per la propria sussistenza. Il sistema, attraverso la propria attività auto-organizzante, evolve nella possibilità di integrare gli stimoli nell’organizzazione attuale o nella promozione di un cambiamento di livello di organizzazione, sempre nelle possibilità dell’organizzazione attuale. Porre l’accento sull’auto-organizzazione rischia però di non far cogliere l’aspetto eco della stessa: auto ed eco organizzazione non sono scindibili, non esiste sistema senza ambiente e ambiente senza sistema. Ciò ci conduce quindi a sottolineare l’importanza dell’ambiente nell’evoluzione della coerenza del sistema, che avviene non in contraddizione con la naturale tendenza del sistema ad attuare la propria organizzazione. Tale tendenza viene espressa dal sistema a tutti i suoi livelli, compreso quello riflessivo. L’interpretare l’essere umano come un sistema ci permette di uscire da qualsivoglia riduzionismo che tenda a dar maggior importanza a una sua sottocomponente rispetto a un’altra. La sessualità, così come il pensiero riflessivo, non possono esser visti come causali il funzionamento del sistema ma solo come “parti” che partecipano all’attuazione della coerenza presente.

L’essere umano inoltre è nella possibilità di essere Presente a se stesso. Con tale termine intendiamo la capacità di una persona di essere Presente a ciò che è in quel momento dato. Possiamo immaginarci tale concetto come una persona che riesca ad osservare il proprio funzionamento, nel momento presente, senza giudizio o desiderio. “La Presenza è presenza del sistema al suo essere quel sistema dato, in quel momento dato” (Minolli, 2009). Non è proprio facile definire un tale concetto in quanto, il referente di tale termine è un’esperienza che può sfuggire alla riflessività. Il cogliersi riflessivo può essere mezzo o espressione della Presenza, ma può anche essere solo un abbaglio funzionale al mantenimento della coerenza ben distante dal suo cogliersi. Le parole e i pensieri non sono necessari sulla via della Presenza, anche se nei nostri studi ci serviamo soprattutto di essi. La riflessività nell’Io-soggetto è funzionale a mantenere la coerenza in atto e, la Presenza, esula da una qualsiasi funzionalità sistemica in quanto non risponde all’organizzazione, è piuttosto una sua qualità, possibile ma non automatica. Il processo può evolvere in infiniti modi, ma solo la Presenza permette alla dialettica processuale di essere libera e creativa nel suo evolvere. La Presenza esercita quindi un’influenza sul nostro funzionamento quotidiano ma, questa acquisizione qualitativa, non è dipendente da fatti o esperienze. La Presenza non può essere indotta dall’esterno, può essere al massimo facilitata, ma è solo il sistema che può porsi attivamente nel perseguire tale qualità del processo. Per Minolli (2009) la Presenza concerne la dimensione unitaria dell’Io-soggetto, un riconoscersi indipendentemente dall’oggetto che, in qualche modo, ne sancisce l’unitarietà. In accordo con tale autore ritengo che la Presenza conduca a cogliersi come unità, indipendente dall’ambiente, e che questo sia un primo passaggio necessario per chi si inerpica su tale sentiero.  Il continuare a percorrere questo cammino conduce però a uno scenario diverso, solo apparentemente in contraddizione: la possibilità di cogliersi come altro da tale unità, che è solo conseguenza di un punto di vista e che rischia di porci in una posizione narcisista di separatezza. In altre parole: ciò che siamo è altro dalla coerenza del sistema auto-eco organizzato, nonostante siamo abituati a identificarci con essa. Il soggetto e l’oggetto sono due punti di vista su una realtà unitaria, la dipendenza e l’autonomia sono solo conseguenze di tali impliciti. L’essere umano è sia parte che tutto, sia soggetto che oggetto, sia auto che eco organizzato… L’attestarsi su uno di questi aspetti dipende solo dal punto di osservazione, dall’osservatore che crea la realtà osservata.

