Serial Killer → Come i mass media si occupano dei fatti di cronaca

Nel mio libro “ I Serial Killer: un approccio psicologico giuridico” ho parlato dell’interesse morboso rispetto alla figura dell’omicida seriale e dei suoi crimini da parte dei mass media e dell’opinione pubblica. (Buttarini, 2007)



La stessa morbosità è riscontrabile, a mio parere, per la cronaca nera in generale. C’è chi parla, come Enrico Gregori, di esorcismo. Il cronista, autore di un noir dal titolo “Un tè prima di morire” frutto della sua esperienza di cronista di nera, in un intervista pubblicata su fragmenta.blogosfere da Fausta Maria Rigo, afferma che << […] Vedere, scandagliare, capire la morte altrui è una specie di barriera che tiene la morte lontana da noi. […]>>[Fausta Maria Rigo in http://fragmenta.blogosfere.it/2008/03/rock-and-noir.html]



Personalmente, come psicologo, condivido certamente questo punto di vista ma non credo che sia sufficiente per spiegare le punte di morbosità che ha raggiunto l’interesse per la cronaca nera. Credo ci sia dell’altro dietro la spettacolarizzazione del male che su questa morbosità vive e si alimenta: nel lato più oscuro della psiche umana non alberga soltanto la paura della morte che attraverso i fatti di cronaca nera verrebbe così esorcizzata ma anche desideri necrofilici inconfessabili e istinti di morte che attraverso la cronaca nera vengono vissuti. Voglio dire che non tutti si identificano con le vittime ma una parte del pubblico di spettatori si identifica con il male che gli autori dei crimini incarnano.



Soprattutto in fasce di età particolarmente a rischio, come quella adolescenziale, il rischio di identificarsi con modelli negativi sui quali proiettare la propria rabbia e la propria smania di ribellione è molto alto a maggior ragione quando ad usufruire di certi contenuti mass mediatici sono ragazzi dalla personalità già di per sé problematica.



Faccio riferimento qui alla rischiosa possibilità dell’innescarsi di meccanismi di imitazione e di emulazione che abbiamo già visto scatenarsi nel passato, uno per tutti l’esempio del lancio dei sassi dal cavalcavia ma anche in tempi più recenti l’omicidio commesso da una ragazza in Francia che disse di essersi ispirata all’omicidio di Meredith commesso a Perugia.



E’ anche per questo motivo, ma non solo, che i giornalisti, i cronisti e i mass media nel loro complesso hanno una grande responsabilità e il mondo dell’informazione deve essere consapevole del potere che detiene e quanto questo potere può influenzare le menti delle fascie di popolazione più deboli: mi sto riferendo ai minori, certamente, ma anche a personalità disturbate che di fronte a una certa spettacolarizzazione, sottoposta al cosiddetto bombardamento massmediatico potrebbe venire influenzata negativamente tanto da poter essere irretita è addirittura istigata.



Infatti la nostra civiltà è caratterizzata da un desiderio e da un bisogno di protagonismo mai visto prima e questo è particolarmente evidente tra i giovani: essere protagonisti significa essere visti apparire sotto la luce dei riflettori, arrivare al successo, essere riconosciuti, esistere finalmente dopo un’esistenza caratterizzata dal vuoto esistenziale, dalla noia, dal niente. Perché se non vai in televisione allora non sei nessuno. I modelli di riferimento di molti teen ager della civiltà odierna infatti sono personaggi non persone, personaggi che esistono solo attraverso la spettacolarizzazione e la mitizzazione di un modello di vita che non è più sorretto dal concetto del sacrificio, del desiderio ma al contrario del tutto e subito. Certe trasmissioni televisive è questo il messaggio che lanciano: la facilità del diventare famosi. Se riesci a entrare in quel circo delle meraviglie allora da nessuno riuscirai ad essere qualcuno, tutti ti riconosceranno e acquisterai lo status simbol del successo. Qualcuno purtroppo farebbe di tutto per arrivarci anche a costo di gesti estremi perché l’incertezza e la vacuità di identità fragili e inconsistenti può portare ad una distorsione della realtà tale da portare alla perdita di un equilibrato esame di realtà come espressione di un disagio profondo a cui chi aveva il dovere di dare delle risposte ha fallito nel suo compito lasciano molto spesso i giovani in balia delle loro pulsioni e della loro solitudine di fronte ad uno schermo vuoto che sembra poter dare tutte le risposte.



