“Don’t give up”: la voce di Liberato e l'esperienza di Mauro

Uno dei miei pazienti, Mauro, 32 anni, grafico pubblicitario, è un grande fan di Liberato, il misterioso cantante napoletano. Era venuto in studio per un problema che lo tormentava da anni: ogni volta che doveva esporsi, parlare in pubblico o fare una scelta importante, si bloccava.
Diceva: “È come se ci fosse un muro. So cosa devo fare, ma non riesco. E poi mi sento uno schifo”.

Durante una seduta, parlando dei suoi momenti di maggiore ansia, ha citato una frase di una canzone che lo colpiva ogni volta:
“Don’t give up”, ripetuta come un mantra elettronico, quasi ossessivo, in una traccia di Liberato.

Lì abbiamo trovato un appiglio. Non uno di quelli teorici, da manuale, ma una connessione emotiva autentica. Gli ho chiesto di usare quella frase — Don’t give up — come ancoraggio. Ogni volta che sentiva arrivare il blocco, doveva ripeterselo. Ma non come un ordine, piuttosto come un incoraggiamento: “Non mollare adesso. Sei già sopravvissuto una volta, puoi farcela di nuovo.”

Il trauma psicologico: quando il passato ci blocca nel presente – e come ripartire

Ci sono momenti in cui ci sentiamo come se fossimo intrappolati. Il cuore batte forte, le mani sudano, la testa si svuota. Ci troviamo di fronte a una situazione apparentemente normale — un colloquio, una discussione, una decisione importante — eppure tutto dentro di noi si blocca. È come se qualcuno avesse tirato il freno a mano dell’anima.
Molti pensano che questo sia un segno di debolezza, ma la realtà è molto più complessa. Nella maggior parte dei casi, quello che viviamo è il riverbero di un trauma psicologico.

Il trauma non è solo ciò che ci accade, ma ciò che resta dentro di noi

Quando si parla di trauma, spesso si pensa a eventi estremi: incidenti, violenze, catastrofi. Ma i traumi possono avere anche forme più sottili. Un rifiuto vissuto da bambini, un’umiliazione continua, l’assenza di una figura di riferimento. In breve, tutto ciò che in passato ha attivato un forte senso di pericolo, impotenza o vergogna può diventare traumatico.

Il cervello, per proteggerci, registra questi eventi e li archivia. Ma il problema è che non sempre li chiude davvero a chiave. Anzi. In alcune circostanze, simili a quelle vissute nel passato, il trauma si riattiva. Non in forma di ricordo cosciente, ma come una sensazione opprimente, che ci paralizza, come se fossimo di nuovo in pericolo, anche se razionalmente sappiamo che non lo siamo.

“Mi si spegne tutto”: il blocco traumatico

Quello che spesso le persone descrivono come “blocco” è proprio questo: una reazione automatica del corpo e della mente a una situazione percepita (inconsciamente) come minacciosa. È una risposta antica, primitiva. Quando siamo in pericolo, il nostro cervello rettiliano ha tre opzioni: attacco, fuga o congelamento.
Il congelamento — il blocco — è quello che spesso viviamo dopo un trauma. Non riusciamo a pensare, a parlare, a reagire. Ci sentiamo impotenti. E questa sensazione di non avere il controllo ci distrugge dentro.

A lungo andare, la frustrazione si accumula. Non ci si fida più di sé stessi. E si entra in un circolo vizioso in cui la paura di “fallire di nuovo” alimenta l’ansia, che a sua volta porta a nuovi blocchi. Così molte persone si arrendono, si chiudono, smettono di provarci.

La chiave è nella ripetizione, non nella perfezione

Non si esce da un blocco emotivo in un giorno. Ma ogni volta che scegliamo di restare, di sentire, di non fuggire, il trauma perde un po’ del suo potere. Non diventa meno doloroso, ma noi diventiamo più capaci di attraversarlo.

In fin dei conti, superare un trauma non significa dimenticare. Significa poter vivere il presente senza essere prigionieri del passato.

E come direbbe Mauro, con l'ironia di chi ha camminato nella tempesta ed è ancora in piedi:
“Don't give up! Tu si 'o piezzo, i' songo 'o DJ" 

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