Psicoterapeuta, amico o risolvo da solo?

PSICOTERAPEUTA, AMICO O RISOLVO DA SOLO?

Questo è il dilemma che si profila alla mente della persona che comincia a pensare di avere un “problema psicologico”: me lo tengo per me senza far capire niente agli altri e vediamo se col tempo si dissolve, tanto le cose che arrivano, prima o poi se ne vanno da sole, oppure comincio a parlarne con un/a amico/a o col mio partner (se si è in coppia)? C’è anche la possibilità di andare da uno psicoterapeuta, se proprio proprio il problema non si risolve, ma prima di spendere tanti soldi senza essere sicuro di risolvere, voglio pensarci molto bene prima. Potrebbero passare, giorni, settimane, mesi, ma anche anni prima di decidere di rivolgersi a un professionista della salute mentale e sarebbe, comunque, una decisione presa con ancora diversi elementi d’incertezza.

Quando ci si accorge che da soli non si riesce e che il problema permane o peggiora, si può coinvolgere gli altri per avere un confronto, informazioni e, allo stesso tempo, un supporto. E’ a questo punto che emergono i luoghi più comuni sull’”andare in psicoterapia” . Alcuni di questi sono:

· dallo psicoterapeuta ci si va per sfogarsi;

· chi va dallo psicoterapeuta è una persona debole;

· i professionisti che si occupano di salute mentale curano i matti;

· gli psicologi/psicoterapeuti sono amici a pagamento;

· andare da questi professionisti vuol dire spendere tanto e ottenere poco o niente;

· se hai una volontà forte puoi superare da solo qualsiasi problema;

· è meglio non parlare dei propri problemi con un estraneo;

· lo psicologo è uno che ti “entra” nel cervello;

· perché andare dallo psicologo/psicoterapeuta, parlare non serve a nulla.

 

Certamente questo tipo di convinzioni, e diverse altre sulla professione della salute mentale, si sono cristallizzate nel tempo come effetto di esperienze personali relative a psicoterapie deludenti, di testimonianze dirette o indirette riportate da altri, di rappresentazioni più o meno caricaturali diffuse dai mass-media e anche a causa di fattori culturali che influenzano negativamente il giudizio sull’esperienza terapeutica, facendola apparire ancora un po’ nebulosa e misteriosa. Ma cosa accade realmente in una seduta con lo psicoterapeuta? E cosa succede in tutto l’arco del percorso psicoterapeutico? Potrebbe essere facile avere le risposte, se la psicoterapia fosse una pratica organizzata in base ad un unico modello di fondo. Qualora venisse presa la decisione di andare in terapia, potrebbe nascere qualche perplessità nello scoprire che, invece, esistono modalità di fare psicoterapia anche molto diverse fra loro. Fra i motivi di tale varietà dell’offerta psicoterapeutica si possono menzionare i seguenti:

· esistono circa 400 approcci psicoterapeutici diversi; (Corsini R.J.)

· psicoterapeuti appartenenti allo stesso approccio potrebbero praticare la psicoterapia in modo anche molto diverso fra loro;

· psicoterapeuti abili, ben adattati a livello personale e sinceramente interessati ad aiutare le persone, pur appartenendo ad approcci diversi, tendono ad assomigliarsi nell’espressione della propria efficacia terapeutica creando una relazione calda e di sostegno con le persone; (Luborsky L. et al.)

· psicoterapeuti eccellenti tendono a sviluppare un modo unico e personale di condurre la terapia; (Kottler J.A., Carlson J.)

· la maggioranza dei terapeuti non esercita una psicoterapia teoricamente pura, cioè che fa riferimento ad un unico orientamento teorico, ma integra nella propria pratica psicoterapeutica metodi, tecniche e strumenti tipici di altri approcci, pur rimanendo solitamente ancorato ai principi di un orientamento in particolare.