Ecco che cosa scrive Maurizio Parodi rispetto al tema dei minori e televisione:



<< A proposito di “ordinarie follie”: è, per noi, del tutto normale che i bambini vedano gli stessi programmi seguiti dai genitori: il telegiornale, per esempio, che si è trasformato in un bollettino di guerre, cui fanno da irrinunciabile corollario le notizie di cronaca nera, le uniche (si direbbe) ad avere rilevanza mediatica; tanto più sconcertanti giacchè si indulge, con accanimento morboso, voyeuristico, alla spettacolarizzazione degli eventi più efferati e macabri. Nulla a che vedere con l’indignazione civile: i crimini di mafia, le morti sul lavoro non “eccitano” quanto una (in)sana strage familiare – giusto per ribadire quanto siano primitive le nostre pulsioni sociali: siamo interessati soprattutto alla messa in scena degli orrori privati, quelli a noi più prossimi (in tutti i sensi). E i bambini stanno a guardare…



Ma lo stesso vale per taluni programmi cosiddetti di servizio e molti altri di intrattenimento (medesimo scopo, però più onestamente dichiarato), nei quali si inscenano farse e tragedie domestiche, drammi, relazioni, spesso fasulli, inventati e recitati – il contrabbando dei sentimenti finti – che, comunque, strumentalizzano le persone senza remore e decenza, istigando gli ospiti e il pubblico a dare il peggio di sé; dove si espongono lubricamente frustrazioni e turbamenti, con l’irruzione del privato, dei fatti personali (vostri, perciò nostri, dunque di tutti) dell’intimo (inteso non solo come indumento) sul palco mediatico, istillando una visione condominiale del mondo. E i bambini…



Siamo riusciti ad inventare la cosiddetta TV del dolore, dal cui gorgo sono proliferate le ignobili e compiaciute brutture delle trasmissioni verità, spesso reality show sotto mentite spoglie giornalistiche, deontologicamente giustificate per il loro carattere, appunto, di servizio. Forse a molti è sfuggito l’impegno delle trasmissioni dedicate alla strage di New York (l’11 settembre 2001) che hanno aggiunto orrore all’orrore, riproponendo all’infinito le immagini della carneficina: i grattacieli in fiamme, l’aereo che esplode nell’impatto con l’edificio, le persone che precipitano, il fumo e le fiamme, indugiando con macabro compiacimento, sui dettagli, dilatando i tempi della tragedia con il ricorso al ralenti, come accade nei peggiori film hollywoodiani. Non solo, alcuni canali hanno mostrato in parallelo scene di film catastrofici per enfatizzare la spettacolarizzazione dell’evento. E i bambini…



Molto spesso a sdoganare l’orrore sono proprio i giornalisti (televisivi), che si potrebbero ingenuamente ritenere più accorti, sensibili, colti e corretti dei colleghi intrattenitori, dai quali sono, invece, indistinguibili. Sono loro i padroni del reality show che costa poco e fa molta audience. Una strategia sottile e non priva di conseguenze, soprattutto per gli spettatori meno avveduti, dunque, in primo luogo bambine/i: si utilizzano i giornalisti come garanti della bufala, per accreditarla. Ma non meno inquietanti appaiono i tratti “telegnomici” (da Grande fratello) della TV totale, quella che esibisce materiale corporeo, osservato dal “buco della serratura” catodica, e modelli esistenziali “inconsistenti”, divinizzati dall’apparizione sullo schermo. E i bambini…