 

Tornando al nostro discorso, e seguendo Minolli, sosteniamo che l’accedere alla Presenza comporti almeno tre movimenti determinati:

Il ritorno dall’oggettivazione

Il sistema umano, nel tentativo di attuare la propria coerenza mantenendo la propria organizzazione è portato, a livello riflessivo, a spostare la causalità dei propri stati all’esterno, in altre parole, a oggettivare. Per questa ragione ci diciamo stressati per il lavoro, oppure oppressi da una ragazza troppo “dipendente”, oppure felici perché vi è il sole, ecc. Tutti noi, nel continuo discorso che viviamo “nella testa” in automatico spostiamo sull’oggetto le cause dei nostri moti d’animo. In realtà non è l’esterno a stressarci o renderci felici ma il particolare modo in cui lo facciamo nostro, secondo i vincoli e le possibilità della nostra coerenza. Dire questo significa porre l’accento sull’auto organizzazione del sistema, a scapito dell’eco. Dire questo significa enfatizzare l’unitarietà del sistema, a scapito di quell’interazione di cui facciamo parte e da cui non possiamo essere disgiunti. Il problema della nostra logica è che, definendo A, lo separiamo da B. La realtà però non è quella formata da A e B, ma quella in cui A e B sono un tutt’uno al punto che dobbiamo immaginare la loro originazione come interdipendente, dal punto di vista logico. Indi per cui abbiamo detto che riteniamo che in un primo momento, per accedere alla qualità della Presenza, sia necessario porre enfasi sulla componente soggettiva e unitaria del sistema, che ci porta a coglierlo come “indipendente” dall’ambiente. Un tale movimento è necessario per imboccare la strada della Presenza e perseguirla. Durante il cammino però le cose mutano, pur restando uguali. Il potersi cogliere come sistema che mantiene una propria coerenza nell’interazione con l’ambiente, attivamente responsabile dei propri stati, ci libera dalla sopraffazione ambientale ma non dai vincoli della coerenza stessa. Il sistema è espressione dell’interazione, tende al mantenimento della propria organizzazione stabilizzatasi attraverso la propria attuazione nei primi anni di vita. La coerenza del sistema e l’ambiente sono due facce della stessa medaglia, la coerenza è in virtù dell’ambiente e l’ambiente è in virtù della coerenza. L’unitarietà del sistema dipende dal punto di vista, così come la sua separazione dall’ambiente. La teoria sistemica è una lente che va applicata a tutta la realtà fenomenica nella sua totalità, soffermarsi sull’essere umano dipende solo dal punto di vista, dal livello a cui ci poniamo e siamo abituati a porci. La teoria della complessità ci ha resi edotti dell’incertezza, dell’errore della nostra conoscenza, del riduzionismo delle nostre teorie, del loro determinismo. Dobbiamo stare attenti a non pensare che l’essere umano sia realmente un sistema. Possiamo comprendere meglio il nostro funzionamento paragonandoci a dei sistemi, interpretandoci come tali, ma non possiamo pensare di ridurci ad essi. Se così facessimo piegheremmo l’epistemologia della complessità a quel riduzionismo che abbiamo cercato di abbandonare. Dobbiamo ammettere umilmente che la nostra conoscenza cognitiva non può permetterci di giungere all’essere ma solo alla sua manifestazione fenomenica, o meglio, all’interpretazione di una tale manifestazione. Quindi, anche se nel promuovere la Presenza ci troviamo a decretare l’autonomia del sistema dall’ambiente, in un secondo momento dobbiamo riconoscere che il sistema è in tutto e per tutto espressione di quell’ambiente in quanto non è altro da esso (all’interno della metafora sistemica) e, in un terzo momento, possiamo riconoscere che noi stessi siamo altro da quel sistema e quell’ambiente che sono stati mezzi adeguati a trasportarci sull’altra riva del fiume. Una volta arrivati sull’altra sponda possiamo disfarcene, dobbiamo disfarcene se vogliamo proseguire. Ognuno di noi è ben altro da quel sistema e da quella coerenza, da quell’Io con cui è abituato ad identificarsi. 