Molte persone che vanno in terapia per la prima volta, non sanno esattamente cosa aspettarsi da questo incontro, ma una cosa sanno di sicuro, “il lavoro dello psicoterapeuta è quello di aiutare le persone con la parola”. Questo è quello che appare subito a un osservatore esterno, ma in realtà è la relazione terapeutica che si crea fra le due persone a costituire il fattore di fondamentale importanza (Roth A., Fonagy P.), anche se la parola ne è la principale espressione assieme a tutti gli aspetti non-verbali della comunicazione. Cosa ci può essere, quindi, in misura maggiore o minore a seconda dei diversi approcci di riferimento, dietro il “solo parlare” (o tacere) del terapeuta? Sono varie le funzioni che lui può decidere di svolgere durante l’interazione con la persona e includono:

· ascolto attivo ed empatico;

· rilevazione di eventuali indicatori cognitivi, emotivi e comportamentali, associabili a disturbi mentali più o meno gravi;

· facilitazione nell’identificare e nell’esprimere emozioni e sentimenti;

· chiarificazione di pensieri, convinzioni, obiettivi e valori personali;

· individuazione dei vissuti significativi e accompagnamento nella loro elaborazione;

· confronto per evidenziare qualcosa di problematico, lacunoso e incongruente, nell’esposizione che la persona fa del proprio vissuto;

· feedback, con cui il terapeuta comunica la percezione che ha di quella persona;

· delucidazione, cioè riassumere vari elementi della narrazione per formarsi un quadro generale della situazione terapeutica;

· supporto a processi decisionali da mettere in atto in situazioni difficili;

· modifica di modalità comunicative inefficaci o dannose per le relazioni;

· insegnamento di tecniche di rilassamento, concentrazione, visualizzazione e meditazione, per gestire lo stress, ridurre gli effetti fisiologici dell’ansia, promuovere il benessere complessivo della persona, ecc…;

· informazione, all’occorrenza, per migliorare la conoscenza di sé e del proprio funzionamento;

· vaglio di stili di vita alternativi al proprio, che favoriscano un maggiore benessere psicofisico e sociale;

· aiuto ad accettare ed elaborare, per quanto possibile, eventi irreversibili;

· miglioramento della consapevolezza di sé, dei propri limiti e delle proprie potenzialità;

· stimolazione allo sviluppo delle capacità introspettive;

· partecipazione nell’individuare abitudini, atteggiamenti, convinzioni e comportamenti disfunzionali e/o autolesivi per la propria salute psicofisica e dannosi per le relazioni interpersonali in genere;

· preparazione/accettazione/gestione delle inevitabili sfide e fasi esistenziali della vita (scuola, lavoro, matrimonio, invecchiamento, pensionamento, malattie, perdite importanti, ricerca del significato della propria vita, morte).

Il terapeuta deve, altresì, fondare i suoi interventi sull’autenticità, comunicando solo ciò che è vero e che corrisponde a quello che realmente si sente, sulla rilevanza, cioè quello che comunica deve essere adeguato al contesto in cui ci si trova e sul tempismo affinché la comunicazione avvenga solo quando la persona è pronta per accoglierla, sopportarla ed utlizzarla.

Questa è solo una sintesi di alcuni aspetti che entrano in gioco durante una relazione d’aiuto psicoterapeutica ed è sufficiente per rendersi conto della complessità del compito. Chi equipara, quindi, il parlare con un terapeuta col parlare a un amico, evidentemente, non solo non ha ben chiaro quali e quanti mezzi può usare un terapeuta durante una seduta, ma non ha nemmeno chiaro quale e quanto aiuto è ragionevole aspettarsi da un amico.

Contare sull’amico/a. E’ vero che chi trova un amico, trova un tesoro, ma per quanto sia difficile trovarlo, per quanto può essere altrettanto facile perderlo, se lo si sovraccarica dei propri problemi. Si sente dire a volte: “non mi va più di uscire con lui/lei, perché non fa altro che parlarmi dei suoi problemi….”, oppure: “parla sempre dei suoi problemi come se fosse l’unico ad averne…”, in effetti non ci si dovrebbe dimenticare che, l’amico da cui ci aspettiamo sostegno, potrebbe avere più problemi di quello che immaginiamo o che ci dice di avere. Tale circostanza potrebbe ridurre notevolmente la sua capacità di ascolto, la sua disponibilità di energia e la sua pazienza. Esistono comunque alcune caratteristiche dell’amico, così come delle altre persone in generale, che si possono prendere in considerazione per farsi un idea su chi abbiamo di fronte, così da capire se ci può essere di qualche aiuto, oppure no. Possono essere caratteristiche intrinseche, a volte già presenti in determinate persone, ma che più spesso sono abilità acquisite nel corso delle proprie esperienze di vita o attraverso training specifici, che sono ritenute tipiche delle persone capaci di porsi efficacemente nella cosidetta “relazione di aiuto” con gli altri. Questo tipo di relazione può anche essere inteso come una relazione in cui uno degli individui cerca di promuovere nell’altro la crescita, la maturità, lo sviluppo di potenzialità, le capacità di problem-solving e un funzionamento psicofisico/comportamentale più integrato, attraverso una valorizzazione delle risorse personali e la facilitazione di una più libera espressione di pensieri, emozioni e sentimenti. (Rogers C.R.)

