Narrare il trauma

Il trauma elude le strade da noi solitamente battute nell’attribuzione di senso. Bohleber (2007) afferma, infatti, che “Il trauma è factum brutum, che nell’attimo dell’esperienza non può essere integrato in un insieme di senso, perché lacera la tessitura psichica” (p. 374).

L’esperienza traumatica può non trovare un contenitore nelle forme narrative conosciute ed essere, quindi, integrata alle pre-esistenti conoscenze autobiografiche, proprio per il suo essere destabilizzante rispetto alla consuetudine. La memoria autobiografica serve per dare senso al Sé e preservarlo dal senso di alienazione dagli altri e dalla società. Secondo la prospettiva narrativa la storia autobiografica non permette soltanto di raccontarsi, ma consente alla nostra identità di prendere forma (Bruner, 1997; Giddens, 1991; McAdams, 1988; Polkinghorne, 1988; Rosenwald & Ochberg, 1992). Quando narriamo, infatti, diamo significato alla sequenza di eventi che compongono il racconto e rendiamo esplicito il significato che vi attribuiamo (Bassa Poropat, Chicco, & Amione, 2003). Le persone hanno l’esigenza di trovare significato alla nostra esperienza, una storia senza senso è una storia interrotta e non integrabile nel proprio sistema di credenze e di valori (Bassa Poropat et al., 2003).

I modelli teorici attuali sulla memorizzazione dell’esperienza traumatica sono concordi sul fatto che rivivere il trauma ne aiuti l’elaborazione e la concettualizzazione, anche se la spiegazione del perché questo avvenga differisce. Foa e collaboratori (Foa, Steketee, & Rothbaum, 1989; Foa, Riggs, Dancu, & Rothbaum, 1993; Foa & Rothbaum,1998) prospettano, infatti, l’idea di una singola rete associativa, in cui le informazioni sono rappresentate in forma di proposizioni tramite una relazione logica concettuale. Altri ricercatori, invece, hanno ipotizzato un peculiare processamento mnestico per il ricordo traumatico. Per quanto concerne, ad esempio, la formulazione più recente della teoria duale (Brewin, 2001), lo stimolo traumatico riceve un processamento insufficiente dal punto di vista della memoria autobiografica ed è quindi immagazzinato in un’area separata della memoria (Situationally Accessible Memory, SAM). La SAM, contrapposta alla memoria ad accesso verbale (Verbally Accessible Memory, VAM), è basata sulle immagini e, in presenza di stimolazione contestuale riconducibile al ricordo traumatico, da’ luogo ad immagini intrusive e ad attivazione fisiologica. 

Ehlers e Clark (2000), per spiegare la peculiarità del ricordo traumatico, si sono basati sul modello di memoria autobiografica proposto da Conway e Rubin (1993), che distingue le conoscenze autobiografiche (periodi di vita e ricordi generali) dalle conoscenze di eventi specifici (Event-Specific Knowledge, ESK), questi ultimi basati su informazioni sensoriali.

La teoria cognitiva di Ehlers e Clark (2000) prospetta un sistema di memoria autobiografico che comprende tematiche personali, di un determinato periodo di tempo, ed informazioni specifiche di singoli episodi di vita. Se i ricordi non sono incorporati all’interno di questa memoria, il loro recupero intenzionale sarà più difficile, mentre risulterà più facile “rivivere” l’evento in situazioni contestuali collegabili al trauma, o in presenza di  stimoli fisiologici simili a quelli provati durante l’evento traumatico.

Il concetto di un sistema ESK, ripreso da Ehlers e Clark, può essere ricondotto nella sua essenza al sistema SAM proposto da Brewin (2001); entrambi riguardano, infatti, le informazioni sensoriali dell’evento. Questi due modelli prospettano una mancata integrazione del ricordo traumatico con la memoria autobiografica del soggetto, a causa della natura prevalentemente sensoriale degli elementi mnestici del trauma.

