Relazioni come specchi: quando smettiamo di puntare il dito e impariamo a guardarci dentro

Nelle relazioni capita spesso di cadere in una trappola invisibile ma molto diffusa: quella di puntare il dito contro l’altro.
Ci irrita un suo comportamento, ci ferisce una sua parola, ci pesa una sua mancanza… e subito il pensiero corre verso l’esterno: “Se lui/lei cambiasse, allora io starei meglio.”

Eppure, in psicologia sappiamo che ogni relazione funziona anche come uno specchio. Ciò che critichiamo, ciò che non sopportiamo o giudichiamo nell’altro, spesso mette in luce una parte di noi che non accettiamo, che preferiamo negare o che ci fa paura.

Lo specchio delle relazioni

Carl Gustav Jung lo definiva “ombra”: quell’insieme di tratti e caratteristiche che appartengono a noi, ma che tendiamo a rimuovere perché non combaciano con l’immagine ideale che vogliamo avere di noi stessi. Quando incontriamo qualcuno che manifesta proprio quei tratti, scatta in automatico il fastidio, la critica, il giudizio. In realtà, quell’altro non fa che renderci visibile una parte che ci appartiene.

In questo senso, le relazioni diventano occasioni straordinarie di crescita.
Non ci invitano soltanto a conoscere l’altro, ma soprattutto a conoscerci meglio, a riconciliarci con aspetti di noi che rifiutiamo e a trasformare conflitti e incomprensioni in consapevolezza.

La mia esperienza

Anch’io, per molto tempo, ho vissuto questa dinamica.
Finché ho puntato il dito all’altro, alla sua “imperfezione”, non ho fatto che privarmi di un’occasione preziosa: quella di crescere ed evolvere. Mi sembrava più facile restare nella posizione di chi accusa e aspetta un cambiamento esterno, piuttosto che assumermi la responsabilità di guardare dentro di me.
Ma quel percorso, seppur più scomodo, è stato l’unico che mi ha permesso di costruire relazioni profonde e appaganti, basate non sul bisogno che l’altro fosse diverso, ma sulla mia capacità di accogliermi e trasformarmi.

Dallo sguardo all’altro allo sguardo a sé

Spostare il fuoco dall’altro a se stessi non significa giustificare comportamenti sbagliati o subire passivamente. Significa piuttosto chiedersi:

  • Che cosa di questo comportamento mi tocca così tanto?

  • Quale parte di me si sta riflettendo in questo specchio?

  • Che occasione di crescita mi sta offrendo questa difficoltà?

Solo così possiamo trasformare la relazione da campo di battaglia a terreno fertile, dove imparare a riconoscerci e a incontrarci davvero.

Conclusione

Le relazioni ci invitano continuamente a smettere di puntare il dito e ad accendere un faro dentro di noi. Ogni volta che lo facciamo, apriamo la possibilità di vivere legami più autentici, profondi e nutrienti.
Perché, in fondo, l’altro non è che un compagno di viaggio che ci aiuta a specchiarci, a conoscerci meglio e ad amarci di più.

Bibliografia per approfondire

  • Jung, C. G. (1959). Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé. Torino: Bollati Boringhieri.

  • Rogers, C. R. (1961). On Becoming a Person. Boston: Houghton Mifflin (trad. it. Un modo di essere. Firenze: Giunti, 1994).

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