Archetipi → Cura dell'anima attraverso le immagini e l'immaginazione

PREMESSA -

“La psicoterapia ha un profondo bisogno di immaginazione. Soprattutto ha bisogno di porre l’immaginazione in rapporto con il processo che conduce alla guarigione. Questo implica di pensare allo psicologo come creatore di immagini”. Così Rafael Lopez Pedraza, uno tra gli esponenti più interessanti assieme a Thomas Moore della Psicologia Archetipica fondata da James Hillman, introduce il suo libro più importante, “ Hermes e i suoi figli”. Ho deciso di fare mia questa sua esortazione e di porla a premessa di questo mio lavoro teorico per sottolineare a mia volta quanto non solo la psicoterapia ma la civiltà occidentale odierna ha bisogno di recuperare una capacità e una possibilità immaginativa che possano salvarla dalla sua superficialità isterica e dalla sua frenesia psicopatica potenzialmente distruttive. Hillman ci ricorda continuamente che il mondo può essere trattato come qualsiasi altro paziente e che se noi ci prendiamo cura della sofferenza delle cose del mondo allora ci prenderemo cura anche della nostra anima. Per Hillman e la psicologia archetipica l’errore fondamentale della cultura occidentale è la perdita dell’anima, delle immagini e del senso immaginale. A questa perdita consegue una reificazione della soggettività che si manifesta sia nell’egocentrismo che nel fanatismo della coscienza occidentale che, per Hillman, ha perso il suo contatto con la morte e il mondo infero. La psicologia archetipica, quindi, si pone come obbiettivo la re-immaginazione e la ri-animazione della psiche culturale attraverso la patologizzazione perché, come ci dice lo stesso Hillman, soltanto l’indebolimento o la frammentazione infrangono la soggettività chiusa in se stessa e la restituiscono alle sue profondità, permettendo all’anima di fare la sua ricomparsa nel mondo delle cose. Patologizzazione è uno dei termini cardine della psicologia archetipica; Hillman ne parla in Re-visione della psicologia dove scrive:” Al fine di avviare un contatto nuovo con la psicologia della patologia, ho introdotto il termine “patologizzazione”, a indicare sia la capacità autonoma della psiche di creare malattie, stati morbosi, disordini, anormalità e sofferenze in ogni aspetto del suo comportamento, sia quella di avere esperienza della vita e di immaginarla attraverso questa prospettiva deformata e tormentata”.

E ancora più avanti sempre nello stesso testo:” La patologizzazione non è solo presente in particolari momenti di crisi, ma esiste nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Essa si mostra in tutta la sua profondità nel senso della morte, che l’individuo porta con sé ovunque vada. E’ presente anche nel sentimento interiore che ciascuno ha della propria diversità, il quale include (e su di esso anzi a volte si fonda) il senso della propria individuale pazzia. Ciascuno di noi ha infatti una propria fantasia di malattia mentale; ‘pazzo’, ‘matto’, ‘folle’, - con tutti i loro eufemismi, colloquialismi e sinonimi – fanno regolarmente parte dei nostri discorsi quotidiani.” Hillman scrive ancora che “furono i sintomi, e non i terapeuti, a portare questo secolo fino all’anima. Le ostinate patologizzazioni di Freud e di Jung e dei loro pazienti – patologizzazioni che non accettavano di essere rimosse, trasformate o curate, o anche solo capite – guidarono i principali esploratori della psiche di questo secolo sempre più nel profondo.

Il percorso che attraverso la patologia li condusse nell’anima è un’esperienza che si ripete in ciascuno di noi. E noi dobbiamo loro molto, ma più ancora dobbiamo alla nostra patologizzazione. Abbiamo un debito immenso verso i nostri sintomi. L’anima può esistere senza i suoi terapeuti, ma non senza le sue afflizioni.” A questo punto per legare tra loro immaginale – patologia – psicologia del profondo, tre temi centrali di questo mio lavoro teorico mi rivolgerò ad un grande poeta dell’anima, Fernando Pessoa, e ad un suo racconto, “ L’ora del diavolo” nel quale il Signore delle Tenebre viene rappresentato come il Signore dell’Immaginazione, della Notte e del Sogno. Nel racconto il Diavolo e una signora dialogano; qui di seguito ne citerò un passo che mi sembra emblematico, quando la signora si rende conto di trovarsi di fronte al diavolo: “Ma, se il mondo è azione, com’è che il sogno fa parte del mondo?” “E’ che il sogno, signora, è un’azione divenuta idea; e che, perciò, conserva la forza del mondo e ne ripudia la materia, cioè l’essere nello spazio. Non è forse vero che siamo liberi nel sogno?” “Sì, ma è triste il risveglio…” “Il buon sognatore non si sveglia. Io non mi sono mai svegliato. Dio stesso dubito che non dorma. Già una volta me lo ha detto…” Lei lo guardò con un sussulto ed ebbe improvvisamente paura, un sentimento dal più profondo dell’anima, che non aveva mai provato. “Ma, insomma, Lei chi è? Perché è così mascherato?” “Rispondo, con una sola risposta, alle sue due domande: non sono mascherato”. “Come?”. “Signora, io sono il Diavolo. Si, sono il Diavolo. Ma non mi tema e non trasalisca”. E in un batter d’occhi di terrore estremo, in cui affiorava un piacere nuovo, ella riconobbe, all’improvviso, che era vero. “Sono proprio il Diavolo. Non si spaventi, però, perché sono il Diavolo, per l’appunto, e perciò non faccio male………Stia dunque tranquilla. Corrompo, certo, perché faccio immaginare…..Sono il Dio dell’Immaginazione, perduto perché non creo. E’ grazie a me che, bambina, hai sognato quei sogni che sembrano giochi; è grazie a me che, già donna, la notte hai potuto abbracciare i principi e i dominatori che dormono al fondo di quei sogni. Sono lo Spirito che crea senza creare, la cui voce è fumo, e la cui anima è un errore. Dio mi ha creato perché io lo imitassi, di notte. Lui è il Sole, io sono la Luna. La mia luce si libra su tutto ciò che è futile o finito, fuoco fatuo, sponde del fiume, paludi e ombre……Quando , nei lunghi pomeriggi caldi, sognavi tanto da sognare di sognare, non hai visto passare, nel fondo dei tuoi sogni, una figura velata e rapida, quella che ti avrebbe dato tutta la felicità, quella che ti avrebbe baciato indefinitamente? Ero io. Sono io. Sono colui che hai sempre cercato e che mai potrai trovare. Forse, nel fondo immenso dell’abisso, Dio stesso mi cerca, affinchè io lo completi, ma la maledizione del Dio Più Vecchio – il Saturno di Geova – aleggia su di lui e su di me, ci separa, quando avrebbe dovuto unirci, affinchè la vita e ciò che desideriamo da lei fossero una cosa sola. L’anello che usi e ami, l’allegria di un pensiero vago, il sentirti bene di fronte allo specchio in cui ti guardi – non illuderti: non sei tu, sono io. Sono io che lego bene tutti i lacci con cui le cose si decorano, che dispongo esattamente i colori con cui le cose si adornano. Di tutto quanto non vale la pena di essere io faccio il mio dominio e il mio impero, signore assoluto dell’interstizio e dell’intermedio, di ciò che nella vita non è vita.