Il riconoscimento dello stato del sistema

Sempre seguendo Minolli (2009) vi sono due elementi determinanti tale riconoscersi: la dimensione riflessiva del sistema e lo stato del sistema. Essendo passata per il ritorno dall’oggettivazione la dimensione riflessiva permette al sistema il riconoscimento del suo stato attuale, della propria coerenza, all’infuori di quei ragionamenti e giudizi fuorvianti che solitamente preservano la coerenza in atto. Il sistema è quindi nella possibilità di cogliersi nel suo stato. Con questo concetto Beebe e Lachman si riferiscono agli affetti, al livello di attivazione fisiologica, all’elaborazione emotiva che il soggetto fa momento per momento, in linea generale quindi a qualcosa che riguarda il sistema nella sua globalità. Per Sander (2002) lo “stato è una configurazione molto specifica ed empiricamente valida della complessità e ancor più dell’unità di un sistema vivente. Lo stato è la configurazione, ricorrente e riconoscibile ogni volta che si presenta, di un insieme di variabili che caratterizzano il funzionamento del sistema come unità in un momento dato”. Al ché Minolli(2009) specifica: “ la parola può facilitare il riconoscersi nello stato dandogli un nome, ma lo stato non è la parola e ciò che la parola tende parzialmente a esprimere e a circoscrivere non potrà mai corrispondere all’interezza dell’esperienza sistemica”. Allo stesso modo ci sovviene aggiungere che ciò che intendiamo come “stato” è solo un punto di vista che tende a delineare, definire, qualcosa che ci sfugge e che solo la Presenza ci permette di cogliere. Qualunque teoria, parola o pensiero, atto a definirlo o descriverlo può essere fuorviante nel senso che può deviare la nostra attenzione su contenuti che ben poco hanno a spartire con tale stato. Quando si parla di capacità di Presenza dell’essere umano bisogna stare molto attenti nel dare alle parole il giusto valore in quanto siamo ben consapevoli che essa è qualcosa che sfugge alla cognizione non essendo determinabile se non al prezzo di ridurla a variabili che, di per sé, non la rappresentano.

L’assunzione del riconoscerci

Tale assunzione del riconoscersi viene rimarcata in quanto la Presenza implica anche un’assunzione da parte del sistema nel suo riconoscersi nello stato. Minolli (2009) per cercare di meglio descrivere tale assunzione usa il termine appropriazione. Con questo termine si vuole enfatizzare il fatto che il sistema, nel riconoscere il proprio stato attuale, si riconosca e quindi si appropri di ciò che esso è, in quel dato momento. Sistema e stato del sistema sono la stessa cosa ma, il rispecchiamento dell’uno nell’altro, è frutto della Presenza, così come la comprensione di essere altro nonostante si funzioni apparentemente come sistemi. Detto in altre parole, forse più adeguate, possiamo affermare che attraverso la Presenza l’essere umano può cogliere il proprio funzionamento attraverso la metafora sistemica, creata ad hoc per tal fine, ma che, nel proseguo di questo viaggio, essa può apparire riduttiva se non la si comprende per ciò che è: un modello per descrivere cognitivamente qualcosa che ci sfugge in quanto ben più complesso, incerto e imprevedibile di qualsiasi modello la nostra logica dualista possa creare. Tale fatto è conseguenza della consapevolezza del processamento dell’informazione che crea, attraverso gli organi percettivi, i contorni degli oggetti a partire da un continuum di stimoli multiformi che traggono la loro definizione dall’organo percettore e non dal loro essere.

 

Dopo aver esplorato, a livello teorico, ciò che intendiamo per Presenza, ci proponiamo di indagare cosa intendiamo per sofferenza. Tutti noi, chi più chi meno, abbiamo fatto esperienza di una certa sofferenza, a volte fisica (ad es. una frattura), a volte psicologica (ad es. un certo umore depresso, una svogliatezza e passività vissuta di fronte a problemi ritenuti insormontabili), a volte sia fisica che psicologica (ad es. una frattura e un umore depresso “a conseguenza” della prima, una forte agitazione accompagnata da crampi allo stomaco, astenia e abulia, paura che il partner ci tradisca e tensione fisica costante oltre a una certa ideazione paranoica, ecc). Molte volte, anche se abbiamo vissuto un dolore fisico, ad es. una frattura, siamo rimasti sereni perché “ce ne siamo fatti una ragione”, a volte si vive una forte paura per un insetto o animale ma, lontano da esso, si è sereni, ecc. Le ragioni che ci diamo per ogni sofferenza possono essere varie ma, se si avvia in se stessi la qualità della Presenza, allora si sarà portati a comprendere che tutte queste ragioni parlano solo superficialmente della causa della sofferenza stessa. A livello del sistema possiamo pensare che la sofferenza riguardi la coerenza, o meglio, il passaggio da un certo livello di coerenza ad un altro. Se ripensiamo all’auto-eco organizzazione del sistema forse possiamo comprendere come il sistema stesso sia espressione della dialettica interattiva di cui è parte. Tale dialettica non è qualcosa di statico ma un flusso continuo in cui la tendenza del sistema a mantenere la propria coerenza si incontra con le “novità” che l’interazione propone. Tali tendenze, che appaiono contrapposte da un punto di vista logico, in realtà, non lo sono. Se non vi fosse movimento, cambiamento, non vi sarebbe la vita. La vita è un processo in continua evoluzione non perché interagisce con un certo ambiente ma perché è essa stessa espressione di tale interazione. Per descrivere la vita attraverso la teoria della complessità utilizziamo la metafora di sistema. All’interno di tale metafora si crea l’apparente contraddizione fra la tendenza al mantenimento della coerenza del sistema (che in tale modello diventa garante dell’unitarietà del sistema e quindi della vita) e la continua interazione con l’ambiente (necessaria per la sua sussistenza). Forse potremmo provare “ad allontanarci” leggermente dalla metafora di sistema e utilizzare quella di processo così da descrivere la realtà come un insieme di processi interdipendenti, inseparabili, la cui identificazione come sistema è solamente conseguenza del punto di vista adottato dall’osservatore. I processi, nella loro dialettica interattiva, evolvono pur permanendo loro stessi, per lo meno in apparenza: se allarghiamo il nostro sguardo a una scala temporale più vasta e consona a cogliere la storia della vita, ci rendiamo conto che anche noi esseri umani non siamo immutabili e che, anche se non ce ne accorgiamo, siamo cambiati e stiamo cambiando.