Una televisione senza qualità, che rincorre gli istinti più beceri, li solletica ed enfatizza o addirittura li induce, senza curarsi di conseguenze ed implicazioni, dei modelli sociali che diffonde, della cultura che alimenta (o forse proprio a ciò evocata: tesa alla decerebralizzazione degli utenti), declinando ogni responsabilità, in omaggio all’unico valore riconosciuto: l’audience; perseguita ad ogni costo, spesso ottusamente, nel disprezzo aprioristico del pubblico, che pure talvolta lancia imprevisti segnali di maturità, mostrando di gradire prodotti tutt’altro che sciatti o triviali – basti il riferimento agli ascolti record registrati in occasione delle performance letterarie di Roberto Benigni, anche quando recita Dante.



Ma i bambini sono già a dormire… >> [Maurizio Parodi, 18 febbraio 2008 in www.mentelocale.it]



Nel sito internet www.consorzioparsifal.it viene segnalatoli bilancio consuntivo del Comitato per l’applicazione del Codice TV e Minori relativo al periodo 2003-2006.



Centrale nel lavoro del Comitato le preoccupazioni in tema di violenza come tematica rappresentata  nei notiziari, nei programmi di approfondimento ma anche nella fiction.



Il Presidente del Comitato Emilio Rossi ha espresso le sue preoccupazioni rispetto alla violenza presentata dalla televisione ma anche in serie poliziesche di produzione statunitense.



Il bilancio del Comitato ci presenta una “lista nera” di film e telefilm, in tutto 44, 9 fiction, 9 reality. Ci sono state risoluzioni contro talk show, varietà, informazione, pubblicità e cartoni animati: le risoluzioni a carico di Mediaste sono state 77 (18 nel 2006), 45 a carico della RAI (7 nel 2006) e 14 per La 7 (2 nel 2006) , una soltanto per le televisioni satellitari e 3 per le televisioni locali.



Oltre ai programmi “Distraction” e “Dragon Ball” di Italia 1 che mostrerebbe costantemente scene di compiacimento per atti di violenza, anche “Buon Pomeriggio” di Canale 5 e Domenica In di Rai uno. Per il Comitato sarebbero troppo violenti anche telefilm come REX, per non parlare di serie quali Ncis e Criminal Minds oltre a vari film trasmessi da SKY in orari pomeridiani. Il Comitato per l’applicazione del Codice TV e Minori mette sotto accusa anche i telegiornali perché mandano in onda troppi fatti di cronaca nera corredati da eccessive immagini raccapriccianti e troppo particolareggiate. Si evince inoltre che nell’anno 2007 sono stati sanzionati tutti i telegiornali delle principali televisioni pubbliche e private. Il Comitato sottolinea con apprezzamento gli obblighi previsti dal “Contratto di servizio RAI-Ministero delle Comunicazioni, che prevedono l’estensione della fascia protetta dalle 16 alle 20, i limiti agli spot nei programmi per bambini e il divieto di diffondere trailer di film vietati ai minori in fascia protetta che dovrebbe essere, auspica il Comitato, promossa ulteriormente per creare “un’oasi a tutela dei ragazzi veramente garantita”. [Minori-Applicazione del Codice Tv e minori, il bilancio, 20/02/2008 in www.consorzioparsifal.it]



Ma andiamo ora ad analizzare altri aspetti della complessità che caratterizza il fenomeno della spettacolarizzazione del male: nello specifico ora ci occuperemo di come i mass media e i giornalisti si occupano dei fatti di cronaca nera e di come un cattivo uso del diritto di cronaca potrebbe portare ad un abuso con ripercussioni negative sia sulla psiche degli utenti sia sul lavoro degli investigatori.



