La consulenza tecnica nel caso di affidamento dei minori a seguito di giudizio di separazione/divorzio - aspetti psicologici.

La consulenza tecnica nel caso di affidamento dei minori a seguito di giudizio di separazione/divorzio - aspetti psicologici.

INQUADRAMENTO NORMATIVO

In presenza di un giudizio di separazione o divorzio la questione più importante che il giudice è chiamato a decidere riguarda l’affidamento e la collocazione dei figli.

L’attuale normativa, modificando, secondo le indicazioni del diritto internazionale[1], la precedente che prevedeva , di norma, l’affidamento ad un solo genitore – normalmente la madre-  e solo in subordine l’affidamento congiunto, prevede come regola ordinaria l’affidamento condiviso[2], ossia l’affidamento ad entrambi i genitori.

Stiamo parlando dell’affermazione del diritto del figlio alla bigenitorialità stabilito dall’art 337 ter c.c, ossia del diritto a mantenere, ritenuti entrambi i genitori idonei ed a prescindere dalle vicissitudini familiari, un rapporto di cura, educazione e assistenza morale equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e con tutti i parenti di ciascun ramo genitoriale.

I genitori affidatari in condivisione dovranno prendere tutte le decisioni relative al sostegno ed all’educazione dei figli in maniera concorde, in caso contrario sarà il giudice a decidere quale sia la soluzione migliore per il piccolo.

E’ importante sottolineare come la regola dell’affido condiviso non ammetta deroghe neppure nell’ambito di un accordo prodotto in un procedimento. L’obiettivo primario della pronuncia giudiziale dovrà essere, infatti, l’esclusivo interesse dei minori a ricevere l’istruzione, le cure e l’educazione da entrambi i genitori, e non potrà essere in alcun modo vincolato da una eventuale richiesta congiunta dei genitori.

Tale principio vale per ogni genere di accordo che riguardi i figli, accordo che il giudice non è tenuto ad omologare nel momento in cui esso contrasti con il loro interesse.

L’affido condiviso porta con sé il problema della residenza del minore, non regolato da norme del codice civile. In ottica di affido condiviso il collocamento è in genere previsto in “maniera prevalente” presso l’uno o l’altro genitore, in modo che il minore possa conservare le sue abitudini, al di là dei diritti di visita e frequentazione stabiliti dal giudice e dalle parti

Altra ipotesi è il collocamento paritario, in cui ci sono tempi paritari di affidamento del minore ai due genitori…molto usato ultimamente se non ci sono particolari esigenze ostative, in adesione al principio accolto in giurisprudenza dei benefici derivanti dalla crescita con entrambi i genitori.

 

L’affidamento esclusivo ad un solo genitore rappresenta, oggi, l’eccezione e potrà essere praticata solo quando l’affidamento anche all’altro genitore si riveli contrario all’interesse dei figli minori.

E’ importante ora chiarire i presupposti e quali sono i limiti dell’eventuale affido esclusivo.

L’art. 337-ter, introdotto dal D. Lgs. n. 154/2013, prevede che “La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori” confermando così il ruolo residuale dell’affidamento esclusivo che il giudice può disporre “qualora ritenga con provvedimento motivato che l'affidamento all'altro sia contrario all'interesse del minore”, sia con riguardo al  “pregiudizio potenzialmente arrecato ai figli da un affidamento condiviso” sia anche “all'idoneità educativa o alla manifesta carenza dell'altro genitore”, pregiudizio rinvenibile nelle situazioni idonee ad alterare o porre in pericolo l'equilibrio e lo sviluppo psico-fisico dei minori; non è sufficiente la prova  di una conflittualità fra figlio – genitore o fra genitori, non essendo questa sufficiente ad elidere il diritto alla bigenitorialità per il minore né lo speculare dovere di responsabilità genitoriale sussistente in capo al genitore (vedi  Cass. Civ. n.27/2017).

La  giurisprudenza ha sottolineato, tra i comportamenti  genitoriali a giustificazione della revoca dell’affido condiviso, il comportamento del genitore che non adempia all’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio minore, si disinteressi completamente del suo benessere, non si preoccupi di conoscere, né tantomeno soddisfarne i bisogni, non ne rispetti la sensibilità.

La legge 10 dicembre 2012, n. 219 e D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 stabilisce in maniera chiara che il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva  ha l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi, ma  l’altro genitore ha il diritto ed il dovere di vigilare e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse; inoltre  entrambi i genitori, salvo che non ci sia un diverso provvedimento giurisdizionale, devono adottare insieme le decisioni di maggiore interesse per i figli.

Con riferimento, poi, ad una situazione di totale disinteresse per il figlio, i giudici hanno parlato per la prima volta di affido superesclusivo, una forma di affidamento che concentra tutto l’esercizio della responsabilità genitoriale sul genitore ritenuto inidoneo.

Il presupposto è individuabile nell'art. 337 quater c.c., introdotto dal D. Lgs. n. 154/2013 (Affidamento a un solo genitore e opposizione all'affidamento condiviso), precisamente nel terzo comma, che prevede come il giudice possa “diversamente” stabilire in merito al fatto che le decisioni di maggiore interesse per i figli siano adottate da entrambi i genitori.

In mancanza di previsione normativa la giurisprudenza ha individuato anche alcune condotte genitoriali suscettibili di indirizzare il giudice verso la scelta dell’affidamento “superesclusivo”:

-             Totale disinteresse (immotivato) nei confronti del figlio

-             Condotta violenta

-             Mancato mantenimento reiterato e immotivato

-             Comportamento ostativo alla frequentazione dell’altro genitore

-             Comportamento ostativo del benessere psicofisico dei figli

Per quanto riguarda le responsabilità dei genitori, va sottolineato come, mentre in  regime di affidamento esclusivo rimane  in capo al genitore non affidatario la possibilità di adottare, insieme al genitore affidatario, le decisioni di maggiore importanza per la prole,  in caso  “affidamento superesclusivo” il genitore affidatario possa adottare, di fatto, tutte le decisioni inerenti il minore, senza la consultazione, né tantomeno il consenso, dell’altro genitore.

Rimane comunque in capo al genitore non affidatario una responsabilità genitoriale, e  quindi l’onere di contribuire al mantenimento del figlio, da un lato, e del diritto di visita, dall’altro.

