A cosa serve il ciuccio?

Recenti ricerche, basate sull’osservazione dello sviluppo del bambino, intrecciate alla letteratura ed alle teorie già presenti, hanno permesso di delineare i tempi e i modi, in cui ogni uomo si sviluppa ed apprende nei suoi primissimi mesi ed anni di vita (Faberi 2016, pp. 19-134).

Le neuroscienze sottolineano l’importanza di tenere in seria considerazione queste ricerche, dal momento che dimostrano in modo chiaro l’enorme importanza del primo anno di vita per lo sviluppo cerebrale e globale dell’individuo (Yacovlev 1967, pp. 3-70 et Volpe 2001 et Langworthy 1933, p. 139 et Farmer 1975): si ritiene “corretto considerare i primi mesi secondo i parametri funzionali dello sviluppo, così come esso si manifesta in tutti i bambini, esplosivo e formidabile.

In pratica, potremmo avvicinarci un po’ alla comprensione di questi straordinari eventi del primo anno di vita, se valutassimo ogni mese dei primi sei mesi con il valore funzionale paragonabile a quello di un anno temporale degli altri tempi della vita, ed ogni mese dei secondi sei mesi, ciascuno come sei mesi cronologici” (Castagnini 2009, pp. 38-39).

Sfruttare i primi mesi di vita del bambino, impostando atteggiamenti educativi coerenti e stimolanti le reali modalità di sviluppo, si rivela un grande investimento per garantire ad ogni uomo una crescita ottimale.

Sulla base di queste riflessioni, in questo articolo, si cercherà di riflettere su quale utilità possa avere l’uso del ciuccio nell’educazione.

Una delle prime tappe dello sviluppo psicologico e globale è la scopertà del Sé, come entità diversa dal non-Sé: si tratta della prima pietra miliare dello sviluppo, oggi collocabile tra le 6 e le 8 settimane (Faberi 2016, p. 92). Questa enorme conquista è frutto dell’esperienza che il bambino fa a livello motorio e sensoriale, scoprendo il rapporto tra Sé ed il reale mondo esterno. Si tratta del primo grande oggetto di apprendimento.

Imbasciati, studioso di matrice psicoanalitica, nel descrivere la nascita della mente spiega che alla base dei primissimi apprendimenti del bambino sta il principio del dispiacere. “La mente si sviluppa per poter individuare i bisogni dell’individuo. […] Se dunque la mente nasce per soddisfare i bisogni, occorre chiedersi che cosa si sostituisca primariamente come segnale che essi possano essere soddisfatti. In questo riferimento il soddisfacimento del bisogno è stato concettualizzato come piacere. Il principio del piacere è stato considerato come primum movens della vita psichica.

Questo assunto, alla luce degli ulteriori sviluppi delle scienze psicologiche e della psicoanalisi stessa appare aprioristico. […] Esaminando gli esordi delle funzioni mentali non riscontriamo alcun evento, assimilabile al piacere, che possa configurarsi come segnale elementare per una convalida delle prime operazioni. Appare invece adeguato concettualizzare questo segnale discriminante come pena, o sofferenza, o dispiacere. […] Ritornando alle origini della mente, al proto mentale ed al motivo per cui iniziano le prime operazioni, potremmo riconsiderare un principio del dispiacere, o meglio dell’evitamento del dispiacere, come parametro, prima biologico e poi mentale per l’inizio delle operazioni proto mentali” (Imbasciati 1999, pp. 104-105).

In parole semplici, solo la presenza di stati di bisogno, seppur brevi, attiva nel bambino lo stimolo a ricercare una soluzione, attivare sé stesso, esplorare il Sé e non Sé e scoprire le proprie potenzialità. L’assenza momentanea di un appagamento immediato porta alle prime strategie per ricercarlo. Ed in questo senso, proprio nelle prime settimane di vita, la possibilità di trovare modalità di auto consolazione, autonome dal mondo esterno, sono i primi traguardi di crescita. “Il principio del dispiacere, visto come causa di sviluppo, è uno dei principi fondamentali che caratterizzano l’intera crescita. Senza un bisogno, un’insoddisfazione a cui trovare un’alternativa, il bambino non ricerca mai nuove abilità, non giungerà mai a nuovi apprendimenti. Questo meccanismo inizia dai piccoli problemi della vita neonatale: la fame, l’insoddisfazione, che porta ad apprendere l’atto della suzione e le modalità per esprimere i propri bisogni attraverso il pianto. Continua poi in situazioni più complesse, fino ad arrivare a problemi quali il voler raggiungere un gioco un po’ distante che permette al bambino di far prove e riprove per imparare le prime modalità di locomozione; il trovarsi dietro ad un ostacolo, incastrato, che stimola il piccolo a trovare nuove strategie. Se il bambino avesse tutto a disposizione, non provasse bisogni, insoddisfazioni, dispiaceri, non avrebbe motivi e stimoli per la ricerca di nuove soluzioni, per l’apprendimento” (Faberi 2016, pp. 68-69).