Detto ciò non possiamo che cogliere come il processo stesso della vita sia un continuo processo evolutivo di cui facciamo parte. Focalizzandoci su noi stessi e delineandoci come sistemi ci accorgiamo quindi che, la continua interazione sistema-ambiente (di cui siamo espressione), ci mette di fronte a una continua evoluzione della nostra coerenza, a un continuo passaggio da uno stato ad un altro che, a volte piano, a volte repentinamente, ci induce a mutare livello di coerenza, in teoria sempre nei vincoli e nelle possibilità della coerenza stessa. Tali passaggi sono visti essere la “causa” della sofferenza, piuttosto che gli eventi e le ragioni che ci diamo per negarceli. Proviamo a spiegarci meglio, prima utilizzando la metafora che lo stesso Minolli (2009) ci fornisce, poi portando un esempio che ci riguardi più da vicino. Quando vogliamo creare una piantina, prima ne facciamo una talea, ovvero seminiamo in una piccola zolla di terra fertilizzata, così da aiutare il seme a germogliare. Una volta che il germoglio, cresciuto, prende la forma di una piantina, allora lo rinvasiamo in un vaso più grande oppure nel terreno. In un primo momento le foglie della nostra piantina ingialliranno, perderanno vigore: la piantina sta sostenendo la difficoltà ad interagire con un nuovo ambiente in un processo che promuove un livello di coerenza diverso per entrambi. Se tale processo andrà a buon fine le foglie riacquisteranno vigore e la piantina continuerà la sua crescita, in caso contrario il giallo lascerà posto al secco e la piantina, in quanto sistema, cesserà di esistere. 