I ricercatori attuali ipotizzano, quindi, un processamento mnestico peculiare dell’evento traumatico che, mancando un processamento linguistico e concettuale, renderebbe il ricordo instabile e ne impedirebbe l’integrazione con la conoscenza autobiografica del soggetto. Già Janet (1889) ipotizzò che gli eventi particolarmente stressanti sono immagazzinati solo a livello percettivo, come sensazioni frammentate e disorganizzate (suoni, immagini e stati emotivi riconducibili all’episodio originale). Secondo Janet, per mitigare gli effetti negativi delle esperienze traumatiche, è necessario trasformare i ricordi da percettivi a narrazioni coerenti.

L’esperienza traumatica può non trovare un contenitore nelle forme narrative conosciute e non essere integrata con le conoscenze autobiografiche, proprio per il suo essere destabilizzante rispetto alla consuetudine. La ricostruzione autobiografica è, invece, necessaria per rifornire di significato il Sé e preservare una sensazione di coerenza.

Il punto fondamentale del ricordo traumatico diventa quindi la possibilità d’integrazione alla memoria autobiografica, in modo che la vittima di un evento traumatico abbia la possibilità di riflettere sul proprio vissuto e di traghettare la “rappresentazione di cosa” verso la “rappresentazione di parola”, rendendo narrabili quei contenuti del sistema di memoria SAM che sono ancora indisponibili alla rappresentazione verbale.

Le ricerche effettuate da Pennebaker (1993, 1999) hanno messo in luce, attraverso controlli medici nel medio periodo, la valenza terapeutica dello scrivere delle proprie esperienze traumatiche.

Le ricerche di Pennebaker e collaboratori non coincidono, però, con quelle di Gidron, Peri, Connolly e Shalev (1996). Mentre Pennebaker ha riscontrato un effetto positivo della narrazione, Gidron ed il suo gruppo hanno ottenuto l’esatto contrario: chiedere di mettere in parole il trauma determina addirittura un leggero peggioramento della condizione psico-fisica. Questi autori hanno ipotizzato che se la persona non ha ancora strutturato adeguate capacità di coping per far fronte all’evento stressante, non può trarre giovamento dal narrarlo. Il punto fondamentale sembra essere, quindi, se ancora è in atto un processo disorganizzativo o meno.

Se il processo disorganizzativo non è più in atto, mentre narra gli eventi il soggetto è esposto al ricordo ed ha in tal modo l’opportunità di ricostruire il ricordo: interpreta le azioni e le motivazioni degli attori e ha modo di riflettere su se stesso e sulla sua identità (Bruner, 1993, 1997; McAdams, 1993; Ochs & Capps, 1996).

I soggetti traumatizzati mostrano scarsa capacità riflessiva e autoriflessiva nei confronti dell’esperienza traumatica (Di Blasio, 2004) ed hanno, quindi, difficoltà a produrre considerazioni metamnemoniche e di riflessione sul Sé. Gemelli (1995) sostiene che la narrazione autobiografica promuove il pensiero introspettivo e rende, quindi, possibile livelli di maggiore riflessione su se stessi e sulla realtà.

Da una ricerca di Byrne, Hyman e Scott (2001) è emerso che dei ricordi traumatici, rispetto a ricordi sia positivi che negativi, si parla in misura minore. Questa ricerca ha anche evidenziato che parlare della propria esperienza traumatica è negativamente correlato al distress psicologico.

Reviere e Bakeman (2001) hanno valutato il livello di elaborazione degli eventi traumatici, usando come indicatore in numero di unità non ripetitive di informazione presenti nel racconto. Questi autori hanno inoltre chiesto ai soggetti di descriversi e tramite analisi fattoriale delle quattordici dimensioni codificate, hanno individuato tre fattori: integrazione dell’identità (senso d’integrazione della rappresentazione di sé), insight (grado della capacità autoriflessiva) e differenziazione (sviluppo del sé in domini differenziati). In questa ricerca la presenza ed il grado di severità del trauma non sono risultati correlati al livello di elaborazione della narrazione dell’evento traumatico, ma il grado di severità è risultato predittore del grado di integrazione del Sé. Il dato interessante di questi risultati è che emerge come i racconti di eventi considerati traumatici dai soggetti, ma che rientrano normalmente nella vita di una persona (ad esempio il divorzio dei genitori, la morte di un animale domestico, ecc.), siano maggiormente elaborati. Questo risultato è in accordo con le ricerche sulla memoria che evidenziano come un grado moderato di rilevanza emotiva aiuti la codificazione mnestica. 

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