Buongiorno Enrico, quello che descrivi non è superficialità, né mancanza di valori. È sofferenza. E soprattutto è consapevolezza, che è qualcosa che molte persone non raggiungono mai. Il fatto che tu riesca a osservarti con questa lucidità, anche se dolorosa, dice già molto della tua profondità. Mi colpisce una cosa centrale: tu non dici “non mi importa degli altri”, ma “non riesco a sentirmi all’altezza di un rapporto profondo”. Questo è molto diverso. In genere, dietro questa difficoltà non c’è assenza di empatia, ma una distanza da sé stessi così antica e strutturata da rendere complicato sentire davvero, senza filtri. Le parole allora diventano un rifugio: uno spazio in cui sei competente, riconosciuto, al sicuro. Non è un inganno deliberato, è una strategia di sopravvivenza.
Quando parli di “simulazione” emotiva, io sento una persona che vorrebbe sentire di più, ma che probabilmente ha imparato molto presto che mostrarsi autenticamente era rischioso, inutile o non accolto. L’energia che oggi senti mancare spesso non è mai stata disponibile liberamente: è stata spesa per adattarti, per reggere un’immagine, per non deludere, per non essere abbandonato. A lungo andare, questo svuota.
Il tema delle promesse non mantenute è importante. Non lo leggerei come mancanza di volontà o di etica, ma come uno scollamento tra ciò che desideri essere e ciò che, realisticamente, in questo momento puoi sostenere. Quando prometti, forse lo fai dalla parte di te che vorrebbe finalmente funzionare, essere solida, affidabile. Ma quella parte non è ancora sostenuta dal resto della tua struttura emotiva, e allora crolla. E il senso di fallimento si rinforza. L’isolamento che ne deriva è doloroso, ma anche comprensibile: quando ti senti costantemente “smascherato”, ritirarti diventa un modo per proteggerti dalla vergogna e dalla delusione reciproca. Vorrei dirti una cosa con molta chiarezza: la maturità emotiva non nasce dalla forza, né dalla performance, né dall’essere “bravi” nelle relazioni. Nasce quando si smette, gradualmente, di chiedersi come dovrei essere e si inizia a restare con come sono, senza disprezzo. Questo è un lavoro lento, a volte frustrante, e spesso non si può fare da soli. Non sei rotto. Sei stanco, probabilmente ferito, e hai imparato a funzionare più che a sentire. Recuperare un contatto emotivo autentico non significa diventare improvvisamente empatico, presente, coerente. Significa iniziare da piccole verità: dire meno, promettere meno, restare di più in ciò che è reale, anche se imperfetto.
Se mai deciderai di intraprendere un percorso terapeutico, non dovrebbe essere per “aggiustarti”, ma per costruire uno spazio in cui tu non debba dimostrare nulla. È spesso lì che l’emozione, piano piano, ricomincia a muoversi.
Un caro saluto