Pensiamo adesso a una persona che viene lasciata dal proprio partner, dopo anni e anni di litigi, lasciti e ritorni. Magari questa persona potrebbe presentarsi nel nostro studio a causa di una sofferenza che non riesce a sopportare, nel rimuginare paranoico che la porta a controllare whats app per vedere quante volte e quando il proprio partner accede a tale servizio, ecc. Se seguiamo il pensiero oggettivante possiamo colludere con tutte le logiche ragioni che essa ci potrebbe portare come causa della sofferenza: tradimenti, litigi insensati, comportamenti per lei non espressivi di affetto, ma anche una dolcezza che la faceva sognare, una complicità a tratti ritenuta magica, ecc. Se ci fermiamo a tali ragioni non possiamo che pensare che sia giusto che questa persona soffra perché il partner era “diabolico” e che, la cosa migliore da fare, sia metterci una bella pietra sopra e andare avanti. Inutile dire che saremmo ben poco di aiuto a questa persona, così come se pensassimo che la sua sofferenza sia dovuta alla mancanza del partner e che ora sia necessario un processo di lutto per la perdita. Soffrire a tali livelli non è qualcosa di necessario e/o dovuto a un “normale” processo di lutto. Se, quindi, cerchiamo di imboccare la strada della Presenza compiendo quel ritorno dall’oggettivazione di cui abbiamo parlato, possiamo accorgerci che, nonostante il partner possa essere o non essere diabolico, il protrarre attivamente la relazione, nonostante litigi e tradimenti, e il non riuscire comunque a decretarne la fine nonostante il suo avvento, sia espressione della coerenza di quella persona e che, gli eventi intercorsi, la stiano ponendo di fronte alla difficoltà di cambiare livello di coerenza, cosa che potrebbe o non potrebbe avvenire. La sofferenza è, quindi, sia espressione di un normale cambiamento di livello di coerenza, sia espressione della difficoltà per il sistema di affrontare tale evoluzione suggerita dall’interazione ambientale, e ciò è dovuto alla peculiare coerenza del sistema stesso e alla qualità inconsapevole del suo attuarsi, che la rende apparentemente “l’unica possibile”. Proponiamo una tale differenziazione non tanto per sancire l’esistenza di due tipi di sofferenza, quanto per trasmettere il fatto che, la sofferenza per il passaggio, in qualche modo può essere amplificata, aumentata, dalla coerenza stessa in quanto il funzionamento del sistema e le soluzioni intraprese, di un tipo piuttosto che di un altro, possono più o meno rendere difficile il passaggio, e ciò non è dovuto al passaggio ma al funzionamento sistemico. La Presenza, a differenza del ragionamento riflessivo automatico (rispondente alla coerenza), non conduce ad addurre alla perdita la causa della sofferenza (evento esterno), ma a come e perché quella persona abbia fatto sua in quel modo e in quel momento quella particolare “perdita”. La Presenza conduce quindi a riconoscere nel proprio “stato”, e nella difficoltà a cambiare il proprio livello di coerenza, le ragioni della propria sofferenza. Le ragioni che la persona normalmente si da della propria sofferenza sono funzionali a mantenere la coerenza in atto, non ad affrontare il cambiamento. La strada per affrontare il cambiamento è quella della Presenza. Ma in che modo la Presenza può essere soluzione alla sofferenza del sistema? Sicuramente non eliminandola. Un sistema che non si permette di soffrire è un sistema che si oppone al cambiamento proposto dall’interazione con la vita, di cui è espressione. In altre parole, quindi, un sistema che si oppone al cambiamento proposto dall’interazione è un sistema che si oppone a se stesso e, tale opposizione, non potrà che comportare una forte perdita di libertà e creatività nella dialettica del proprio evolvere, che sarà sempre più rigido, ripetitivo e coercitivo. La “fregatura” è che, a volte, il rinforzare l’equilibrio precedente fornisce un apparente sollievo alla persona, ma chi ha i legamenti del ginocchio rotti non potrà che tornare a zoppicare, anche se lenisce il dolore con una stampella e/o degli antidolorifici… e sarà sempre più obbligato a rinunciare a certe attività che sollecitano il ginocchio. Quindi, in definitiva, ristabilire il proprio equilibrio può sì alleviare la nostra sofferenza, ma riduce la nostra libertà e creatività, ci rende pigri e abitudinari e non ci permette di gioire della pienezza della vita. Una magra consolazione se si comprende, attraverso la Presenza, cosa siamo noi e cosa sia la vita. Inoltre, non appropriarsi e permettersi di vivere la propria sofferenza, ci farà comunque essere sempre allerta, con la paura che gli spettri escano dall’armadio, cosa che potrebbe sempre accadere. La Presenza non è un mezzo per eliminare la sofferenza, per allontanarla o per rinchiuderla. Chi non si permette di soffrire non si permette di comprendersi e vivere ciò che è. La Presenza permette di appropriarsi della propria sofferenza, di entrarci, di viverla, di ascoltarla, di comprenderla e…lasciarla andare perché, in definitiva, la Presenza a se stessi ci illumina del fatto che gran parte della nostra sofferenza è dovuta a una coerenza che non ci appartiene, a un sistema che in definitiva possiamo cambiare, a un Io che non esiste. La sofferenza per il passaggio è ben altra cosa dalla sofferenza che proviamo tutti i giorni. La