Come la notte è il mio regno, il sogno è il mio dominio. Ciò che non ha peso né misura – questo è mio.” Mi sono dilungato nella citazione di Pessoa perché la sua descrizione dell’archetipo dell’ombra come signore dell’immaginazione mi sembra veramente mirabile e le immagini che ci offre sono un importante nutrimento per l’anima. Nel concludere questa mia premessa mi sembra doveroso, avendo introdotto il termine immaginale, specificare che tale termine è stato coniato da Henri Corbin, nel ’64, per differenziarlo da immaginario che connota qualcosa di irreale e utopico. Henri Corbin, uno dei padri della psicologia archetipica di J. Hillman, si è occupato magistralmente delle esperienze psichiche e spirituali dei mistici islamici: nel corso dei suoi studi e delle sue ricerche ha introdotto il termine immaginale per designare qualcosa di reale anche se non partecipe della realtà concreta del nostro vivere quotidiano e dotato di una sorta di materialità sottile che Luciano Perez in un suo lavoro fa risalire alla ‘spissitudo spiritualis’ dei Platonici di Cambridge. Un’altra parola che ricorrerà molto spesso nel corso di questo mio lavoro è ‘anima’, una parola molto cara a Hillman perché, come specifica T. Moore in ‘Blue Fire’, sfugge ogni definizione riduttiva ed esprime nella sua profondità il mistero della vita umana e collega la psicologia con la religione, l’amore, la morte, il destino. Scrive Moore:” Allude alle profondità, e Hillman si vede come un discendente diretto della psicologia del profondo, le cui origini lontane risalgono a Eraclito e alla sua affermazione che nessuno potrà mai scoprire i confini dell’anima, neppure percorrendo tutte le strade, tanto profonda è la sua natura.” Come erede diretto della tradizione junghiana per Hillman la psiche è immagine e con il suo approccio immaginale alla psiche amplia l’idea fondamentale che tutto è metaforico e poetico con un altro termine tratto sempre da Henri Corbin, ‘mundus imaginalis’, termine con cui lo studioso dell’Islam voleva descrivere un mondo immaginale né letterale né astratto bensì assolutamente reale e con leggi e finalità proprie. Hillman riassume così il significato di mundus imaginalis:” E’ un campo specifico di realtà immaginali, il quale richiede metodo e facoltà percettive diversi da quelli richiesti dal mondo spirituale o dal mondo empirico e ingenuo della normale percezione sensoriale. Il mundus imaginalis offre una modalità ontologica di collocazione degli archetipi della psiche, che risultano essere strutture fondamentali dell’immaginazione, o fenomeni fondamentalmente immaginativi, che trascendono il mondo dei sensi, se non nella loro apparenza, almeno nel loro valore (in quanto fenomeni essi devono apparire, anche solo all’immaginazione o nell’immaginazione). Il ‘mundus imaginalis’ fornisce agli archetipi quella fondazione cosmica e assiologica che non potrebbero loro fornire, per esempio, gli istinti biologici, le forme esterne, i numeri, la trasmissione sociale e linguistica, le reazioni biochimiche o la codificazione genetica.” (Hillman 1981, p. 814) Un ultimo riferimento a Henri Corbin. Hillman ci ricorda in Saggi sul Puer, pp. 2-3, che il metodo della psicologia archetipica è stato almeno in parte descritto dal filosofo e islamista con il suo termine ‘ta’wil’ che significa “ricondurre, riportare qualcosa alla sua origine e principio, al suo archetipo”.

Henri Corbin scrive:” Nel ta’wil si dovrebbero riportare forme sensibili a forme immaginative, e di qui risalire a significati ancora più alti; procedere nella direzione opposta (riportare cioè forme immaginative alle forme sensibili da cui prendono origine) significa distruggere le virtualità dell’immaginazione” Per la psicologia archetipica, scrive ancora Hillman, l’opus fondamentale della terapia non è tanto l’analisi dell’inconscio quanto la conservazione, l’esplorazione e la vivificazione dell’immaginazione e delle intuizioni che da essa derivano. Mi sembra a questo punto doveroso fare un’ultima premessa. In questo mio lavoro non parlerò specificamente né di immaginazione attiva né del gioco della sabbia anche se sono profondamente legato a tutte e due queste importanti modalità di lavoro con le immagini. Lo stesso Hillman, in un’intervista riconosce l’importanza che ha l’immaginazione attiva nel suo lavoro; per quanto mi riguarda la stessa ha rappresentato il compimento della mia prima analisi personale e, dopo i sogni, un ulteriore passo in avanti del mio lavoro di ricerca personale con le mie immagini interne e poi con quelle dei miei pazienti. Non meno importante e stato per me il gioco della sabbia. Dall’interesse teorico che ha pervaso tutto il mio training sono successivamente passato all’esperienza pratica che per me ha rappresentato la sintesi e il compimento finale delle mie precedenti esperienze analitiche personali. Con il gioco della sabbia ho fatto esperienza di quanto il linguaggio sia una delle possibilità che ha l’uomo per comunicare, una possibilità che però a volte può risultare inaccessibile in quelle situazione emotive particolarmente paralizzanti dove è esperienza di molti non riusciamo a trovare le parole per comunicare il nostro disagio, la nostra disperazione, le nostre emozioni. Ecco che allora le nostre mani a contatto con la sabbia possono dar forma a ciò che è inconscio rendendolo visibile e riconoscibile tramite l’immagine che si va delineando nella sabbiera, immagine che darà il via ad un processo in divenire nel quale la singola immagine è solo una delle tappe di un percorso di trasformazione psicologica che è opportuno non disturbare o bloccare con interpretazioni premature. Come scrive Ruth Amman usando un’immagine pregnante:” sarà premura dell’analista far sì che la fiamma sotto al recipiente in cui sta cuocendo il processo psichico dell’analizzando non si spenga, ma anche che non bruci troppo violentemente, affinchè il contenuto non trabocchi o non si guasti.”