Nel caso in cui i genitori non vogliano o non possano essere affidatari, anche temporaneamente dei propri figli, Il giudice può disporre anche altri tipi di affidamento

  • Affidamento intrafamiliare: nell’ambito della crescita psicofisica dei minori, il giudice deve valutare anche l’interesse di questi a crescere con i parenti più prossimi entro il IV grado. E’ da preferire a quello eterofamiliare perché consente al minore di continuare a vivere in un ambiente conosciuto e con persone alle quali è già legato da un vincolo affettivo. La vita del bambino, in questo caso riesce a limitare bruschi cambiamenti di abitudini e frequentazioni sociali. La durata è stabilita dal provvedimento che dispone l’affido per un massimo di 24 mesi prorogabili a giudizio dei servizi sociali. Va sempre tenuto conto, comunque, dell’interesse a ricondurre il minore nella propria famiglia d’origine.
  • Affidamento eterofamiliare: fuori della cerchia della famiglia (famiglia selezionata, casa famiglia o comunità d’accoglienza). Rappresenta l’intervento di tutela minorile più complesso e difficile in quanto non ha solo il compito di organizzare e portare a termine con successo l’allontanamento e l’affidamento, ma anche di costruire e di mantenere, per tutta la durata dell’affido, un’organizzazione con una strategia coerente di scelte d’intervento. Per quanto riguarda i servizi di accoglienza residenziale per bambini e adolescenti , le linee guida per l’accoglienza fatte dal ministero del lavoro nel 2017 hanno individuato:
  • Comunità familiari per minori. Accoglie bambini ed adolescenti fino ai 18 anni d’età. E’ caratterizzato da dimensione familiare.
  • Comunità socio educativa. Gruppi appartamento. Servizio a carattere educativo rivolto a preadolescenti ed adolescenti.
  • Alloggio ad alta autonomia. Bassa densità assistenziale (l’educatore non è sempre presente). Servizio di accoglienza per bambino e genitore.
  • Comunità familiare per minori. Case famiglia, che ospitano 6-8 ragazzi, con educatori sempre presenti nella struttura. Sono suddivise per fasce d’età.
  • Servizi di accoglienza per bambino e genitore. Strutture madre bambino (non sono previste strutture padre-bambino, forse perché ideate per bambini piccoli). Accolgono anche madri in gravidanza.
  • Strutture di pronte accoglienza per minori. Per ragazzi in situazioni di urgenza che non trovino posto in casa famiglia.
  • Comunità educativa e psicologica. Integrazione tra servizio municipale e sanitario. Per ragazzi che hanno fragilità psicologiche. Necessita di personale sanitario e psicologi.

Tutte le strutture devono essere all’interno di palazzi in città.

In altra parte dell’intervento verranno descritte le caratteristiche individuate dalla legge come necessarie per queste strutture

A questo punto è lecito porsi una domanda: il figlio può esprimere una sua preferenza, insomma, può dire la sua prima dell’affidamento?

 E’ ovvio che il problema si pone solo per i minorenni visto che, per i maggiorenni, il problema dell’affidamento non si pone mai, essendo ormai questi responsabili delle proprie azioni e capaci d’agire.

L’articolo 336-bis del Codice civile stabilisce che il figlio di coppia che si separa o che divorzia deve essere necessariamente ascoltato dal presidente del tribunale per tutti i provvedimenti che lo riguardano. Quest’obbligo scatta da 12 anni in su ed è inderogabile. Questo non significa che la sua volontà diventi vincolante, ma che il minore ha il diritto di essere consultato, di esprimere la propria opinione, di ricevere informazioni, anche sulle conseguenze di ogni decisione che lo riguarda.

Non è solo la legge italiana a stabilire il diritto di ascolto del minore. Anche la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20-11-1989 (ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 176/1991) richiama lo stesso principio.

L’indicazione normativa, naturalmente, avrà come oggetto la collocazione – ossia il genitore con cui andrà a vivere – ma anche l’affidamento. Ma, mentre nel caso della collocazione il giudice potrà far esprimere direttamente il minore, assai più delicata e complessa è la questione riguardo l’affidamento, dove, abbiamo visto, la questione investe la maturità del genitore di adottare decisioni per il bene del bambino, la sua capacità genitoriale.

Nel panorama normativo descritto si inserisce la possibilità del giudice a richiedere il parere di esperti, la necessità di una consulenza.

A cosa serve la consulenza? A capire cosa succede all’interno della famiglia, se esistono capacità genitoriali che possano essere in grado di sostenere i figli nel trauma della separazione.

Allora, l’argomento è complesso, non essendoci una salda linea guida normativa, e di grande importanza perché la consulenza va ad incidere sui diritti delle parti.

Nel sistema penale esiste un canone fondamentale: si può giudicare esclusivamente sui fatti e mai sul profilo psicologico. Il profilo psicologico assume rilievo ai fini della capacità di intendere e di volere, o nella valutazione delle circostanze.

Questo principio deve valere anche nel processo civile, nel quale la valutazione deve attenere a fatti concreti, per salvaguardare la preminenza della figura del giudice rispetto agli altri intervenenti.

In via generale la consulenza non è MAI un mezzo di prova, ma un mezzo di valutazione della prova.

A volte è difficile applicare questo principio alle ctu dii tipo psicologico, perché la consulenza può sembrare al giudice come una scorciatoia per arrivare alla definizione delle caratteristiche psicologiche delle parti (in particolare la capacità genitoriale), conclusione che dovrebbe definirsi all’interno della normale dialettica processuale.

Il giudice deve ricorrere alla ctu quando è necessario, ed è necessario quando non ci sono altri modi per verificare le migliori condizioni di affidamento, le condizioni psichiche del minore, l’incapacità genitoriale.

Molti hanno messo in dubbio la possibilità stessa di fare delle consulenze nel diritto di famiglia, perché “ non esisterebbe un metodo scientifico, universalmente riconosciuto, ed incontestabile per lo svolgimento delle consulenze e per l’accertamento della personalità delle parti”(problema dell’oggettività della psicologia).

Anche la scelta del consulente è delicata e va relativizzata al tipo di accertamento che si vuole proporre.

Allora, alla relativa obiettività della materia consegue una grande responsabilità del giudice nella scelta del consulente (in base ai curricula, alla richiesta del giudice …bla bla) e del consulente nella necessità di ancorare le sue determinazioni a teorie/metodi consolidate che diano la possibilità di effettuare critiche avvedute.