Luigi Bernardi (2003) si pone degli interrogativi sul delicato tema della trattazione degli omicidi da parte degli organi di informazione centrando l’attenzione sul “come” si raccontano e quali sono i rischi che portano alla distorsione della realtà fenomenica:



<< […] Il primo pericolo è quello di ridurli a “gialli”, è un pericolo di doppia natura, di approccio e di comprensione. Raccontando certi omicidi come fossero dei “gialli” è inevitabile trasformare tutti i personaggi in figure di carta, senza spessore né odore, spogliarli di vita e dramma, renderli funzionali a quella che non è più una “storia” ma un intreccio, equiparare momenti di sofferenza assoluta al gioco del “se fosse”. In altre parole,dimenticare che da quella vicenda qualcuno non si è più rialzato. Il secondo pericolo è che il meccanismo del giallo toglie al crimine il tempo suo. Da Rina Fort a Erika De Nardo sono passate generazioni, modi di vivere e di pensare. Il plastico del luogo del delitto, le figurine distese per terra, non aiutano a capire questo cambiamento, lo negano anzi con pervicacia, strappano la storia al suo contesto, la riproducono come un simulacro, l’effetto è quello di una bambola gonfiabile rapportata a un corpo umano: miserabile e beffardo.



Sono pochissime le storie di omicidi che si prestano a essere definite dei “gialli”, quelle talmente ingarbugliate da non farci capire cosa sia realmente successo, chi sia davvero il colpevole. L’attuale stagione fortunata della narrativa poliziesca, unita alla facilità di incastrare l’audience attraverso meccanismi collaudati, spinge invece i media a tingere di quel colore anche fatti che di enigmatico hanno poco o nulla. Così, se si può abbozzare un sorriso di fronte a titoli come “Sposo non si presenta all’altare, è giallo”, se si riesce – con una certa fatica, va detto – a sopravvivere alla lagna dei media quando pretendono che la contessa Vacca Augusta sia stata uccisa, non si può aderire al revisionismo della realtà operato da giornali e televisioni quando sovrappongono il “giallo” e il “mistero” alla fluidità dei fatti.



Il peggio avviene quando la chiave giallistica viene applicata a grandi eventi del passato, eventi tanto importanti da interessare la storia più che la cronaca, un esempio fra tutti: quella che viene definita la stagione dei “misteri italiani”. Intanto va detto che il termine “mistero” è fortemente legato a un’idea religiosa, idea di cui la letteratura si è impossessata e ha dato interpretazioni molto convincenti, e altre meno, com’è nella misura delle cose. Il mistero in chiave giallistica è essenzialmente una verità  che non si fa scoprire, diventa l’analisi di dettagli che dovrebbero contenere le soluzioni ai conti che non tornano, l’indagine minuziosa di elementi che non combaciano. Il mistero in chiave giallistica è un tutt’uno con la lente d’ingrandimento, non a caso lo strumento che si associa proprio ai grandi interpreti dell’investigazione letteraria.



I problemi derivati da questo tipo di approccio sono due. Il primo è che la parola “mistero” ha suggestioni fuorvianti, subito fa pensare a un qualcosa che intriga, a un gioco che appassiona, a una sfida intellettuale. La parola “mistero” è dotata di una sorta di aura che nasconde, quanto meno confonde, le origini del fatto, del gesto, cui viene applicata, sovrapposta. Definire “misteri” la stagione delle stragi italiane significa suggerirne una lettura scorretta, deviata, fare in qualche modo un regalo ai responsabili di quei crimini. Perché questo sono: crimini, delitti mostruosi che hanno provocato decine, centinaia di morti. Provate a fare questo facile esperimento, pensate all’immagine che scaturisce dalla definizione “misteri italiani”, e poi a quella di “crimini italiani”: dalla prima sarete in qualche modo sedotti, dalla seconda tenderete a sfuggire, significa che la prima è una trappola, […] la seconda la verità con la quale stiamo disimparando a fare i conti.