I PRECURSORI DELLA PSICOLOGIA ARCHETIPICA

In una conferenza tenuta al convegno “Jung e la cultura europea” svoltosi a Roma dal 21 al 24 maggio 1973, J. Hillman tratteggia le figure di Plotino, Ficino e Vico che lui considera i precursori della psicologia archetipica. Il testo della conferenza è stato pubblicato in “L’anima del mondo e il pensiero del cuore: la tradizione dell’umanesimo italiano alle radici della psicologia archetipica”, edito in Italia da Garzanti. Hillman inizia con il tratteggiare la figura e il pensiero di Plotino, che visse e insegnò a Roma, dove compose le ‘Enneadi’ dall’anno 244 fino alla morte avvenuta a Pozzuoli nel 270. Plotino si interrogò sulla natura della realtà psichica ed affrontò tematiche psicologiche molto importanti quali la collera, il destino, la felicità e il suicidio: si chiese fin dall’inizio della sua riflessione dove risiedesse la dimora di tutte queste esperienze psichiche arrivando a concludere che la cosa più importante da esaminare era la natura dell’anima. Da qui si evince quanto il lavoro di Plotino fosse specificamente psicologico: sosteneva, inoltre, che l’uomo può agire inconsciamente, che la coscienza è mobile e molteplice e che la psiche richiede una descrizione in termini di molteplicità, perché ‘l’uomo è molti’. Inoltre nel suo pensiero l’immaginazione occupa un posto di rilievo: per lui la coscienza dipende dall’immaginazione e l’immaginazione occupa nell’anima un posto centrale. Per Plotino alla base della coscienza esistono immagini fantastiche un principio fondamentale che lo stesso Jung farà suo e che costituirà la specificità del suo pensiero rispetto ad altre correnti della psicologia del profondo. Anche Plotino parla contemporaneamente di psiche individuale e della psiche come ‘anima mundi’ ponendosi come fautore di una tradizione che verrà poi ripresa dalla psicologia archetipica. Marsilio Ficino viene considerato da Hillman come un vero e proprio psicologo del profondo. Anche lui, come Plotino, pone l’anima al centro del suo pensiero e delle sue riflessioni: la sua filosofia psicologica insegna a mettere al primo posto la realtà psichica e a prendere in considerazione gli eventi della vita alla luce del loro significato e del loro valore per l’anima. Per Ficino la mente ha la sua dimora nell’anima e questa sua posizione lo avvicina all’esse in anima di Jung: per tutti e due la realtà immediatamente conoscibile è la realtà dell’anima. Un altro aspetto importante che collega Marsilio Ficino alla psicologia del profondo è la sua idea di fantasia che viene inserita nel suo modello della psiche che lui considera composta da tre facoltà: la mente razionale, la fantasia, appunto, che ci lega al destino e il corpo che invece ci lega all’elemento naturale. Per lui le immagini fantastiche sono i mezzi che possiede l’anima per trasmetterci il senso del nostro destino e per portare l’istintualità al suo servizio. Per Ficino, cosi come per Jung, il nostro destino si rivela nella fantasia dove possiamo, attraverso le sue immagini trovare il nostro mito personale.

L’ultimo personaggio che viene delineato da Hillman come precursore della psicologia archetipica è Vico. Nella sua autobiografia Vico esprime il suo legame profondo con Marsilio Ficino annullando in questa vicinanza di pensiero la distanza temporale comunque presente tra i due. Vico, uomo del Settecento, e Ficino, uomo del Quattrocento, sono legati tra loro da un comune amore per il pensiero platonico che influenzò in maniera determinante la loro opera e da un altro aspetto molto importante da un punto di vista psicologico che caratterizzò anche Plotino: la patologia o per dirlo con le parole di Hillman, il patologizzare. Plotino soffriva di disturbi intestinali cronici, Ficino di melanconia e Vico si era procurato una frattura alla testa da bambino che lo aveva tenuto lontano da scuola; inoltre anche lui soffriva di melanconia. Vico può essere considerato un precursore della psicologia archetipica soprattutto per la sua elaborazione del pensiero metaforico che è analogabile al pensare per fantasie di Jung. Abbiamo già visto precedentemente quanto la fantasia fosse importante per Ficino; con Vico questa fondamentale dimensione psicologica viene ulteriormente elaborata con la sua dottrina dei caratteri poetici molto vicina alla concezione junghiana degli archetipi. Anche Vico, come Jung, ‘personizzava’: nella ‘Scienza nuova’ parla dei vari aspetti della mente umana definendoli ‘universali fantastici’, cioè immagini universali presenti nei miti che lui caratterizza come personaggi poetici e che per lui equivalgono a stati della mente. Con la sua dottrina dei personaggi o caratteri poetici, Vico inaugura e sviluppa una terapia archetipica dove il personaggio poetico, come l’Eroe o la divinità, equivalente dell’immagine archetipica di Jung, permette un confronto con gli accadimenti e le esperienze della propria storia personale dove possono così essere messe in evidenza eventuali lacune da correggere.

Il metodo dei ricorsi di Vico permette di comprendere, procedendo per somiglianza, gli eventi attuali dell’esistenza con i corrispondenti miti i quali saranno visti a loro volta alla luce degli eventi attuali. “Nella terapia archetipica”, scrive Hillman, “processo di correzione e conversione significano avvicinare il proprio comportamento e la propria fantasia a una figura e a un processo archetipici – a un mito secondo il linguaggio di Vico – e riconoscere ogni comportamento come espressione metaforica. E’ dunque la nostra comprensione ad essere corretta dall’immagine che è sullo sfondo, a contrasto del quale vengono situati il comportamento e la fantasia. I personaggi poetici forniscono i mezzi per comprendere la più ampia gamma del comportamento umano, dell’umana fantasia e dell’umana psicopatologia. Nello specchio di queste immagini riconosciamo noi stessi.”