Naturalmente, lette queste critiche, rientra nella responsabilità del giudice il loro apprezzamento, e la consulenza avrà tanto più valore quanto più si baserà su fatti concreti e tanto più il consulente sarà stato capace di evitare di diventare “parte del conflitto”.

 

[1] Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con la L. 27 maggio 1991, n. 176 ,art. 9, comma 3: “Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo” e Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata e resa esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77)

[2] Legge 8 febbraio 2006, n. 54 recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”.

 

 SULLA CAPACITA’ GENITORIALE E SULLA RELAZIONE GENITORI FIGLI

Abbiamo detto come la principale richiesta del giudice al ctu sia la verifica della capacità genitoriale dei genitori, o anche, aggiungiamo ora, di eventuali responsabilità genitoriali pregresse.

Che significa?

Interpretando quanto indicato dalla legge 149/11 possiamo esplicitare il concetto di capacità genitoriale  riferendoci alla capacità del genitore di  fornire le cure e l’accudimento idonei ad incoraggiare l’autostima nel figlio , educarlo in modo da favorire la sua capacità di riconoscere e favorire le capacità concrete di  realizzazione di bisogni e desideri , fornirgli una adeguata proposta relazionale-affettiva capace di favorire, sempre, un attaccamento sicuro e adeguato sostegno psicologico.

Ed allora il genitore dovrà essere dotato di capacità riflessive, stabilità affettiva, controllo degli agiti, integrazione sociale, bassa emotività espressa e coerenza relazionale. La verifica di questi indicatori potrà essere un primo punto di riferimento utile nella ricostruzione della relazione genitori figli.

E proprio il riferimento alla relazione genitore-figlio ci riconduce al concetto di attaccamento del bambino come luogo di sperimentazione, nel contesto familiare, delle proprie capacità di rappresentare e spiegare i comportamenti altrui. E quindi, alla teoria dell’attaccamento, parte integrante, secondo Bolwby ( 1982), del comportamento umano “ dalla culla alla tomba”.

Le modalità reali, concrete, con cui una madre, o altro caregiver, si prende cura del suo neonato hanno un impatto cruciale sul suo sviluppo cognitivo-relazionale, determinando il modo con cui il neonato organizzerà le proprie strategie di attaccamento nei confronti della madre ed eventualmente le generalizzerà ad altri adulti. Difatti il neonato, una volta adulto, farà riferimento a quelle stesse modalità di attaccamento che hanno costruito la sua propria esperienza, e tenderà a metterle in atto nei confronti degli altri .

Il modello costruito nell'arco dei primi due anni di vita nella relazione con i genitori è, infatti, per il bambino di enorme importanza, al punto da regolare le aspettative su come gli altri lo tratteranno e da modellare il suo comportamento nei loro confronti. Il bambino costruirà un modello mentale della madre e del suo modo di comportarsi verso di lui; costruirà un analogo modello del padre; infine un modello di sé stesso e delle sue capacità fisiche e sociali. Con il tempo, insomma, la modalità di attaccamento tende ad estendersi alle altre relazioni, e ad assumere sempre di più le caratteristiche di uno script che contiene tutte le istruzioni circa i comportamenti di attaccamento. Secondo Bowlby, in oltre, sono i pattern di comunicazione verbale e non verbale, i processi per mezzo dei quali i Modelli operativi interni delle relazioni di attaccamento sicure e insicure vengono generati e mantenuti, e attraverso i quali vengono a loro volta trasmessi alla generazione successiva. Attraverso la maniera in cui i genitori abitualmente rispondono al proprio figlio, loro gli comunicano anche che lui è (o non è) meritevole di una risposta.

Quei genitori che nel corso della loro infanzia hanno esperito transazioni con figure di attaccamento responsive e accettanti, sono a loro volta più pronti a rispondere alle richieste dei loro figli in modo empatico ed emotivamente supportivo.

Come risultato, è più probabile che i loro bambini non solo si sentano compresi, competenti e valutati positivamente, ma anche che si vengano a trovare in una posizione più favorevole per costruirsi più funzionali modelli operanti di sè e delle proprie figure di attaccamento.

Così da varie ricerche è emerso che le esperienze familiari di coloro che crescono ansiosi e timorosi non solo sono state caratterizzate dall'incertezza circa la disponibilità del supporto genitoriale, ma spesso anche gravemente distorte e confuse dalle pressioni genitoriali ad esempio esercitate sul bambino perchè egli agisse come caregiver nei confronti di un genitore

Analogamente le esperienze familiari di coloro che crescono stabili e fiduciosi in sè stessi sono caratterizzate non solo da un costante supporto genitoriale quando questo viene richiesto, ma anche da un forte e continuo adattamento verso una crescente autonomia.

Il metodo più diffuso per valutare l'attaccamento nella prima infanzia è rappresentato da una procedura osservativa chiamata Strange Situation Procedure (Ainsworth 1978) che si basa sulla registrazione di otto episodi di separazione e di riunione tra madre e bambino in condizione di stress crescente e sulla registrazione delle emozioni che il bambino esprime in tale contesto.

Gli esiti delle osservazioni hanno permesso la classificazione di 4 stili di attaccamento.

  1. Attaccamento sicuro : il caregiver risponde adeguatamente ai bisogni del bambino e gli offrono una base sicura per il sostegno e la consolazione.
  2. Attaccamento insicuro-evitante: la mancata disponibilità del caregiver dispone il bambino verso un controllo delle emozioni che lo rende indifferente alla madre, non la coinvolge durante l’esplorazione dell’ambiente e non la cerca con lo sguardo. Lontano dalla madre il bambino non piange e non si lamenta, ma prosegue nelle sue attività. Non è interessato alla riunione.
  3. Attaccamento insicuro-ambivalente: il bambino mostra disagio ed ansia al momento della separazione; non esplora, ma ricerca costantemente il contatto con la madre. La madre non riesce a entrare in sintonia con il bambino, non risponde correttamente alle sue esigenze, ma gli si avvicina solo sulla base dei suoi bisogni, per questo il bambino adotta una modalità di comportamento che costringe il caregiver all’attenzione verso di lui( urla e pianti).
  4. Attaccamento disorganizzato: spesso è connesso ad una psicopatologia del genitore. Il bambino sente come minacciosa la figura a cui dovrebbe chiedere protezione; ne deriva un comportamento di allontanamento e successivamente di riavvicinamento alla ricerca di rassicurazione. Non si sviluppa una rappresentazione coerente di sé, dell’altro, della relazione, né la capacità di interpretare i comportamenti degli altri secondo l’interpretazione delle loro emozioni, intenzioni, pensieri.