Il ciuccio è uno strumento artificiale che permette di eliminare quasi completamente le situazioni di leggero dispiacere, quindi di ridurre drasticamente le prime occasioni di apprendimento del bambino, la possibilità di iniziare a trovare modalità di auto consolazione. Il ciuccio è uno dei primi ostacoli nel cammino verso l’autonomia!

Il lettore è invitato a riflettere: se un bambino, nei mesi di massimo apprendimento in cui si pongono le basi dell’intera crescita, viene sollecitato a crearsi per star bene una dipendenza da un oggetto esterno, innaturale, sarà poi così facile educarlo in senso contrario senza difficoltà?

Un altro ambito di riflessione è lo sviluppo dell’interazione e del linguaggio. Seppure le prime parole appaiano abitualmente verso il primo anno di età, queste sono “il frutto di un percorso di un anno (nove anni in termini di sviluppo) nel quale il bambino ha acquisito tutte le capacità che stanno alla base del linguaggio:

- l’interazione con l’interlocutore nella quale il bambino e un’altra persona si guardano, il piccolo risponde con gorgheggi e sorrisi all’altra persona formando un primo abbozzo di dialogo;

- la capacità di piangere vigorosamente, quindi di avere una buona respirazione e modulare il fiato per poter poi parlare;

- un’ottima motricità dei muscoli facciali, frutto di mesi di movimenti ed esercizio;

- l’attenzione ai movimenti delle labbra dell’interlocutore e la conseguente imitazione della mimica facciale;

- una grande esperienza di produzione di suoni, dai gorgheggi, alla lallazione, ai primi suoni onomatopeici” (Faberi 2016, p. 109).

In tutte queste esperienze, il ciuccio diventa un ingombrante ostacolo, sia ad una variegata esercitazione dei muscoli oro-bucco-facciali (li costringe ad uno stesso movimento ripetitivo ed impedisce in particolare un uso completo della lingua), che all’uso della voce ed ad una libera interazione con l’interlocutore.

È inutile e scontato ricordare quanto questo strumento diventi un impedimento ancor maggiore alla relazione ed al linguaggio nei bambini più grandi, che iniziano a parlare. È interessante notare che la seconda pietra miliare dello sviluppo, l’esplosione dell’intelligenza (Faberi 2016, p. 99) tra i 4 e i 5 mesi, dà inizio ad un periodo meraviglioso in cui ogni bambino inizia sorprendentemente a interloquire efficacemente con l’altro, a rispondere in modo significativo, specialmente se viene interpellato e lasciato libero di esprimersi.

Il ciuccio quindi serve certamente a tranquillizzare il genitiore, che sente meno il pianto e la voce del bambino e può rimandare l’accompagnamento del figlio verso l’autoconsolazione e le autonomie. Ma tutto questo … a che prezzo per lo sviluppo globale del piccolo uomo/della piccola donna che si trova di fronte?

L’ideale sarebbe non usarlo mai, o comunque toglierlo il prima possibile.

Se un bambino ne fa uso ed ha già superato l’età di 4-5 mesi (scoppio dell’intelligenze), guidarlo a decidere in modo autonomo di abbandonare il ciuccio diventa una buona occasione educativa, in cui prende più consapevolezza di Sé e della sua crescita.

Il sottoscritto ha ormai una piccola collezione di ciucci: sono quelli di bambini che di propria volontà hanno deciso di lasciarli in studio, avevano età comprese tra 4 mesi e 3-4 anni. La maggior parte delle volte, loro erano più decisi e determinati nella scelta rispetto ai loro genitori: anche questo dato fa riflettere!

Negli asili nido, sarebbe utile l’abitudine di sistemare un contenitore all’entrata in cui i bambini che ne fanno uso a casa lo possano lasciare nell’entrare e riprendere nell’uscire.

In questo modo, se proprio i genitori li hanno abituati a portarlo con Sé, i bambini vengono guidati ed educati a liberarsene, ad essere più liberi nell’interazione, nel gioco, nelle attività, nelle esperienze.

 

 

 

Bibliografia

Castagnini M. (2009), “Il punto di vista di A.R.C. – I nostri figli sul trattamento dei disturbi dello sviluppo del bambino”, in Faberi M. (a cura di), Prevenire i disturbi dello sviluppo del bambino, Libreria Editrice  Universitaria. 

Faberi M. (2016), Psicopedagogia dello sviluppo, FrancoAngeli, Milano.

Farmer T.W. (1975), Pediatric Neurology, 2^ed., Harper & Row Publishers, Hagerstown.

Imbasciati A. (1999), Nascita e costruzione della mente. La teoria del protomentale, Utet, Torino. 

Langworthy O.R. (1933), “Development of Behaviour Patterns and Myelinization of the Nervous System in the Human Fetus and Infant”, Contr.Embryol.Carnegie Institute, 24, Washington, p. 139.

Volpe J.J. (2001), Neurology of the newborn, 4^ed., Saunders, Philadelphia.

Yacovlev P.I., Lecours A.R. (1967), in Minowski A., Regional development of the brain in early life, Blackwell Scientific Publications, Boston.

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Dott.Matteo Faberi

Psicologo - Brescia

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