LA PSICOLOGIA ARCHETIPICA E LA CURA DELL’ANIMA: UN APPROCCIO IMMAGINALE

“La psicologia archetipica non è una psicologia degli archetipi. La sua attività primaria non consiste nel far corrispondere temi della mitologia e dell’arte ad analoghi temi della vita. L’idea è piuttosto di vedere come mito e come poesia ogni frammento della vita e ogni sogno.” Così Thomas Moore ci introduce a questa particolare visione della psiche in ‘Fuochi Blu’ una raccolta di saggi di Hillman da lui curata e ci dice, inoltre, che tutto il lavoro di Hillman presuppone quella che lui chiama ‘la base poetica della mente’ con cui radicare la psicologia non tanto nella scienza quanto nell’estetica e nell’immaginazione. Hillman, ci ricorda sempre Moore, mette a fuoco ogni cosa con una visione poetica e così facendo libera la coscienza dalla superficialità del letteralismo per rivelare le profondità sottese ad ogni esperienza. Il fare anima di cui ci parla Hillman è la trasformazione dell’evento in esperienza ma oggetto dell’esperire non deve essere il dato letterale bensì l’immagine. Il lavoro archetipico, o archetipale come alcuni preferiscono definirlo, consiste in un lavoro alchemico di raffinata e paziente estrazione e distillazione per ricavare dagli eventi le immagini che fanno emergere il senso e la ricchezza di ogni esperienza della nostra vita. Attraverso la penetrante acuità dell’immaginazione la psicologia archetipale cerca di penetrare in profondità quei principi fondamentali di cui è fatta l’esperienza che gli antichi filosofi greci chiamavano archai, e che sono per Hillman le fantasie fondamentali che animano tutto il mondo. Per James Hillman, ci spiega T. Moore, ‘Archetipico’ significa ‘fondamentalmente immaginale’ Lo stesso T. Moore, in un breve ma intenso saggio sulla sensibilità mitica apparso in un numero della rivista Anima, ci invita delicatamente ma con risolutezza a mettere a fuoco la vera essenza e la vera identità della psicologia archetipale.

Mi sembra importante la distinzione che fa tra mito e mitologia: “La mitologia è un certo genere di storia che descrive lo strato mitico dell’esperienza immaginale. Essa ci aiuta a vedere il mito nella vita ordinaria, così come la poesia lirica può aiutarci a percepire un momento lirico, o come un romanzo può mostrarci che ogni episodio della vita, nonostante tutta la sua immediatezza, è una ‘fiction’: non esistono persone reali, luoghi reali, ma soltanto personaggi e scenari. Tuttavia non dovremmo confondere il modello mitologico con l’esperienza mitica immediata. Nel caso migliore, la mitologia può educare una sensibilità capace di percepire quella fiction profonda che è il mito. Può dischiudere un tipo particolare di visione che ci consente di vedere ciò che altrimenti sarebbe nascosto sotto uno strato di letteralismo o di fiction personalistica. Il mito è meno personale e più arcaico (una parola estremamente vicina ad ‘archetipico’) delle storie intenzionali che raccontiamo o dei ricordi personali che usiamo per immaginare il presente.

E’ più radicale del romanzo che usa le immagini della vita personale per la sua fittizia costruzione dell’esperienza. E’ molto più vicino all’emozione e al significato di quanto lo siano le interpretazioni razionali che di tanto in tanto lasciamo cadere sull’esperienza. D’altro canto, però, la mitologia può arrivare ad offuscare l’immaginazione, soprattutto quando le si dà un rilievo maggiore che al mito sperimentato. Un modo evidente con il quale la mitologia può oscurare l’immaginazione è, per esempio, il fondamentalismo: si sacralizza la mitologia, prendendola concettualmente e moralisticamente alla lettera, e si perde completamente l’immaginazione.” L’opera di controeducazione portata avanti da J. Hillman invece cerca di rieducarci ad una visione politeistica della vita e dell’anima rispettosa della complessità e contraria ad ogni forma di fondamentalismo monoteistico.


UN APPROCCIO POLITEISTICO -

J. Hillman con il suo atteggiamento provocatorio e deviante descrive la complessità della psiche prendendo a prestito la parola ‘politeismo’ dalla religione e dalla mitologia. Continuando e sviluppando una linea di pensiero già iniziata da Jung con le sue idee di Anima e Animus, Hillman dà voce alla pluralità e alla complessità del mondo psichico affidandosi alle immagini e alle innumerevoli metafore che offre la mitologia. In questo modo Hillman vuole rianimare un linguaggio psicologico che sia consono agli innumerevoli volti della psiche ed un atteggiamento psicologico che anche nell’approccio clinico non tenda all’integrazione e all’unità ma che rispetti le varie voci spesso in conflitto che dal profondo di noi stessi si animano. Il politeismo psicologico che propone Hillman non è né invito alla caoticità, né dissociazione psicotica, bensì un invito al rispetto di una vita psichica contrassegnata da vari elementi a volte in armonia tra loro, a volte in conflitto e che l’autore considera come la molteplicità delle persone che caratterizzano la comunità nell’anima di ciascuno di noi. Queste varie personalità che ci abitano, ciascuna con le proprie caratteristiche specifiche, prendono le sembianze dei vari personaggi che nei sogni vanno ad animare ogni notte il teatro della psiche. Un atteggiamento psicologico politeistico presterà una particolare attenzione alle relazioni tra le varie personificazioni oniriche senza schierarsi dalla parte di nessuna ma cercando di mantenere la neutralità necessaria anche rispetto a quelle figure che l’io riterrà particolarmente sgradevoli e ripugnanti.

Una psicologia improntata ad una visione politeistica, sottolinea Hillman, non tenderà quindi ad una risoluzione univoca delle situazioni conflittuali, che è poi quanto propugna la visione eroica dell’io, bensì cercherà di mantenere ben viva la tensione energetica che si costella dalle antitesi in gioco creando un ambiente psicologico accettante e ricettivo nel quale esse possano coesistere. In una situazione nella quale l’io eroico possa finalmente allentare l’angoscia derivante dai suoi sforzi continui verso l’integrazione e trovare il necessario rilassamento si potranno avere innumerevoli vantaggi, come sottolinea lo stesso T. Moore in ‘Fuochi Blu’: “Un io rilassato, che rende onore ai molti, offre notevoli vantaggi. Nella tensione troviamo vitalità, dal paradosso traiamo insegnamenti, camminando sul filo dell’ambivalenza acquistiamo in saggezza e, nel dare fiducia alla confusione che sempre la molteplicità ingenera, acquistiamo confidenza in noi stessi. Segno di una vita infusa di anima sono la ricchezza della trama e la complessità. I complessi dell’anima, dunque, non vanno stirati come fossero pieghe, perché, anzi, sono la stoffa dell’umana complessità. Hillman ci invita, prima di cercare di risolvere un conflitto, a esaminare la nostra fede nella conflittualità. In ogni conflitto si nasconde di solito un segreto eroismo che gode a lottare o un martire segreto che chiede di essere squartato. In una visione politeistica della psiche, i conflitti non sembrano più così decisivi. Dall’inizio, l’intento del politeismo è di rendere onore a tutte le parti: l’idea non è di conquistare o di essere conquistati e non esiste un capo, gerarchico e unitario.