Per quanto riguarda altre procedure o test, queste sono quelle maggiormente usate (Cavedon, Magro 2010).

  • Attachment Story Completion Task (ASCT)

Questa procedura di valutazione dell'attaccamento (Bretherton, Ridgeway e Cassidy, 1990) è rivolta a bambini in età prescolare e scolare.

Si presentano al bambino alcune storie, che evocano tematiche importanti rispetto all'attaccamento:

-             figura di attaccamento in relazione di autorità con il bambino;

-             sentimenti che suscitano comportamenti di attaccamento e protezione (paura/dolore);

-             ansia da separazione e abilità di risolvere i problemi;

-             modalità e strategie di ricongiungimento dopo la separazione.

Al termine si possono attribuire al bambino comportamenti che identificano un attaccamento Sicuro, un attaccamento Insicuro Evitante o un attaccamento Insicuro Disorganizzato.

  • Attachment Q-Sort (ASQ)

L'uso dell'ASQ è indicato per la valutazione dell'attaccamento per bambini da 1 a 5 anni. Il metodo (Waters e Deane 1985) si basa su osservazioni fatte dal professionista a casa della famiglia nelle normali situazioni di vita quotidiana.

È costituito da novanta items descrittivi per valutare il comportamento di attaccamento verso la madre di un determinato soggetto.

L'insieme dei punteggi ottenuti rappresenta il profilo di ogni bambino.

I profili che se ne ricavano sono quello di "sicurezza" e "dipendenza", ma non distingue l'attaccamento sicuro dall'attaccamento insicuro.

  • Separation Anxiety Test (SAT) , nella versione elaborata da Grazia Attili (2001).

L'autrice presenta una revisione e un adattamento italiano del Separation Anxiety Test (SAT) di Klagsbrun e Bowlby (1976).

Permette di rilevare i modelli mentali dell'attaccamento a partire dai 4 anni di età, e di evidenziare i rischi di insorgenza di patologie legate alla condotta.

Misura l'attaccamento, chiedendo risposte su ipotetiche situazioni di separazione, illustrate in sei tavole per i maschi e sei per le femmine, cominciando da quella emotivamente più pesante a quella più leggera.

La classificazione del modello di attaccamento si può basare sia su un punteggio globale dato dalla somma dei punteggi, sia sull'analisi della classe preponderante:

  • Il soggetto non si disinteressa della separazione ma sa che i suoi movimenti di autonomia saranno approvati dalla madre dalla quale può tornare.
  • Il soggetto presenta ansia e angoscia da separazione, descrive in modo esagerato le emozioni, dimostra un atteggiamento di rabbia.
  • Ha difficoltà ad accedere alle emozioni, spesso ha genitori svalutanti e distaccati che non aiutano a esprimere emozioni.
  • Vede la realtà esterna catastrofica, spesso ha genitori con drammi irrisolti.
  • Non sa leggere le intenzioni degli altri, che vengono visti come imprevedibili.

 

Riferendo quanto scritto al discorso sulle capacità genitoriali, ci accorgiamo come l’attaccamento sicuro sarà riferibile ad una propensione del caregiver al riconoscimento del proprio figlio come agente mentale usando termini che gli permettano di sviluppare positivamente la capacità metacognitiva.

L’attaccamento disorganizzato potrà essere, forse, la conseguenza di genitori con disturbi psichiatrici. Il comportamento incoerente del caregiver provoca una violazione delle aspettative del bambino che può risultare tanto più spaventosa se il bambino è inserito in situazioni di maltrattamenti, abusi, trascuratezza o trauma.

Anche la depressione materna può condurre all’attaccamento disorganizzato perché spesso è associata modalità di attaccamento irritabile ed incoerente, indisponibilità psicologica della mamma e sentimenti di impotenza e svalutazione.  Tutto può indurre un contesto di accudimento pericoloso ed incerto per il bambino.

Ancora di più sembrano influenzare negativamente il disturbo bipolare e l’alcolismo materno.

Quali conseguenze psicologiche nei figli?

Non ci sono prove di correlazione specifica tra i diversi stili di attaccamento e lo sviluppo di disturbi mentali, anche se si può classificare l’attaccamento disorganizzato come fattore di rischio nello sviluppo di disturbi dissociativi e borderline derivati da una mancata capacità di rappresentazione unitaria di sé e degli altri e dalla capacità di regolazione delle emozioni. Si può rilevare, invece, con buona probabilità come la sicurezza dell’attaccamento sia un fattore di protezione dalla psicopatologia.

La circostanza che uno dei genitori, od entrambi, sia affetto da disturbi psicopatologici non è comunque sufficiente a dichiarare una inidoneità genitoriale generale, che secondo la Corte di Cassazione “ deve essere declinata ed indagata, oltre che nella concretezza della singola situazione, anche in relazione al preciso periodo temporale ed in funzione del figlio, escludendo qualsiasi aprioristica ed automatica correlazione tra la psicopatologia e l’impossibilità di una sufficiente capacità genitoriale.

IL TRAUMA DELLA SEPARAZIONE

Il consulente tecnico, nel momento in cui accetta l’incarico, dovrà assumere la convinzione che tutto quello che farà dovrà avere un unico scopo: la tutela del minore dalle ripercussioni che questa fase della sua vita potrà avere nel suo presente e futuro. Spesso sarà l’unico momento di attenzione reale che i minori percepiranno da parte delle istituzioni, e quella diventerà l’unità di misura con la quale si andranno a relazionare con queste.

La prima considerazione da fare è che la separazione dei genitori è un’esperienza assolutamente traumatica per i figli.

Il trauma è una ferita e come tale deve poter essere elaborata/curata nel contesto socio/familiare.

Le ricerche in ambito familiare relative alle esperienze disfunzionali rilevano come il trauma di base sia la trascuratezza relazionale, riferendosi soprattutto alla lontananza emotivo/psicologica dei caregiver nei confronti dell’accudito.