C’è poi un’altra questione: chi assicura che la lente d’ingrandimento faccia vedere meglio di uno sguardo distante? Da lontano, un muro ci sembra un muro, abbiamo la coscienza del suo essere fatto di pietre, se stiamo per andare a sbatterci contro, proveremo a fermarci prima dell’impatto. Appiccichiamoci invece gli occhi a contatto dello stesso muro, ci apparirà come qualcosa di indistinto, di cui abbiamo solo una vaga percezione, se quel muro stesse per caderci addosso, non ci renderemmo conto del pericolo e ci finiremmo sotto. Cosi è la stagione delle stragi italiane. Dall’alto, appare di un disegno chiarissimo, vediamo i mandanti, le motivazioni, gli esiti. Dal punto di vista giudiziario non basta, la giustizia deve punire anche gli esecutori, ed ecco che quando man mano  avviciniamo gli occhi, indaghiamo da più vicino, alcuni particolari del disegno spariscono, altri che ci parevano nitidi adesso sono sfocati. Ma se per un magistrato è perfettamente logico intraprendere questo percorso, noi faremmo bene ad astenercene, perché concentrandoci sui dettagli perdiamo di vista l’insieme, e soprattutto ci infogniamo in tante e tali domande, ci addentriamo in piste sempre più intricate da farci dimenticare il dato essenziale, l’unico che ci può servire a qualcosa in prospettiva futura: quella stagione delle stragi ha vinto. […]



Pare esistano siti pornografici […] che offrono la possibilità di guardare l’interno della vagina ripreso da una microtelecamera posizionata sulla punta di un vibratore. L’idea, presumo, sia quella di mostrare il piacere da dentro. Altrettanto presumo che quello che si vede non abbia niente a che spartire con il piacere, ma si riveli soltanto una parete di carne di un colore fra il rosa e il rosso, umida, vagamente pulsante. Così è con i cosiddetti “misteri”, la lente di ingrandimento permetterà forse di scoprire un’impronta digitale, ma niente dirà dei pensieri, delle emozioni e delle intenzioni di chi l’ha lasciata. Di più, toglierà la prospettiva, ovvero la possibilità di esercitare lo spirito critico, sempre che ne sia rimasto. L’omicidio visto come “giallo” appassiona i lettori e i telespettatori allo stesso modo in cui qualcuno si eccita guardando una vagina dall’interno. Sono due facce della stessa medaglia, si chiama voyeurismo, è una perversione, qualcosa di fine a se stesso.



Ma  soprattutto è un atteggiamento che ci fa perdere di vista il fatto, il gesto, il senso storico della loro realtà.



La televisione e i giornali quasi sempre ci offrono una visione del crimine deformata, plasmata sulla necessità di acchiappare audience, un esempio fra tanti è l’enfasi data a personaggi come i serial killer. In tutta evidenza, qui la responsabilità è da ripartire con gli esperti, i criminologi prima di tutti. Negli anni novanta, era tutto un fiorire di interviste nelle quali lo specialista di turno ci raccontava che i serial  killer era una figura criminale prodotta dalla civiltà industriale, tipica delle grandi metropoli, una figura in costante, irrefrenabile, crescita. […] Oggi si scopre che […] i serial killer si contano sulle dita di una mano, agiscono più che altro in provincia e, lungi dall’essere quei geni criminali che ci volevano far credere, sono poveri mentecatti che invece di pagare le prostitute le ammazzano […]. Tutt’oggi, il serial killer gode di un suo status privilegiato, i giornali appena possono – soprattutto quando non dovrebbero – infilano nei titoli frasi tipo “torna l’incubo del serial killer”, si fanno trasmissioni televisive, si scrivono libri, si organizzano siti internet. […]



In un mondo dove tutto è sempre più finzione, l’omicidio è un dato reale, si conclude con qualcuno che muore, non ci sarà più. Invece se ne parla come finzione, si producono discussioni infinite, si fanno dibattiti televisivi dove l’unico assente è il gesto che uccide. E proprio perché si evita di guardare in faccia a quel gesto, e poi di collocarlo nel suo spazio e nel suo tempo, che alla fine si è costretti ad alzare le braccia, a non capire, a ricorrere a espressioni […] come “dramma della follia”, “dramma della solitudine”, adatte per ogni occasione, scatole vuote riciclabili all’infinito, che a nulla servono se non a far guadagnare stipendi e gettoni di presenza a chi le utilizza. […] E’questo che fanno i media coadiuvati dagli specialisti a gettone: danno risposte sbagliate a domande prive di fondamento […] di certo potrebbe aiutare non nascondersi dietro le parole, non girare gli occhi dall’altra parte, chiamare le cose con il proprio nome, riacquistare il principio di realtà […]