Nel contesto politeistico la virtù non sta nell’essere integrati, nell’avere un centro, ma nell’essere flessibili, accoglienti, tolleranti, pazienti e complessi. Le varietà dell’esperienza non devono essere armonizzate a tutti i costi. Equilibrio, integrazione e totalità, valori così importanti in una psicologia monoteistica, non trovano spazio nel politeismo, che richiede un estendersi del cuore e dell’immaginazione. L’anima politeistica ha una tessitura ricca e ricchezza di temi. Presenta molte qualità caratteriali ed è il teatro dove vengono messe in scena molte storie, dove si rispecchiano molti sogni.”


L’ATTEGGIAMENTO DELLA PSICOLOGIA ARCHETIPALE NEI CONFRONTI DELL’IMMAGINE E DEL SOGNO

Per J. Hillman e l’approccio della psicologia archetipale quello che più conta è l’atteggiamento che si assume nei confronti dell’immagine. Per Hillman è di primaria importanza ‘aderire all’immagine’: con questa esortazione, tesa alla salvaguardia dell’immagine stessa come fenomeno psichico, vuol intendere che non bisogna tradurre le immagini in significati perché l’immagine, secondo lui, non è né una metafora, né un simbolo ed è inesauribile nella sua potenzialità di significato. Il rischio è quello di incatenarla in categorie di significati già noti e riduttivi. Inoltre l’immagine è messaggera di una richiesta morale e richiede da parte nostra una risposta e finchè non l’ascoltiamo adeguatamente continuerà ad abitare in noi e a bussare incessantemente alla nostra porta. L’atteggiamento collettivo nei confronti dei sommovimenti psichici profondi è perlopiù moralistico e difensivo mentre come scrive Thomas Moore ne ‘Il lato oscuro dell’Eros’ “ La moralità del profondo implica un’apertura lenta a un mistero fondamentale che sfida la vita umana.

La decisione riguardo all’azione e al comportamento si rivela gradualmente. Questa moralità è complessa, carica di ombre di incertezza; eppure, se presa con sufficiente profondità, offre la fiducia etica necessaria per fare qualunque cosa con coraggio. La moralità profonda e il coraggio sono interconnessi; l’una richiede l’altro. La moralità profonda non può mai essere separata dall’immaginazione: è una delle sue funzioni. I nostri dilemmi morali ci spingono ad esplorare la vita e l’anima con piena potenza immaginativa, al fine di avvicinarci ai misteri che danno alla vita verticalità, sacralità, significato e valore. Poiché la moralità dotata di profondità esige molto, spesso ci accontentiamo di surrogati: codici morali presi alla lettera o convinzioni e prese di posizione morali definite in senso stretto. Questa morale fiacca, priva di immaginazione, erge difese nei confronti della sfida costituita da tutto ciò che non riesce a essere compreso e non può essere soggetto a categorizzazioni. Il codice dice: onora il padre e la madre. Ma il sogno e la fantasia a volte dicono: uccidi i tuoi genitori, allontanati da loro. Vi sono sogni che sembrano imitare riti di passaggio, in cui morte, sangue e violenza sono simboli d’iniziazione. Ma sogni e riti non sono azioni da prendere alla lettera. Una persona può amare i suoi genitori reali e tuttavia scoprire nella fantasia un rifiuto della figura parentale.

Per mezzo di un’immagine di omicidio, il genitore archetipico viene trasformato e l’identificazione con la coscienza del figlio subisce uno scarto.” Facendo un’attenta disamina degli scritti di Hillman si possono cogliere delle ‘regole’ che lui suggerisce per lavorare con le immagini. Una delle sue raccomandazioni è quella di considerare l’immagine nei suoi particolari e nel contesto in cui si presenta. Tra i cinque sensi per Hillman è quello olfattivo il più importante per approcciarsi all’immagine e per strutturare con essa un rapporto di intimità e familiarità. Hillman ci invita a dare peso all’immaginazione perché altrimenti cadremo nella tentazione di cercare fuori dall’immagine il suo fondamento e così l’immagine verrà trascurata: per lui ogni immagine è come un angelo che annuncia un avvento e che rimane in attesa di una risposta. L’espressione che Hillman utilizza per spiegare l’approccio della psicologia archetipale al sogno è ‘farsi amico del sogno’: “Parteciparvi, penetrare nel suo immaginario e nei suoi umori, volerne sapere di più, giocarci, viverci insieme, portarlo, diventare suo intimo – come si farebbe con un amico. Man mano che conosco meglio i miei sogni, conosco meglio il mio mondo interno.

Chi è che vive in me? Quali paesaggi sono i miei? Che cos’è che è ricorrente e, di conseguenza, cos’è che di continuo torna per risiedere in me? Sono gli animali e la gente, i luoghi e gli interessi che vogliono che io porga loro attenzione, che vogliono che io diventi loro amico, loro intimo. Vogliono essere conosciuti al pari di un amico. Dopo un certo tempo, questa intimità genera come un senso di essere-a-casa, di essere-tutt’uno con una famiglia che è dentro di noi, che altro non è se non la parentela e la comunanza con sé stessi, un livello profondo di qualcosa che può anche essere chiamato l’anima parentale, consanguinea. In altre parole, la profonda connessione con l’inconscio porta nuovamente ad un senso dell’anima, all’esperienza di una vita interiore, un luogo dove i significati sono a casa.