sofferenza per il passaggio non ci conduce a perdere la gioia, anzi, ne diventa promotrice in quanto l’evoluzione della coerenza nella direzione della Presenza ci rende sempre più consapevoli di ciò che siamo, sempre più liberi di seguire ciò che sentiamo di essere, anche se questo mal si addice a un ambiente culturale oramai viziato e modellizzato, artificiale e confezionato. La Presenza in un primo momento può anche non lenire la sofferenza che i nostri pazienti ci portano, ma nel lungo periodo è l’unica via che libera da una sofferenza illusoria permettendo di vivere semplicemente quella sofferenza che scandisce l’evoluzione del sistema, la sofferenza del passaggio. Se pensiamo alla perdita di una persona a noi cara forse riusciamo a comprendere meglio il senso di ciò che stiamo dicendo. La morte di un familiare ci induce, per necessità, a modificare la nostra vita, a modificare il nostro livello di coerenza. A poco serve allontanare il pensiero, se non a ritardare l’incontro con un tale cambiamento. Anche se la nostra sofferenza può essere lenita da serate con gli amici, shopping, o altri diversivi, l’unico modo per far si che essa non sia da impedimento per il nostro vivere è permettersi di viverla. Ogni persona instaura un particolare rapporto con un’altra persona, se pensiamo ai concetti di interazione circolare e regolazione interattiva possiamo forse meglio comprendere come ogni interazione sia unica e come prenda forma nelle possibilità della coerenza di ciascuno dei due partecipanti ad essa. La “perdita” di una persona cara non è solo il passaggio da una vita con, a una vita senza tale persona, anche se così in linea ideale dovrebbe essere. Le interazioni che il sistema intrattiene sono funzionali al mantenimento della coerenza del sistema stesso. Un padre non è lo stesso padre per ciascuno dei figli. La morte quindi non pone di fronte la persona solamente alla sofferenza del passaggio da “con” a “senza”, ma anche alla sofferenza dovuta al fatto che, quella persona, era diventata necessaria al sostentamento della coerenza del sistema in un modo del tutto peculiare ad esso. Potremmo dire che vi è una sofferenza legata al passaggio da un livello di coerenza a un altro e una sofferenza espressione del livello di coerenza presente. Torniamo quindi a osservare come la sofferenza non possa essere addotta semplicemente alla “perdita” come evento esterno, cosa che sarebbe verosimile se quell’interazione non fosse funzionale al mantenimento della propria coerenza, ma riguarda in primis il funzionamento sistemico. Detto in altre parole: il passaggio da “con” a “senza” è molto diverso se la persona che viene a mancare è necessaria, o meno, al mantenimento della coerenza del sistema. La Presenza deve condurre a “comprendere” cosa quella persona significa per quel sistema, come mai non può “lasciarlo andare” e continuare la propria evoluzione senza. Possiamo comprendere come un tale processo possa in metafora essere espresso come un “entrare nella propria sofferenza”, “appropriarsi di essa appropriandosi del proprio funzionamento”. Tale strada non ci allontana dalla sofferenza, ci immerge in essa, ma è solo entrando nel mare che possiamo renderci conto che è nelle nostre possibilità nuotare, così da non averne più paura. E’ in questi termini che la Presenza può essere soluzione alla sofferenza del sistema, rendendolo Presente a se stesso e alla propria peculiare difficoltà che colora il passaggio di un grigio che non gli è proprio, come a suggerirci che si può provare dolore senza soffrire, che si può affrontare la perdita senza rischiare di soccombere, in quanto la vita stessa è una continua perdita e un continuo guadagno al punto che non è possibile distinguere l’uno dall’altro, la stasi dal cambiamento. Abbiamo differenziato la sofferenza del passaggio dalla sofferenza espressione di un funzionamento non libero ma non intendiamo suggerire che esistano diversi tipi di sofferenza. La sofferenza legata la passaggio è comunque espressione del funzionamento e, la sofferenza espressione di un funzionamento non libero, è essa stessa manifestazione della necessità di un passaggio, sempre che si voglia giungere alla serenità. Tale “scissione” ci è stata funzionale solamente a cercare di avvicinarci al pensiero che, anche se il processo della vita, la sua evoluzione, riguarda un continuo passaggio da un livello di coerenza a un altro, è nella possibilità dell’essere umano affrontare un tale passaggio non vivendo quella sofferenza che siamo oramai abituati a decretare come parte ineliminabile dell’esistenza. E’ all’apparenza assurdo per la nostra logica ma si può provare dolore, cambiare, senza soffrire nel modo in cui siamo abituati a farlo. Tale possibilità è in virtù di quella Presenza che possiamo coltivare in noi stessi.

 

BIBILIOGRAFIA

 

Beebe B. e Lachman F. (2002): Infant research e trattamento degli adulti: un modello sistemico-diadico delle interazioni, Raffaello Cortina, Milano, 2003.

 

Minolli M.: Psicoanalisi della relazione. Gli sguardi, Franco Angeli, Milano, 2009.

 

Sander L. W. (2002): Pensare differentemente. Per una concettualizzazione dei processi di base dei sistemi viventi. La specificità del riconoscimento, Ricerca Psicoanalitica, XVI, 3: 267-300, 2005.

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