Questo trauma base oggi viene chiamato “developmental trauma”; non presenta alcuna condizione di violenza all’interno del contesto familiare, ma sottintende una trascuratezza psicologica che può dar luogo a manifestazioni clinico/comportamentali, specialmente nel periodo adolescenziale.

Una delle condizioni traumatiche più diffuse è l’iperprotezione, perché la tendenza a proteggere eccessivamente impedisce l’esperienza della conoscenza del mondo naturale e sociale necessaria allo sviluppo psicologico.

Un altro trauma che spesso si può rilevare è l’abuso emotivo, cioè l’essere criticati, denigrati, puniti ingiustamente.

Poi c’è l’abuso fisico, i maltrattamenti, ossia quei quadri traumatici in cui la famiglia ha l’evidente valenza di essere una famiglia traumatizzante.

Altri traumi sono l’abuso sessuale senza contatto fisico, ossia le esperienze in cui i bambini vengono messi a confronto con scene sessuali (es. film porno, o esperienze sessuali familiari), e l’abuso sessuale con contatto fisico. L’analisi delle sentenze riguardanti fatti di abuso sessuale rivelano come i fatti avvengano spessissimo all’interno del nucleo familiare, in cui la figura dell’abusatore è prevalentemente la figura del padre.

Ma anche il vissuto di alta conflittualità all’interno della famiglia è un’esperienza traumatica per i figli.

Come sono caratterizzati i loro vissuti in questi casi?

-             Innanzitutto con un livello di angoscia intensissima e vissuti di impotenza che si cercano di contrastare con meccanismi di difesa molto primitivi che non riescono a contrastare il vissuto di espulsione derivato dalla conflittualità; molto spesso ne consegue rabbia, come una lava che esce all’esterno. E’ un primo movimento con cui la mente cerca di svuotare il proprio contenuto insopportabile.

-             Altro elemento è l’impossibilità dell’evoluzione del legame. Quindi volontà di separarsi ma legata all’impossibilità del divorzio. Uno stallo che da un lato volge all’allontanamento, e dall’altra parta una impossibilità di negoziazione che non consente di realizzarlo. Legame disperato e disperante. La contraddittorietà viene agita come se una persona avesse il piede sul freno e sull’acceleratore contemporaneamente.

Questo determina per i ragazzi due tipi di problema

o            I figli si trovano in una situazione emotiva che è come un girone dell’inferno dantesco, perchè noi non educhiamo i figli con quello che diciamo, ma con il nostro esempio. Quindi i figli assistono, vedono, sono in contatto emotivo con i genitori, ed assorbono quello che vedono.

o            I genitori stanno talmente male che coinvolgono le famiglie d’origine nel loro conflitto. I figli diventano invisibili: i loro sentimenti, i loro bisogni, i loro stai d’animo vengono ignorati.

I figli perdono, di conseguenza la base sicura evidenziando una sintomatologia che vede la perdità dell’autostima, la distrazione, la riduzione della capacità di concentrazione, l’irritabilità, fenomeni di chiusura che possono arrivare al distanziamento sociale (si sentono diversi dagli altri).

Anche l’evitamento può essere una caratteristica ed una conseguenza del rapporto con i genitori in quanto allontana la fonte del proprio malessere.

Quello di cui i figli hanno bisogno è, invece, di essere rassicurati, di poter esprimere le loro emozioni, le loro idee, soprattutto nell’esperienza della perdita dell’unità familiare. E’ possibile, non sono così fragili. Quello che li distrugge è vivere in un conflitto permanente, non il fatto che la famiglia si separi.

Hanno bisogno di ritrovare l’autostima, di sentirsi parte di un corpo familiare, di un corpo sociale, di aver accesso al padre ed alla madre, di non essere parti di un conflitto ma di un gruppo familiare.

Per la valutazione degli esiti di un contesto familiare traumatizzante nello sviluppo psichico di un bambino alcuni strumenti si rivelano molto utili.

  • I colloqui individuali con i genitori, con cui si chiede alle persone di raccontarsi. Perché?

Perché è utile per collocare la storia dell’individuo all’interno di una storia trigenerazionale, e perché nel colloquio ho la possibilità di dare senso ai comportamenti che quell’individuo ha con me, in relazione a me, in quel momento, posso conoscere i suoi modelli di attaccamento e l’influenza che questi hanno avuto nei confronti dei figli. E’ un momento diagnostico. Ci interessa sapere non la storia, ma vedere COME raccontano quella storia, il modello relazionale, la capacità di adattamento alla nuova situazione. Al soggetto ritorna una rilettura della sua storia e la possibilità di un’autoriflessione che potrà dirmi cosa lui sarà in grado di fare, prognosticamente, per quel minore.

  • I colloqui di coppia, che servono ad individuare l’incastro di coppia, ossia i motivi per cui il partner viene scelto (anche sulla base dei propri bisogni insoddisfatti; spesso diventa il mezzo attraverso il quale si cerca una compensazione rispetto a problemi irrisolti che riguardano la propria storia familiare e personale), e quali erano i fattori di rischio (spesso manca il tempo di conoscenza della coppia – compressione dei tempi-, e i due non sono svincolate emotivamente dalle famiglie d’origine).

Alle parti l’incontro consente di ragionare sui ruoli giocati all’interno delle dinamiche familiari di coppia sia durante l’unione che nella separazione.

  • Colloqui con gli adulti significativi. Il riferimento è alle famiglie d’origine di ciascun genitore.  E’ importate capire se questi, nonostante la separazione siano in grado di  favorire od ostacolino la necessaria continuità affettiva del bambino con le persone significative .E’ importante capire se il minore, nonostante la separazione continui ad avere rapporti con gli adulti significativi, che rappresentano la storia di quel minore (è importante che ce l’abbiano).
  • L’ascolto del minore. E’ un momento fondamentale nella ctu. Momento difficilissimo ma imprescindibile, perché è importante sentire il suo punto di vista. In realtà non c’è mai grande difficoltà ad ascoltare il minore, sia per la disponibilità dei genitori, sia del minore, naturalmente adeguando il linguaggio e facendogli capire che in quella fase lui non potrà decidere, ma deciderà il giudice per lui.