L’amicizia vuole mantenere aperta la connessione, vuole che essa scorra. Perciò, in questo accostarsi al sogno senza interpretarlo, la prima cosa è quella di dedicargli tempo e pazienza, senza affrettarsi a raggiungere conclusioni, senza immobilizzarlo in soluzioni. Il diventare amico del sogno inizia con un tentativo semplice e sincero di ascoltarlo, mettere su carta o in un diario onirico esattamente quello che dice, con le sue stesse parole. Si prende particolarmente nota della tonalità, del sentimento che ha il sogno, dell’umore al risveglio, delle reazioni emotive del sognatore nel sogno, il piacere o la paura o la sorpresa. Diventare amici è l’accostarsi al sogno mediante il sentimento, e quindi avendo cura di accogliere i sentimenti del sogno, così come si fa con una persona nella vita quando comincia un’amicizia.” In ‘Inquiry into Image’ Hillman ci offre un’altra modalità per accostarci all’immagine onirica: l’analogia. L’analogia, ci dice l’autore, è caratterizzata dall’idea di estensione e aprendo tutta una serie di connessioni dà il giusto peso all’immagine, mentre l’interpretazione ridurrebbe l’immagine ad uno solo dei tanti aspetti a cui si riferisce. Qui di seguito voglio presentare come esempio concreto un breve sogno che mi ha portato una paziente: “ Sono di fronte ad una vetrina e vedo esposti dei sandali color oro che mi piacciono moltissimo. Penso subito tra me e me che il loro prezzo è troppo alto e non me li posso permettere.”

La paziente è una donna di 34 anni che ha iniziato l’analisi per una crisi che stava attraversando nel suo matrimonio. Volendo amplificare l’immagine attraverso le analogie le pongo la seguente domanda: “Questa vetrina, questi sandali color oro, la sensazione di non poterseli permettere ‘per il costo elevato’, la scena nel suo complesso sono come che cosa?” La donna mi risponde che “è come quello che mi è successo questa mattina quando mi sono messa quegli occhialini colorati che tanto infastidiscono mio marito, o come ieri quando ho ribadito a mio marito che mi tatuerò una rosa e lui mi ha risposto che ormai devo pensare soltanto ad invecchiare, o come ogni volta che mi trovo di fronte a delle nuove sensazioni, a dei nuovi desideri e li reprimo perché seguirli al di fuori del sentiero battuto delle convenzioni costerebbe troppo, andrebbe a turbare una routine ormai consolidata, frustrante ma al tempo stesso rassicurante, ed è come la sensazione che ho quando sono qui di fronte a lei e sento che sono di fronte ai miei limiti, alle mie paure ma anche alle mie possibilità e mi sento bruciare dentro, mi sento impotente ma anche che non voglio perdermi di vista, che voglio continuare questo percorso anche se mi aspetta ancora tanta sofferenza; è come se in quella vetrina fosse esposto qualcosa di molto prezioso legato alla mia femminilità, quel tesoro che qui con lei ho cominciato ad intravedere ma la cui ricerca è ancora lunga e richiederà molte energie; vorrei che mio marito si accorgesse di quel tesoro ma ora mi rendo conto che io per prima ne devo essere consapevole e lo devo ricercare.”

Le analogie a differenza delle interpretazioni sono sempre molteplici ed è importante rispettare questa molteplicità senza aderire a nessuna di esse in particolare perché il sogno non perda la sua complessità originaria e perché non si perda di vista l’immagine che con l’interpretazione invece diventa significato e perde la sua autentica natura. Evitare l’interpretazione del sogno non significa evitare di toccare la materia onirica: significa approcciarsi al sogno evitando di usare l’atteggiamento tradizionale dell’io erculeo che con la sua clava vuole assoggettare a sé il mondo infero. La via che ci indica la psicologia archetipale di Hillman è quella dell’esplorazione e dell’osservazione attenta e rispettosa dei luoghi e delle persone che abitano il sogno, per poterli conoscere e per poter familiarizzare con loro. Nelle profondità di quei luoghi la visione letteralistica della vita e del mondo della quale siamo circondati e intrisi è invitata a morire per poter dare spazio ad un nuovo punto di vista che potrà aprire l’io ad una vita nella quale sarà l’anima a contenere nella profondità delle sue stanze segrete il vero senso dell’esistenza.


IL CONTRIBUTO SPECIFICO DELLA PSICOLOGIA ARCHETIPICA ALLA PSICOTERAPIA

In questa parte del mio lavoro teorico voglio entrare nello specifico dell’argomento che ho cercato di delineare, seppure a sprazzi, nei passaggi precedenti dove si possono già cogliere tematiche precise che toccano la psicoterapia. A questo punto, però, voglio chiedermi che cosa sarebbe la psicoterapia del profondo oggi senza l’apporto della teoria di J. Hillman. La prima cosa che mi viene da sottolineare è che l’approccio politeistico della psicologia hillmaniana cerca costantemente di detronizzare dalla prassi clinica l’egemonia della coscienza eroica e unilaterale e di dare una risposta adeguata alle differenze innate in ciascun individuo e tra un individuo e l’altro. Jung stesso definiva la sua psicologia ‘pluralistica’, una prospettiva questa che J. Hillman riprende radicalmente per curare la psicologia stessa del suo monismo e la prassi terapeutica della sua conseguente analiticità riduttiva. Per Hillman la psicoterapia deve invece essere una delle tante modalità del ‘fare anima’ e dovrà avere come sua finalità lo sviluppo di un senso dell’anima attraverso la ricerca delle connessioni tra vita e psiche e il nutrimento dell’immaginazione del paziente per restituirlo alla variegata realtà immaginale. Per comprendere il pensiero di Hillman e la sua applicabilità nella prassi psicoterapeutica è fondamentale quindi la prospettiva con cui lui affronta il mito dell’eroe. Nell’ambito della psicologia analitica tale mito è stato letto come uno sviluppo della coscienza da Erich Neumann per cui la liberazione dalla madre è condizione indispensabile perché avvenga questo sviluppo verso l’autonomia del paterno.

L’eroe deve combattere ed uccidere il drago-madre perché dalle tenebre della materia possa evolversi verso la luce dello spirito: il compito fondamentale della figura eroica è quello di civilizzare la massa confusa dell’inconscio e per mezzo della volontà apportare un ampliamento dell’ordine razionale. Anche Sigmund Freud sosteneva che l’Io doveva essere rafforzato, che lo scopo della terapia doveva essere l’ampliamento degli orizzonti di coscienza e la civilizzazione dell’Es. Hillman legge in tutto questo una fantasia eroica che vive come nemico tutto ciò che ostacola l’affermarsi di un Io grande e forte. In questa prospettiva la psicoterapia dovrà portare ad un asservimento del mondo immaginale da parte dell’Io che dovrà controllarlo per non essere più sopraffatto dalle forze aliene che lì dimorano e che vogliono, secondo il suo punto di vista limitante, depotenziarlo e annientarlo prendendo il suo posto.