Il male va affrontato, nella sua lurida essenza, senza trasfigurarlo in qualcosa che non è. Scrivere di una bambina appena uccisa dalla mamma come di una angelo salito in cielo, oltre che un’atroce fesseria, è chiudere gli occhi, allentare persino la condanna morale del gesto che ha portato quella bambina ad avere ormai il corpo divorato dai vermi. E’ non vederli, quei vermi, fare finta che non esistano, convenire sulla loro irrealtà. Si dovrebbero invece guardare in faccia, tutti questi vermi della nostra contemporaneità, descriverli in ogni loro movimento, irriderli se occorre, schiacciarli se necessario. Forse non basterà, ma è il primo, necessario passo. >> [Luigi Bernardi, pagg. 143-154, 2003]



Parole vuote quelle dei giornalisti e degli esperti che compaiono in televisione per parlarci di omicidi, senza sostanza e senza sentimento: ora vi chiedo io di fare un piccolo esperimento. Quando vi capiterà di nuovo di sentire un esperto pronunciarsi in televisione, e potete giurarci che purtroppo capiterà ancora e ancora, provate a concentrarvi non tanto su quello che dice ma sulla tonalità affettiva che colora quello che dice. A mio parere, a questo riguardo, sembra  la maggior parte delle volte di  cogliere una freddezza e un distacco emotivo che non tengono in considerazione il dolore, il sangue la morte e anche una sorta di compiacimento intellettuale nello sfoggiare narcisisticamente la loro presunta expertise che fanno letteralmente rivoltare le viscere vista la mancanza di rispetto per le vittime che questo preclude, senza considerare che la maggior parte di questi esperti, fautori tra i primi accanto a discutibili giornalisti, non sono per la gran parte delle volte mai intervenuti sulle scene dei crimini che pretendono arrogantemente di conoscere e di poter risolvere.



Per amore di verità, invece, e questo è un altro aspetto fondamentale della questione presa qui in esame, non fanno altro, assieme alle trasmissioni a cui sono stati invitati a partecipare, che produrre confusione se non allarmismo tra le persone che li stanno ad ascoltare, e, ancora peggio, a volte rischiano anche di intralciare il prezioso lavoro degli inquirenti che dovrebbero poter condurre le loro indagini, già di per sé emotivamente debilitanti, senza ulteriori pressioni, senza la luce assordante e mistificante dei riflettore che accecano e fanno perdere di vista il senso di realtà e il senso dei confini.



Oggi, purtroppo, nei casi di cronaca che hanno monopolizzato il circo massmediatico, basti pensare a Cogne, ma di esempi ne potremmo fare tanti, i processi già prima di arrivare nelle aule di tribunale, si fanno già nei salotti televisivi quando ancora magari si è ancora nella delicatissima fase delle indagini preliminari, tutto questo a scapito della giustizia e di chi è deputato a servirla.



A questo punto, a conclusione del presente articolo, vorrei però, a onor del vero, spezzare una lancia a favore invece di chi ancora crede che il male e la complessità che sottende e la sofferenza che produce non siano merce da spettacolo ma che il male e la sottile linea che divide la follia dalla malvagità, quel lato oscuro che ci spaventa tanto, possano essere affrontati con rispetto e serietà. Vorrei citare tre esempi, uno televisivo, la figura dell’esperto, un giornalista scrittore. Chi l’ha Visto, che è veramente un programma di servizio, al servizio di tutti, Massimo Picozzi per la sensibilità, oltre che per la professionalità, con cui ha descritto i casi di cui si occupato direttamente e di cui ha scritto nel suo ultimo libro e Pino Corrias per la sensibilità, scevra dal sensazionalismo, con cui ha scritto dell’orribile strage di Erba.