Questi sono alcuni degli aspetti e capacità fondamentali che connotano una persona con buone possibilità di essere di aiuto ad altri:

· capacità di stabilire un contatto psicologico con l’altro, cioè essere in grado di creare una situazione in cui entrambe le parti hanno desiderio e intenzione di rimanere in relazione; (Sanders P., Wyatt G.)

· accettazione, che si può tradurre nel rispetto dell’altro non solo come individuo per quello che è attualmente e per il suo valore intrinseco, ma anche per le potenzialità che può esprimere nel suo divenire; (Rogers C.R., Buber M.)

· autenticità, cioè essere non solo in contatto con se stessi e la propria esperienza del momento presente, ma anche lasciare che ciò si esprima nella relazione senza comunicare una falsa immagine di sé; (Haugh S.)

· empatia, che significa esserci per quella persona, mettere da parte momentaneamente se stessi, il proprio punto di vista e i propri valori, per entrare nel mondo dell’altro senza pregiudizi, cercando altresì di capire/sentire come egli esperisce una situazione dal suo punto di vista, tutto ciò mantenendo la consapevolezza della propria identità separata da quella dell’altro; (Rogers C.R.)

· non imposizione dei propri valori;

· separazione fra i propri problemi e quelli dell’altro, non attribuire all’altro quello che riguarda solo noi stessi, in altri termini, trovare la giusta distanza fra sè e l’altro e sapersi muovere agevolmente in questo interspazio;

· sincero desiderio di aiutare l’altro, senza avere doppi fini;

· non creare dipendenza nell’altro a causa dell’aiuto offerto;

· consapevolezza e onestà nel riconoscere i limiti del proprio aiuto;

· autocontrollo e capacità riflessiva, cioè la capacità di non cedere a comportamenti impulsivi, riflettendo prima di agire/parlare e avendo consapevolezza delle possibili conseguenze sulla relazione;

· buona conoscenza di sé acquisita attraverso un certo lavoro su di sé.

Risolvere da solo. Inizialmente siamo tutti da soli di fronte ai nostri problemi, che ce ne rendiamo conto o no, è solo in un tempo successivo che decidiamo di continuare ad occuparcene per conto nostro o di coinvolgere altre persone, coniugi, amici, parenti o professionisti, nella loro soluzione. E’ legittimo e utile affrontare da subito un problema mobilitando le proprie risorse, quali energie, competenze, informazioni, comprensione della vita acquisita attraverso le proprie esperienze , intuizione e creatività, senza questo impegno personale non si riuscirebbe a sviluppare appieno le proprie potenzialità. Tutto questo, però, potrebbe non rivelarsi sufficiente per cambiare in meglio la situazione in cui ci si trova, ma il punto è, come si fa a capire per quanto tempo insistere ancora, basandosi solo sulle proprie risorse, prima di considerare l’idea di avvalersi del supporto e della competenza altrui? Ci sono alcuni “indicatori”, in realtà, che ci possono aiutare a capire quando è il momento di pensare ad un possibile aiuto esterno a noi stessi, ad esempio:

· squilibrio fra livello delle risorse personali ed entità del problema da fronteggiare: la persona, che ha una certa consapevolezza di sé, si rende conto subito dell’entità del problema e della inadeguatezza/insufficienza delle risorse personali necessarie per farvi fronte;

· peggioramento della situazione: nonostante l’impegno profuso per risolvere il problema, la situazione continua a peggiorare;

· inefficacia: si utilizzano tutte le strategie e gli strumenti che hanno funzionato in passato, ma col problema attuale non funzionano;