Nella prospettiva hillmaniana, invece, l’Io eroico viene considerato uno dei tanti modelli mitici che fanno da sfondo ad altrettanti stili di vita e modelli di comportamento. Hillman attacca la fantasia eroica della psicoanalisi ortodossa e di tante altre di psicoterapia estremamente attuali per cercare di restituire alla psicologia un Io immaginale che sappia guardare in trasparenza oltre i vari letteralismi che tendono a sottrarre la psiche dalle sue profondità per ridurla ad un mero concetto coincidente molto spesso con la coscienza egoica e unilaterale. Nella sua opera di re-visione della prassi psicoterapeutica, Hillman ritiene che sia indispensabile curare la psicoterapia e la psicologia dal loro complesso materno e che per fare ciò bisogna domandarsi se è davvero l’eroe che libera da tale complesso o se, paradossalmente, non sia l’eroe stesso schiavo della madre tanto che continuamente deve sfuggire dalle sue grinfie intrappolanti. Hillman ritiene che per uscire da questa impasse bisogna superare l’antagonismo tra il figlio-eroe e la madre negativa separando la fenomenologia del puer dal materno e ricollegandolo invece al senex. A riguardo F. Donfrancesco ci ricorda un passo di Hillman nel quale il fondatore della psicologia archetipica scrive che “ il puer è quella dominante archetipica che personifica o è in relazione speciale con le forze spirituali trascendenti dell’inconscio collettivo.

Donfrancesco continua dicendo che soltanto se l’impulso alla trascendenza è vissuto all’interno del complesso familiare, come tentativo di ridurre i genitori o essere il loro messia, che il puer presenta quel comportamento che gli è abitualmente imputato, perché allora l’aspetto nevrotico oscura il fondo archetipico. Il fine proprio del puer, scrive sempre Donfrancesco, è invece il recupero del Senex e se i fenomeni puer sono interpretati alla luce del complesso materno è appunto il legame del puer con il senex che sarà spezzato e si otterrà proprio quello che più si temeva e si voleva sanare cioè l’ergersi del figlio contro il padre a causa della madre. Inoltre, continua l’autore, se la fragilità e le follie della giovinezza, necessarie in realtà ad ogni impresa al suo esordio, verranno giudicate come un infantilismo derivante dal complesso materno allora verranno distrutte sul nascere le possibilità di trasformazione della nostra psiche e della nostra cultura che, conclude sempre Donfrancesco, rimarranno in balia di un vecchio re senza erede. Nel mito del figlio-eroe il movimento della psiche è essenzialmente rivolto all’allargamento della razionalità. Hillman, in alternativa a questa fantasia eroica, ci propone invece il mito alchemico in cui, scrive sempre Donfrancesco “ la psiche realizza il proprio movimento stendendo l’immaginazione, con la liberazione di fantasie rimaste imprigionate nella materia, cioè nelle diverse concretizzazioni o, come Hillman direbbe, nei diversi letteralismi.” Il mito alchemico costituisce lo sfondo mitico per una nuova concezione dell’analisi dove l’accento non venga più posto unilateralmente sulla crescita, lo sviluppo e quindi sul successo ma anche e soprattutto sui temi della discesa, della morte e del fallimento.

Hillman scrive che “Potremmo rendere maggiore giustizia ai fallimenti in analisi e dell’analisi, se considerassimo quest’ultima un procedere nell’insuccesso e l’individuazione come un movimento invisibile nel regno di Ade dove i letteralismi della vita vengono riflessi nelle metafore della morte.” Hillman continua dicendo che quando una persona si sente disperata, si sente invecchiare e decadere non vuole tanto che le si parli di rinascita, di crescita. Forse sarebbe più utile in quei casi una cura attraverso la somiglianza dove il simile cura il simile, sarebbe più adeguato trovare uno sfondo mitico per il fallimento della vita. Nel mito alchemico questo sfondo è rappresentato dai cicli di morte e rinascita, da quel movimento circolare caratteristico della psiche nel quale, come scrive Donfrancesco, “il drago dell’alchimia è anche lo spirito mercurio e al tempo stesso è figurazione (o prefigurazione) dello spirito puer; è insieme via e meta. L’eroe è dapprima divorato dal drago, il che significa che l’immaginazione è vittoriosa su di lui; ma poi l’eroe si apre una strada nel ventre del drago con una lama e lentamente si libera.” Vediamo quindi che a differenza degli altri miti eroici la materia rappresentata dal drago non rimane inconscia, distante, ma, continua l’autore, al contrario è lentamente modellata dal suo interno e in questo paziente lavoro di discriminazione dall’informe ad una forma più differenziata consiste l’opera dell’eroe alchemico che è portatore di una coscienza che non emerge nell’allontanamento dalla madre-materia-drago o nel combattere la stessa ma nel rimanere pazientemente e con umile patimento aderenti al processo mercuriale e alle immagini ad esso connesse.