Nella prefazione al libro di Picozzi “Un oscuro bisogno di uccidere”, Carlo Lucarelli scrive:



<< […] non è facile parlare di criminologia, analizzare fatti di sangue efferati e spaventosi come quelli che troviamo nella cronaca, senza correre il rischio di cadere nell morbosità e nel sensazionalismo. Senza eccedere in effetti speciali, che significa soprattutto sangue e orrore, magari per innocente senso di zelo. E’ un equilibrio difficile, una zona di confine sottile, una vera e propria linea d’ombra che separa il racconto dei fatti, l’analisi dei dettagli, lo studio delle dinamiche che li hanno prodotti, dall’indulgere in particolari macabri e scabrosi intesi come espedienti, effetti speciali, appunto, per rubare l’attenzione di lettori e spettatori distratti da un bombardamento di notizie criminali clamorose.



Nel primo caso il sangue diventa un mezzo per raggiungere un fine: capire



Nel secondo finisce per confondersi col fine, vendere, e non si capisce più niente. […] >> [C. Lucarelli, in Picozzi, pag. VIII, 2008]



Anche io, come Lucarelli, sono convinto che Massimo Picozzi appartenga alla prima categoria e a dimostrazione di questo basta citare, oltre al libro menzionato, la trasmissione che conduce su Rai due e che si occupa, a differenza di molte altre, di casi giudiziari già passati in giudicato e di cui si conosce già il colpevole.



Di Pino Corrias parla Giorgio Boatti su La Stampa on line:



<< […] Corrias affronta il delitto di Erba – tre donne e un bambino assassinati l’ 11 dicembre 2006 da una coppia di vicini di casa che decide di punirli, ammazzandoli, perché disturbavano il loro sonno – con un passo, una scrittura, una capacità di analisi che ricordano le pagine memorabili di un Tommaso Besozzi, il grande inviato, alle prese con i retroscena dei delitti di Rina Fort. O il romanzo-inchiesta di Sergio Saviane I Misteri di Alleghe che fece luce su una serie di delitti accaduti in un paese del Bellunese, ai piedi delle Dolomiti.



Corrias propone una cronaca dettagliata e precisa di fatti di impressionante violenza, ma riesce, con puntuale scatto di sensibilità, a non farsi imprigionare dal sensazionalismo. Ancora di più: riesce, pagina dopo pagina, a far intravedere i meccanismi di quelle psicologie collettive, di quelle dinamiche sociali che i fatti come quello di Erba illuminano con un lampo di allucinante ferocia.



Queste realtà, covate per anni in silenzio, sono alla base dei gesti di ostilità e delle violenze che compongono il sempre più diffuso conflitto tra persone che vivono in spazi contigui. Vicini di casa, insomma, protagonisti di una guerra dove – come dice Corrias – si può uccidere per “troppa vicinanza e per incolmabile lontananza” […] >> [Giorgio Boatti, 16 febbraio 2008, in www.lastampa.it, fonte: Tuttolibri]



 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA



Bernardi L., Il male stanco, Editrice ZONA, Pieve al Toppo (AR), 2003



Buttarini M., Capire i serial killer: il contributo della scienza psicologica al processo investigativo nei casi di omicidi seriali in Buttarini M., Collina M., Leoni M., I Serial Killer: un approccio psicologico e giuridico al fenomeno, Experta Edizioni, Forlì, 2007



Corrias P., Vicini da morire, Mondadori, Milano, 2007



Picozzi M., Un oscuro bisogno di uccidere, Mondadori, Milano, 2008-05-15



Fausta Maria Rigo in http://fragmenta.blogosfere.it/2008/03/rock-and-noir.html]



Maurizio Parodi, 18 febbraio 2008 in www.mentelocale.it



Minori-Applicazione del Codice Tv e minori, il bilancio, 20/02/2008 in www.consorzioparsifal.it



Giorgio Boatti, 16 febbraio 2008, in www.lastampa.it, fonte: Tuttolibri



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