Hikikomori

Negli ultimi anni assistiamo in Italia alla diffusione di un fenomeno che è stato osservato per la prima volta in Giappone e che prende il nome di Hikikomori che letteralmente significa “tirarsi indietro, ritirarsi”. La casistica vede ragazzi dai 12 ai 30 anni che gradualmente iniziano a manifestare una insofferenza alla vita di relazione, e attraverso una lenta chiusura, arrivano a momenti di isolamento sociale e affettivo che si concretizza con l’abbandono scolastico, il ritiro dal gruppo dei coetanei, dalle attività sportive, ma anche l’impossibilità di condividere momenti in famiglia quali i pasti o una gita. Progressivamente l’esito ultimo è quello di un completo astenersi da qualsiasi tipo di attività. L’unica finestra sul mondo è rappresentata dall’utilizzo/abuso dei social, che propongono una modalità di relazionarsi all’altro filtrata da uno schermo che mitiga il carico emotivo, che permette di mostrarsi per ciò che si è senza la paura di venire giudicati, o anche attraverso un personaggio di fantasia che magari rappresenta ciò a cui si aspira, l’ideale personale. I social sono anche il luogo virtuale in cui affrontare/reagire a fenomeni di bullismo, ribellandosi o vendicandosi, senza esporsi in prima persona, perché protetti da un anonimato o da una identità fittizia.
Il termine coniato negli anni ’90 da Saito Tamaki, descriveva individui che per lunghi periodi, da 6 mesi a diversi anni, permanevano nella casa genitoriale, in assoluta dipendenza economica e sociale. Li accomunava una fragilità nella capacità di stringere relazioni, un’insicurezza, una rigidità del pensiero ed un bisogno di avere il controllo, una ansia interna, un sentimento di vergogna, una scarsa motivazione o stima di sé, l’essere stati vittima di bullismo o di una qualche forma di violenza, l’aver avuto un fallimento.

La fotografia della famiglia vedeva invece una relazione di dipendenza affettiva dalla figura materna, e spesso la presenza di un padre “periferico” sotto l’aspetto normativo o affettivo
Clinicamente, l’ascolto del disagio del minore è un aspetto fondamentale da cui non si può prescindere. L’aggressione, la punizione, l’obbligo, spesso non portano i genitori ai risultati sperati, ossia al reinserimento sociale dell’adolescente. Ciò che invece paga è la comprensione “dei comportamenti sintomatici”, il ruolo comunicativo e relazionale che acquisisce il sintomo all’interno della vita famigliare. Appare fondamentale che ciascun membro della famiglia debba mettesi in discussione rispetto alle sue modalità di interfacciarsi all’altro. Fondamentale è la creazione di un “noi genitoriale”, un fronte comune, una cabina di regia che decide e sa ciò che è meglio per suo figlio in armonia ed accordo. Altrettanto basilare risulta il contenimento emotivo da parte di mamma e papà, che viene fornito attraverso la condivisione di regole, compiti e spiegazioni. I genitori devono essere “di parola”, nelle promesse e nelle punizioni, perché questo da sicurezza all’altro, e ci fa sentire in una relazione protettiva e concreta.
Il mondo odierno è complesso, competitivo, spietato. Spesso non è quel luogo in cui ci si sente al sicuro, a volte si ha solo voglia di chiudere la porta per sentire. Non possiamo non tenere in considerazione il fatto che una tale forma di isolamento crei all’interno del nucleo famigliare degli scompensi e funga da comunicazione di un messaggio di malessere che ha una base multifattoriale. A volte i ragazzi non sanno comunicare i loro bisogni, non sanno darne una lettura emotiva, non riescono a contenere le aspettative e la competizione, non possono o non vogliono fingere di non vedere difficoltà coniugali e conflitti famigliari all’interno dei quali sono immersi, non sono in grado di chiedere aiuto se sono vittime di violenza: provano sentimenti di vergogna, di colpa, di responsabilità, e l’incapacità di venirne a capo spesso trova come unica soluzione l’isolamento. Il voler essere invisibili è un sentimento comune negli adolescenti… a volte è un bisogno, altre volte è un grido di aiuto che esprime esattamente la necessità opposta, ossia quella di essere visti ed accettati per ciò che si è, per i propri modi di fare, per le bizzarrie, per le fragilità, per le insicurezze… in fondo, alla base di ogni malessere psicologico, c’è un “vuoto di amore”, che chiede solo di essere colmato.

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