Anoressia, Bulimia ed Obesità: un vuoto che non si riempie mai

I Disturbi della Nutrizione e dell’ Alimentazione sono caratterizzati «da un persistente disturbo dell’ alimentazione oppure da comportamenti inerenti l’alimentazione che hanno come risultato un alterato consumo o assorbimento di cibo e che compromettono  significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale». (DSM – V). I Disturbi del Comportamento Alimentare, in particolare Anoressia, Bulimia e Obesità (quest’ultima nel DSM – V non annoverata tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione)  sono scatenati da molteplici fattori che vanno dall’individualità del soggetto alla sua relazione con l’ “Altro Sociale”. Evidenziare l’importanza dell’Altro nella formazione della propria identità ci aiuta a comprendere il  valore che ognuno attribuisce al proprio corpo e all’ ideale di bellezza al quale fa riferimento; pertanto, diventa fondamentale “essere visti” non per quello che si è, ma per come l’altro ci vorrebbe. Si colloca qui ciò che M. Recalcati (2006) definisce “corpo – mostro” cioè un corpo che non riconosco più perché non è in relazione con il desiderio degli altri. Si rompe l’armonia tra corpo e mente e non si riesce più a trovare forme comunicative che possano far sentire la persona pienamente accettata, perché la sua esteticità non corrisponde ai canoni di riferimento. Il corpo che ingrassa o dimagrisce sembra deputato a parlare al posto della persona che non riesce più a relazionarsi in modo positivo con gli altri. Il parlare di sé diventa impreciso e vago, si tende a nascondere o a non definire mai con esattezza ciò che si prova evitando così qualsiasi contenuto emotivo. È qui che si insinuano le abbuffate e/o i digiuni che sembrano sostituire i legami e le relazioni significative alla ricerca disperata di riempire un vuoto incolmabile. Il cibo, infatti, non è semplicemente un mezzo di nutrimento, ma è strettamente legato a stati emotivi specifici quali: ansia, depressione, noia, solitudine, rabbia e stress. Naturalmente non sono solo le nostre scelte alimentari ad influenzare il nostro stato d’animo, ma anche fattori che riguardano le fasi evolutive della nostra personalità. In campo psicoanalitico,  sempre più spesso, si sottolinea l’importanza delle prime fasi di sviluppo nella formazione di una relazione positiva con il cibo. Il bambino inizia ed impara a conoscere il mondo attraverso la bocca e quindi anche grazie ai momenti dedicati ai pasti che sono accompagnati, spesso, da contatto fisico,  gratificazione e coccole, sviluppando così, un’associazione tra amore, nutrimento e “mangiare”.  Man mano che il bambino cresce le sue esperienze si espandono sempre di più, dando vita ad una vasta gamma di attività sensoriali gratificanti. Se al contrario, tale esperienza si svolge in un ambiente meno favorevole, il bambino non riesce a trovare altre fonti di gratificazione e quindi da adulto potrebbe trovare nel cibo l’ unica fonte di sostegno emotivo. L’incontro con la figura di riferimento durante i pasti, diventa dunque, fondamentale per sperimentare una relazione fatta di un nutrimento non solo materiale, ma anche e soprattutto affettivo dove i partecipanti alla relazione (di solito madre – bambino) si cibano di legami, relazioni, emozioni e “giochi di potere” . Se un bambino impara che attraverso il cibo riesce ad affermare il suo “potere”, da adulto, probabilmente, vivrà l’alimentazione direttamente collegata alle reazioni emotive.  Anche le figure genitoriali, spesso utilizzano il loro potere attraverso il cibo ( veicolo “educativo”) dando premi o punizioni, (come ad esempio: “se fai il bravo puoi mangiare il dolce” o viceversa: “ti sei comportato male allora non avrai la caramella”) che indirizzano il bambino verso una sempre più stretta relazione tra il cibo e l’immagine di sé, con diversi rischi di un mancato equilibrio nel rapporto con l’alimentazione. Dunque, la mancanza di esperienze gratificanti, di piacere e di sentimenti felici creano un vuoto che il soggetto potrebbe cercare di riempire in futuro, ingerendo grandi quantità di alimenti spesso inappropriati. Mangiare allora, diventa l’unica fonte di piacere e di soddisfazione anche se può portare a delle conseguenza non sempre positive per le persone: aumento di peso, senso di colpa e rinuncia a cercare altre forme di gratificazione. Inoltre, tali dinamiche porterebbero alla formazione  di un corpo non più in relazione con il desiderio dell’altro perché troppo grasso o troppo magro. L’immagine che ne risulta è quella di un bambino – adulto che durante le fasi dello sviluppo non è “stato visto” dai genitori. I pazienti spesso riferiscono: “Mangiavo per ingrassare perché volevo che i miei genitori mi vedessero”. Pertanto diventa fondamentale per un bambino sentire amore per la sua immagine rientrando così nell’ideale narcisistico del padre e della madre. Si colloca qui una fase dello sviluppo che per la psicologia è di fondamentale importanza, soprattutto quando si parla di Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione: la fase dello specchio (6 – 18 mesi) descritta dettagliatamente da Lacan (1949). Quando, per la prima volta, il bambino si guarda allo specchio non riesce a distinguere la sua immagine reale da quella riflessa e il suo corpo viene percepito come in frantumi e non come unità formale. In un primo momento cerca di toccarla perché crede che sia un’altra persona, poi guarda la madre e inizia a sorridere provando un senso di piacere nello scorgere qualcosa di animato che si agita e sorride. Man mano con il passare del tempo e con la ripetizione di tale esperienza, il bambino inizia a mettere insieme e a completare la sua immagine grazie soprattutto all’incontro con lo sguardo e il sorriso della madre (o di chi si occupa del bambino). È qui che si colloca l’amore per l’immagine del figlio che risulta determinante nella futura relazione del soggetto con l’alimentazione. In molti casi, infatti, notiamo che l’anoressica – bulimica non ha incontrato il sorriso della madre ma solo una smorfia, che non le ha consentito di risolvere in maniera appropriata la dualità immagine riflessa e immagine reale. L’Altro,  in questo caso la madre, non è soddisfatto dell’immagine che vede. Il bambino che si rispecchia negli occhi della madre, come diceva Winnicott (2001), vede qualcosa che non è “bello” e che non piace, perché la figura di riferimento e di attaccamento (J. Bowlby, 1989) non mostra, attraverso il viso, la stessa gioia che inizialmente provava lui. Manca, quindi, l’incontro amorevole con una figura, quale quella della madre, che non riesce, in questo caso, ad accogliere e contenere il corpo del figlio. Pertanto, quando in terapia si incontra una così grande sofferenza, è necessario accoglierla, ascoltarla ed elaborarla, in modo da aiutare la persona a trovare un modo meno pericoloso di manifestare il dolore o di separarsi da eventi e legami traumatici: un dolore dell’animo che si riflette sul corpo. Parliamo di dinamiche che coinvolgono il corpo, la mente, le relazioni, i legami e gli affetti. Tutti questi aspetti  ci inducono a tenere nella giusta considerazione la complessità che si nasconde dietro ad un comportamento alimentare inadeguato. Risulta quindi, fondamentale per i professionisti non trascurare mai l’importanza di un approccio integrato che preveda il coinvolgimento di più figure professionali: psicologo – psicoterapeuta, nutrizionista e medico – internista.  

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