Ascoltare un minore è un atto specialistico di alto profilo ma va fatto conoscendo  le regole 

  • della psicologia dell’età evolutiva che possa considerare gli aspetti specifici per ogni età (considerare gli aspetti mentali che si sono sviluppati nelle età evolutive)
  • degli aspetti relazionali dell’età evolutiva, per riuscire a collegarsi al suo funzionamento mentale; lo specialista deve creare una relazione e deve conoscere i minori ed il loro mondo.

 

  • Le visite domiciliari, importanti per capire come il bambino  si relaziona con i    Consente al consulente tecnico la valutazione della delimitazione degli spazi, fisici e mentali, tra familiari, quale è lo spazio mentale che il genitore riserva al minore. Importante per capire come si relaziona con i conviventi. Permette di capire quale è lo spazio mentale che il genitore riserva al minore e come sono delimitati gli spazi, non tanto fisici ma mentali.

 

  • può essere necessaria una valutazione diagnostica, con l’uso di test ed interviste, per la valutazione della personalità, delle capacità affettive e di autocontrollo degli adulti. E’ importante anche per escludere la presenza di nuclei psicopatologici. Tra gli strumenti più usati:

-             Il test DC05 – per la classificazione diagnostica dei disturbi del bambino da 0 a 5 anni, per la rilevazione di traumi derivanti da conflittualità relazionali. Tra gli effetti troviamo disturbi del neurosviluppo, del linguaggio, della coordinazione, disturbi d’ansia, dell’umore, ossessivo-compulsivo, del sonno e dell’alimentazione, psicosomatici.

-             Le “interviste cliniche “ ci danno, poi,  la possibilità di permettere una valutazione approfondita sia del contesto familiare che della personalità del bambino e dei genitori.

Saper valutare la personalità dei genitori è centrale perché sappiamo che alcune personalità, come i soggetti narcisisti o psicopatici (attenzione alla differenza con gli psicotici. Gli psicotici sono soggetti sofferenti, gli psicopatici invece stanno bene- è un disturbo di personalità che non presenta segni di sofferenza clinica)- sono ad alto rischio di manipolazione, con grande capacità di presentarsi nel modo migliore; è importante, in questi casi, che il giurista venga affiancato da psicologi che sappiano utilizzare le interviste, perché noi sappiamo che questi soggetti sanno alterare i questionari.

Nelle interviste, invece, noi abbiamo la possibilità di vedere quali sono le risposte autentiche del soggetto valutando il linguaggio non verbale, la postura, la tonalità della voce.

Quali sono queste interviste? 

  1. SCID-5-AMPD . E’ un’intervista che è stata pubblicata soltanto 4 anni fa negli stati Uniti con la pubblicazione del “Manuale Diagnostico Statistico dei disturbi mentali”. Ha la capacità di valutare aree fondamentali della personalità quali l’identità, l’autodirezionalità (capacità di pianificare il suo automiglioramento), l’empatia e l’intimità, intesa come capacità di stare con gli altri.

La valutazione  della personalità con la SCID 5 ci permette di formulare anche la dimensionalità del problema:

  1. a) nessuna o poca compromissione
  2. b) lieve compromissione
  3. c) moderata compromissione
  4. d) grave compromissione
  5. e) estrema compromissione

la necessità di dimensionare il problema vale  per tutti i disturbi psichici. Ad esempio, l’ansia moderata è diversa dall’ansia grave, così per la depressione lieve, moderata e grave.

  1. PCL- R: psychopaty cecklist, è una intervista che permette di valutare su 20 item, ossia 20 caratteristiche specifiche di personalità, le condizioni alla base della psicopatia.

Si  somministra attraverso un colloquio semi-strutturato in cui il professionista dà un punteggio da 0 a 2 punti per ogni domanda relativa alle dimensioni esaminate.

Il risultato ottenuto definirà la presenza o meno di tendenze psicopatiche, il loro significato e la possibilità di commettere atti violenti (o di commetterli di nuovo).

Una caratteristica importante di queste personalità ritenute psicopatiche  è la menzogna patologica, caratterizzata da doppia menzogna: il soggetto mente all’altro, ma mente anche a se stesso fino al punto di rendere assolutamente veritiera l’argomentazione che vuole sostenere. Quindi il soggetto è freddo, impassibile nella menzogna, e capace di servire quella relazione sempre con lo scopo di trarre un vantaggio da quella circostanza.

Altro aspetto importante degli psicopatici è l’assenza di rimorso e di senso di colpa (anche se sono capaci di fingerli), definito dal prof Zimbardo moral disengagement – disimpegno morale- che non è l’immoralità, ma una condizione per la quale il soggetto utilizza tutta una serie di meccanismi di difesa per cui tende a dislocare la responsabilità: la colpa non è la mia ma della società, se tutti sono ladri , non ho fatto niente di male…

Il disimpegno morale mantiene intatta l’autostima,così i soggetti psicopatici non sperimentano ne rimorso, ne senso di colpa.

  1. Un’altra intervista standardizzata da Zimbardo è l’HCR-20 lo strumento più importante per valutare il rischio di recidiva.

E’ costituita da 20 item, ciascuno relativo a un fattore di rischio di violenza, che vengono valutati in relazione alla loro presenza e rilevanza, attribuendo una risposta sulla base delle informazioni raccolte relativamente al soggetto in osservazione, attraverso documentazione ufficiale, interviste e informazioni collaterali. I 20 item includono:

-             10 fattori H (Historical), relativi alla storia clinica del soggetto nel passato

-             5 fattori C (Clinical), relativi alla condizione clinica del soggetto nel presente

-             5 fattori R (Risk), relativi ai fattori di rischio futuro per la condizione del soggetto.

-             Un discorso particolare va fatto per il test di Rorschach, che nasce nella clinica ma si utilizza oggi molto nel contesto forense.

Il Rorschach non è solo un test, ma è una tecnica di indagine della personalità che non valuta singoli aspetti della personalità dell’individuo, ma è una tecnica che consente di valutare l’unicità dell’individuo.

Consente misurazioni “quantitative” della personalità (essenziali nel contesto forense), ma anche “qualitative”, ovvero tutta una serie di informazioni che non hanno valenza statistica ma senza le quali non si può fare una descrizione della personalità analitica, dettagliata e differenziale, aspetti importanti nella definizione delle capacità genitoriali.