PRENDERSI CURA DELL’ANIMA: CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Il prendersi cura dell’anima implica una profonda e dolorosa opera di consapevolezza. L’essere umano cerca in tutti i modi possibili di negare il dolore e di razionalizzare i segnali perturbanti di disagio che il suo corpo gli segnala e le scosse telluriche che dal profondo della sua anima attraverso i sogni agitano il suo mondo interiore invitandolo a fermarsi e a riflettere. ‘Passerà, è solo un momento, una crisi passeggera, in fondo capita a tutti a volte di sentirsi un po’ giù, ora mi butto sul lavoro così evito di pensarci, magari poi mi prendo una bella vacanza o mi compro quella bella macchina che desidero da tanto tempo, sì è proprio di questo che ho bisogno, devo far finta di niente, devo andare avanti, chi si ferma è perduto.’ E così l’anima inascoltata viene calpestata da questa sordità psicologica, un’altra occasione va perduta e ci allontaniamo sempre di più da noi stessi fino a che capita a volte che questa distanza diventa incolmabile e ci perdiamo senza più ritrovarci. Il prendersi cura dell’anima implica inevitabilmente che dovremo visitare quei luoghi che all’interno di noi stessi abbiamo fino ad ora accuratamente evitato e che dovremo provare anche sapori sgradevoli, sentire rumori assordanti o silenzi inquietanti, annusare odori nauseabondi ed essere investiti da immagini cruente e destabilizzanti perché nella nostra complessità siamo anche questo. Perché la psicoterapia sia al servizio dell’anima e dell’anima si possa prendere cura dovrà farsi carico di un gravoso impegno con il paziente sordo, cieco e con i sensi anestetizzati dalla paura: dovrà in ogni istante in cui il paziente metterà in atto il pensiero razionalizzante e difensivo riportarlo al sentire meno rassicurante delle emozioni. Da un punto di vista etimologico la parola emozione ha il significato di trasportare fuori, smuovere, scuotere. In momenti di passaggio importanti, quando l’attivazione emozionale è particolarmente intensa, non sono improbabili sogni nei quali il terremoto va a scuotere le strutture psichiche ormai obsolete nelle quali il sognatore si è irrigidito. Molto spesso la reazione del sognatore al risveglio in questi casi è di sollievo quando si rende conto che si tratta solo di un sogno: letteralizzare difensivamente significa purtroppo non prendere in considerazione la verità simbolica dell’emozione che il sogno ha attivato. Quindi anche le emozioni più disturbanti e destabilizzanti devono essere prese seriamente in considerazione e il terapeuta deve ascoltarle attentamente prima di diagnosticarle come patologiche e prima di apportare conseguentemente dei rimedi ‘antibiotici’ che eliminino il virus emotivo che invece potrebbe risultare un tentativo di adattamento creativo della psiche dell’individuo. In ‘Emotion’, J. Hillman ci ricorda che il rifiuto di raccogliere la sfida che ci lanciano le emozioni è una caratteristica fondamentale della nostra epoca che lui definisce ‘l’età dell’ansia’. L’autore continua affermando che “ Poiché non le affrontiamo con sincerità e non le viviamo consapevolmente, le emozioni formano una sorta di cortina negativa sempre presente, che getta sulla nostra epoca l’ombra dell’ansia per esplodere poi nella violenza. Una ‘terapia’ di questa condizione dipende da un mutamento complessivo della coscienza nei confronti delle emozioni, mutamento a cui questo mio lavoro si propone di fornire una base teorica. Se una novità si può trovare in questa sintesi di cause finali è la seguente: alle emozioni va sempre attribuito un valore più alto che al sistema della coscienza preso isolatamente. Ed è una conclusione in contrasto con l’orientamento della riflessione sulla vita emotiva oggi prevalente in psicologia, in fisiologia e in psicoterapia.”

Sempre in ‘Emotion’ J. Hillman affrontando ‘ il cavallo nero e indocile del mito di Fedro, violento e tuttavia aggiogato alla biga in cui sediamo e che cerchiamo di controllare’ affronta il problema delle emozioni e il loro valore trascendendo tutti i metodi fin qui proposti nel corso dell’umanità per gestire quel cavallo proponendo un approccio omeopatico all’emotività. Scrive Hillman che “alcuni padri della chiesa suggerirono di governare il cavallo indocile, mentre fanatici di varie sette hanno proposto chi il suo totale annichilimento attraverso la disciplina, chi l’entusiastica perdita d’identità nella fusione con l’animale dell’esperienza orgiastica dionisiaca. In tempi più recenti sono stati prospettati i metodi dell’abreazione, dell’acting out o terapie meccaniche e chimiche. Noi abbiamo respinto tutte queste proposte in favore della nozione di sviluppo, inteso però non come progressiva ascesa per sfuggire alla bestia oscura e neppure come abbandono delle redini in cambio della frusta (….) Platone stesso, del resto, ci offre un’altra immagine: quella delle briglie. Le briglie ci legano al cavallo e lo legano a noi. Questa è esistenza emotiva: dirigere ed essere diretti, la vera immagine dell’homo patiens.

Con ciò ci siamo avvicinati all’immagine del centauro, che Benoit propone come l’immagine Zen capace di risolvere i problemi emotivi. Questi mostri mitologici pieni di passione, tra i quali si contava il saggio precettore di eroi culturali come Achille, Ercole e Asclepio, rappresentano una umanizzazione della forza trascinante delle emozioni. Dei centauri si diceva che fossero capaci di catturare tori selvaggi, esprimendo con ciò l’idea che un’emozione allo stato selvatico può essere addomesticata da un’emozione cosciente, ovvero le emozioni possono essere curate solo attraverso le emozioni. E fu un centauro, ci racconta la mitologia, a insegnare al genere umano i rudimenti delle arti, della musica e della medicina, come a dire che le origini della possibilità di guarire il nostro malessere emotivo si trovano nell’unione della mente con la carne, della saggezza con la passione.” Nel prenderci cura dei nostri stati emozionali, soprattutto di quelli che per intensità sono particolarmente perturbanti, e di quelli dei nostri pazienti, dobbiamo affinare la nostra sensibilità nei confronti delle immagini che fanno da sfondo a queste emozioni e le caratterizzano nella loro peculiarità. J. Hillman scrive che bisogna cercare di non definire dolorosa una situazione perché il sentimento che la caratterizza è di sofferenza ma bisogna invece esaminare quell’infelicità in base all’immagine.

Insite nei sentimenti e nelle emozioni albergano un’infinita e variegata messe di immagini che ci potrebbero rivelare se accolte l’essenza profonda della nostra individualità e delle nostre peculiarità. Lavorare su queste immagini, vederle, assaporarle, gustarle, odorarle, contattarle intimamente ci permetterà di cogliere nel tempo lo sfondo archetipico e mitologico che si attualizza nei nostri sentimenti e nelle nostre emozioni che diventeranno, come ci ricorda Hillman, una qualità necessaria dell’immagine e non qualcosa di ossessionante di per sé. L’immagine, scrive ancora Hillman, ci offre un’immaginazione del sentimento liberandoci dall’ossessione per i nostri sentimenti personali perché come si trasforma l’immagine anche i sentimenti si modificano. In questo modo la nostra vicenda personale può trovare un senso più ampio liberandoci dagli angusti riduzionismi della psicologia ufficiale che riconduce tutto al rapporto passato con i nostri genitori o alla sfera della sessualità. Prendersi cura dell’anima, forse, richiede proprio questo sforzo e se noi riusciremo ad aprire il sipario sul ricco scenario offerto dalle immagini legate al nostro mito personale allora potremo veramente coltivare una nuova e più autentica relazione con noi stessi e con il mondo che ci circonda.


A. I. P. A. (Associazione Italiana di Psicologia Analitica)
Seminario teorico di passaggio a membro ordinario “PRENDERSI CURA DELL’ANIMA ATTRAVERSO LE IMMAGINI E L’IMMAGINAZIONE: IL CONTRIBUTO DELLA PSICOLOGIA ARCHETIPICA ALLA PSICOTERAPIA.”
MASSIMO BUTTARINI
RELATORE: ELENA LIOTTA
Giugno 2001


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