· ristagno: si percepisce che ci sono cose che sfuggono alla nostra comprensione, “giriamo a vuoto” e ci ritroviamo sempre al solito punto, senza fare passi avanti;

· aumento della sofferenza e del malessere: si ha la sensazione che dentro di noi la “corda si stia rompendo”, che si sia sul punto di vedere compromesso il proprio equilibrio e che si abbia la percezione di stare perdendo il controllo del proprio funzionamento psicofisico;

· punti ciechi: ci sono cose di noi stessi che vediamo solo noi, ma anche aspetti di noi stessi che vedono solo gli altri , punti ciechi appunto, che ci impediscono di renderci conto di certi nostri “difetti”, quali pensieri distorti, incapacità di gestire adeguatamente emozioni distruttive, mancanza di empatia o comportamenti difficilmente sopportabili da chi ci sta vicino e che, a lungo andare, possono incidere negativamente sul nostro benessere o, ancor più, sulle relazioni e il benessere delle persone a cui teniamo maggiormente. (Luft J., Ingham H.V.)

 

Fino a pochi anni fa poteva anche essere legittimo nutrire dubbi sulla concretezza degli effetti e sull’efficacia della psicoterapia, ma ora, col progredire degli studi e soprattutto con l’impiego delle nuove tecnologie di imaging nella ricerca neuroscientifica, si è evidenziato che la maggioranza delle persone dopo un percorso psicoterapeutico sta meglio di chi non l’ha fatto (Lambert M.J., Bergin A.E.), che la psicoterapia può produrre modificazioni dell’espressione genica e della struttura cerebrale (Kandel E.) e che una psicoterapia efficace produce effetti più duraturi e, in molti casi, con meno ricadute rispetto a una terapia basata esclusivamente sugli psicofarmaci. (Hollon S.)

Come spesso accade, quindi, la decisione più appropriata non sta agli estremi, come ostinarsi a “fare da sé” anche quando si continua a non vedere cambiamenti positivi apprezzabili, oppure ricorrere immediatamente ad un aiuto professionale ogni volta che ci si trova di fronte ad una minima difficoltà, ma si trova in una posizione intermedia, cioè dove una ponderata valutazione delle proprie risorse personali e della propria capacità di sopportare nel tempo stress e sofferenza causati dal protrarsi del problema, s’incontrano con la disponibilità/accessibilità di un aiuto professionale adeguato sia al problema, sia alle caratteristiche della propria personalità.

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Riferimenti bibliografici

-Corsini R.J., Wedding D. – PSICOTERAPIA – Ed. Guerini Studio (1996)

-Luborsky L., Mc Lellan A.T., Woddy G.E., O’Brien C.P., Auerbach A. – THERAPISTS SUCCESS AND ITS DETERMINANTS – Archives of General Psychiatry (1985)

-Kottler J.A., Carlson J. – ESSERE UN ECCELLENTE PSICOTERAPEUTA – Ed. EDRA (2016)

-Rogers C.R. – LA TERAPIA CENTRATA SUL CLIENTE – Ed. PSICHO di G.Martinelli & C.sas, Firenze (1994)

-Roth A., Fonagy P. – PSICOTERAPIE E PROVE DI EFFICACIA – Ed. Il Pensiero Scientifico Editore (1997)

-Wyatt G., Sanders P. – CONTACT AND PERCEPTION – Ed. PCCS Books (2002)

-Rogers C.R., Buber M. in UNCONDITIONAL POSITIVE REGARD – Bozarth J.D., Wilkins P.. Ed. PCCS Books (2001)

-S. Haugh in CONGRUENCE - G. Wyatt. Ed PCCS Books (2001)

-Rogers C.R. in EMPATHY – S.Haugh, T. Merry. Ed PCCS Books (2001)

-Luft J., Ingham H.V. in DINAMICHE DI GRUPPO – Luft Joseph. Ed. CittàStudiEdizioni.

-Lambert M.J, Bergin A.E./Kandel E./Hollon S. in PSICOTERAPIA: EFFETTI INTEGRATI, EFFICACIA E COSTI BENEFICI – A cura di David Lazzari. Ed. Tecniche Nuove (2013)

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