C’è  differenza dell’uso del Rorschach in ambito clinico e forense: nella clinica ho la possibilità di cogliere tutto e riportare tutto a chi mi chiede la somministrazione (in genere un collega psicologo) perché tutto può servire in una psicoterapia, nel forense la dimensione quantitativa del test è quella privilegiata, quindi la descrizione del soggetto, per quello che ci è stato chiesto, và sostanziata con gli indici che ci hanno consentito la valutazione (oggettivazione delle informazioni – perché alcuni indici sono stati preferiti ad altri e come sono stati quantificati).

Altra cosa importante: nel contesto clinico posso limitare la mia conoscenza alla scuola di pensiero che ho scelto come mio riferimento teorico, nel contesto forense, che può essere costantemente valutato da altri, devo essere in grado di vagliare anche il lavoro di chi utilizza un approccio teorico diverso dal mio (anche all’interno dello stesso test Rorschach – le tre scuole di cui sopra).

Bisogna tenere poi il momento particolarmente doloroso che le persone periziande stanno attraversando; ansie, malumori, rimuginazioni sono spesso l’effetto della situazione e non caratteristiche della personalità.

Il  Rorschach mi permette di capire quali sono le caratteristiche presenti in quel momento, quindi se c’è una disposizione di stato, in quel momento, NON in linea con le dimensioni strutturali basiche. Se questo è, bisogna capire se c’è un problema preesistente o se è il risultato di ciò che stiamo osservando.

La tav.7 , detta tavola materna, può provocare un certo turbamento; quando ciò accade (ci sono indicatori che verificano il turbamento, ad es. la lentezza nella risposta) potrei manifestare una relazione complicata col materno, quindi con gli affetti primari. Questo comporta che nella vita ho la tendenza a considerarmi sempre il figlio minore, poco amato, un vissuto abbandonico, insomma, che spesso provoca delle disfunzionalità quali le relazioni fusionali (nel tentativo di evitare l’abbandono).

Inoltre c’è un elemento che il rorschach consente di individuare, e cioè la capacità che la persona ha di crescere a seguito della spinta che il terapeuta (il ctu, in quel momento) riesce a dare al cliente relativamente al rapporto con l’ex compagno, la predisposizione al cambiamento (capacità introspettiva) che gli permetta migliori capacità relazionali.

 

Fatto tutto quanto sopra si ha una diagnosi, ossia una lettura approfondita di come quella famiglia funziona con quel minore. Ma quale è la diagnosi richiesta in ambito forense?

In ambito clinico, si intende la diagnosi come un giudizio teso a valutare aspetti e processi della personalità di un determinato soggetto, le sue modalità relazionali, le sue competenze cognitive, la struttura della sua personalità, la normalità o la patologia delle sue funzioni psichiche.

In ambito forense quello che è necessario sapere è come le persone funzionano nell’espletamento del ruolo genitoriale, come sanno prendersi cura del minore.

Una delle domande fondamentali è se sussistono malattie psichiche di uno dei genitori. Molti consulenti propongono la somministrazione di test. Alcuni giudici contestano la validità di questi test. A volte le parti e gli avvocati li rifiutano. E’ un elemento che va valutato assieme agli altri comportamenti delle parti (può rilevare, ad esempio, una mancata collaborazione).

Dobbiamo puntualizzare come la presenza di una diagnosi psichiatrica non comprometta necessariamente le capacità genitoriali, e come le modalità attraverso cui si esplica la genitorialità non sono connesse soltanto alle caratteristiche del singolo genitore ma dipendono anche dall’interazione con altri fattori come la rete sociale (scuola, insegnanti, amici, parenti…), livello di conflittualità, temperamento del minore.

Valutazione delle competenze genitoriali, quindi. Ma cosa vuol dire? Quali competenze deve avere un genitore per far crescere il proprio figlio bene? Non basta voler bene?

No, è ingrediente importante ma non sufficiente da solo.

Volendo individuare i parametri alla base di un’adeguata capacità genitoriale potremmo dire:

-             La capacità di comprendere e rispondere alle esigenze primarie

-             La funzione protettiva

-             Una buona qualità della relazione di attaccamento

-             Una buona capacità riflessiva

-             La disponibilità ad aiutare ed a farsi aiutare

-             La capacità di porre al bambino o all’adolescente regole flessibili che consentano l’esperienza e l’autonomia

Ma non basta. Un elemento importantissimo da verificare in sede di consulenza tecnica è la capacità di inclusione triadica, ossia la capacità di rappresentare al figlio l’altro genitore anche in sua assenza. Tale capacità è connessa al criterio dell’accesso all’altro genitore in termini di disponibilità di un genitore nei confronti dell’altro.

Risulta chiaro, ora, come la valutazione diagnostica in sede forense non possa riguardare il singolo individuo ma deve essere allargata necessariamente alle dinamiche relazionali del sistema valutato.

 

DISTURBI DA USO DI SOSTANZE E BUONA CAPACITÀ GENITORIALE

Un altro problema da affrontare è quello relativo alla capacità genitoriale di chi è dedito all’uso di “sostanze”

Cercando di definire che cosa è un disturbo da uso di sostanze, diciamo che è un disturbo che provoca un’alterazione funzionale e strutturale del sistema nervoso,  configurando una vera e propria malattia.

E’ un disturbo, inoltre, con substrato biologico e quindi non legato, solo, a comportamenti di libera scelta.

Vediamo, quindi, il substrato biologico, dove si riscontra l’alterazione di due centri nervosi importanti, che modificano le tappe dello sviluppo neurologico.

E come queste alterazioni possono impattare sullo sviluppo delle capacità genitoriali.

Alcune aree cerebrali come i Lobi frontali del cervello ed il sistema limbico, che conferiscono l’interesse verso alcuni stimoli condizionanti - ad es. le gratificazioni, ma anche gli stimoli avversivi - vengono alterati dalla presenza di sostanze determinando la perdita di alcune funzioni:

  • Capacità di mentalizzazione
  • Regolazione affettiva
  • Capacità di attaccamento sicuro

Questo avviene soprattutto se l’uso delle sostanze avviene in età adolescenziale, quando alcune struttura del sistema nervoso sono ancora poco mature a fronte di una forte ricerca di stimoli esplorativi. L’esplorazione e le esperienze formano lo sviluppo corretto della personalità dell’adulto, ma se fatte in maniera incontrollata possono portare gravi incompetenze nell’adulto e.

Uno studio ESPaR ci dice che la maggior parte delle esperienze con sostanze/alcolici inizia intorno ai 14 anni.

E’ in questa età che diventa particolarmente importante, quindi, la funzione dei genitori.

In pratica il cervello dell’adolescente è coevoluto col cervello dell’adulto, cioè funziona bene se è coadiuvato dal cervello dell’adulto che dà in prestito all’adolescenze la funzione inibitoria/regolativa/ di organizzazione/di evitamento del danno, insomma delle funzioni superiori legate alla comprensione dell’altro, determinando una attribuzione di significato al rispetto delle regole/comportamenti.

Il meccanismo della coevoluzione è molto frequente in natura; si pensi alla coevoluzione del cavallo/cane/ mucca con l’uomo.

Dobbiamo allora capire quali sono le problematiche connesse ad uso di sostanze perché ci aiuta a comprendere la varietà di questo fenomeno.

Quando parliamo di disturbo da uso di sostanze dobbiamo immaginare una scacchiera, all’interno della quale troviamo tantissime entità/ cause diverse, sostanze diverse riferibili ad effetti neurobiologici specifici di quella sostanza che orienteranno il funzionamento del sistema nervoso e comportamenti particolari.

La storia di malattia da uso di sostanze inizia precocemente, a volte nella vita intrauterina; molte madri, più o meno consapevolmente assumono alcol (8%), tabacchi o sostanze nonostante siano incinte.

La sindrome fetoalcolica provoca disturbi nel comportamento infantile od adolescenziale, ed allora dobbiamo fare i conti col loro pregresso intrauterino nella valutazione comportamentale. La percentuale si alza con bambini adottati da paesi in cui c’è maggiore cultura dell’assunzione di alcolici.

Poi ci sono esperienze precoci predisponenti, che accentuano quanto appena detto.

 Altri problemi sono legati all’alimentazione.

Il sistema limbico ha il compito di rilasciare la dopamina ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa che ci piace (gratificazione). L’industria alimentare, allora, gioca a sensibilizzare questo sistema. In certi limiti va tutto bene, ma se la storia di contatti con alimenti con alta potenzialità di stimolare la gratificazione, è troppo frequente il bambino può essere esposto ad una maggiore inclinazione all’uso di sostanze o di alcolici.

Lo stesso vale per la caffeina e la taurina (danno dipendenza).

Naturalmente le esperienze precoci possono essere anche relative all’uso di nicotina, alcol o farmaci.

Quindi quando parliamo di disturbo da uso di sostanze dobbiamo dimenticare il paradigma della tossicodipendenza in senso stretto, ormai superato, ma può essere associato ad elementi di status che possiamo avere tutti (caffeina), ne c’è una problematica specifica legata al degrado socio economico, ad esempio, od all’hiv, come è successo in passato.

Quindi dobbiamo andare a comprendere bene quello che succede, e valutare bene la presenza di due sindromi importanti:

  1. Addiction: fidelizzazione comportamentale verso qualcosa che ci fa piacere fare (es. un bicchiere di vino a sera…fa piacere..). La persona in assenza dello stimolo sviluppa ipoforia (mancanza di piacere); può farne a meno ma la qualità dell’umore è compromessa dall’assenza di questo stimolo.
  2. Dependence: anch’essa è una sindrome fisica, ma da luogo al fenomeno dell’astinenza in caso di interruzione dell’uso della sostanza. E’ una situazione transitoria ma molto evidente.

Nella valutazione dell’uso di sostanze, ed indirettamente delle capacità genitoriali, dobbiamo saper distinguere tra le due situazioni psicobiologiche distinte e valutare la gravità del disturbo.

Se vogliamo parlare, invece, in senso generale del disturbo da uso di sostanze dobbiamo definirci rispetto all’acronimo I.R.I.-S.A. che sta per  “insufficienza della risposta inibitoria e la salienza aberrante”.

  • La salienza aberrante è elativa all’attribuzione di senso, di importanza ad un dato stimolo, rispetto a tutto il resto. Si verifica un’ alterazione dei nuclei della base- corpi striati- che sono quelli che danno l’attribuzione di significato alle cose (in genere dall’aumento di dopamina nei nuclei).
  • L’insufficienza della risposta inibitoria invece ha a che fare con l’impoverimento strutturale e funzionale dei lobi frontali – frenoinibitori del comportamento della persona. L’uso di sostanze provoca l’indebolimento dei lobi frontali del cervello.

Ed anche i farmaci vengono utilizzati in maniera impropria, come gli antipsicotici ad alto dosaggio che producono un effetto come la cocaina.

Tutte queste sostanze interferiscono, quindi, con le funzioni organizzative dell’individuo.

Pertanto, nella valutazione della capacità genitoriale dobbiamo andare a riconoscere la storia di malattia dal punto di vista clinico, ma questo non  esaurisce  la consulenza in sede forense in quanto bisogna valutarne l’impatto sulle funzioni genitoriali.

Ed allora in sede di valutazione vanno verificate :

  • le abilità cognitive, emotive e relazionali del ruolo e delle funzioni genitoriali
  • il modello relazionale con i figli (sentimenti, empatia, capacità di riconoscere i bisogni primari e le aspettative dei figli come qualcosa di diverso dal desiderio dei genitori
  • la capacità di interazione dei genitori col mondo esterno, soprattutto in relazione alla richiesta di aiuto ed alla disponibilità verso le reti sociali di sostegno
  • le capacità di prendersi cura del figlio con riguardo alle esigenze primarie e sociali, alla capacità di organizzare e strutturare il mondo fisico del figlio, alle strategie usate per far comprendere al figlio il proprio ambiente
  • lo stile parentale, che deve essere comprensivo ed accogliente ma non troppo protettivo ( abituare alle responsabilità)

Se vogliamo riferirci in maniera specifica al quesito di consulenza, dobbiamo prestare inoltre particolare attenzione a  come, spesso, avremo a che fare con persone che sembrano apparentemente funzionanti, ma che frequentemente, in maniera sommersa, possono usare sostanze attraverso il nuovo paradigma della costruzione emozionale, attraverso l’immagine del potenziamento delle funzioni cognitive.

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