Quando non c’è più nulla da fare, c’è ancora tutto da dare

Nel silenzio che avvolge la stanza di un malato terminale, si nasconde una verità universale: la morte non è soltanto una fine, ma un passaggio. Questa visione di morte come trasformazione e passaggio non è nuova; già nell’antichità culture come quella degli Egizi e molte tradizioni orientali e occidentali consideravano la morte come un viaggio verso un’altra forma di esistenza, un passaggio necessario e sacro. Tuttavia, con l’avvento dell’epoca moderna, la morte è diventata sempre più un tabù, un evento da evitare, allontanare o negare. È in questo contesto che Elisabeth Kübler-Ross, psichiatra svizzera e pioniera della psicologia del fine vita, ha offerto al mondo una prospettiva rivoluzionaria, riportando la morte al centro dell’esperienza umana come un viaggio di trasformazione, un passaggio di crescita simile al processo che porta un baco a diventare farfalla. La sua metafora è potente e immediata. Immaginare il morire come il cambiamento del baco in farfalla significa riconoscere che, dietro la sofferenza e l’incertezza, esiste una trasformazione profonda. Come il bruco che si chiude nel bozzolo e sembra scomparire per rinascere in una forma nuova, così l’essere umano, nell’ultimo tratto della sua vita, attraversa un cambiamento interiore che può portare a una nuova dimensione dell’esistenza. Non è un’idea legata solo a una specifica religione o filosofia, ma un “aldilà” universale, presente in tutte le culture e tempi, un luogo di passaggio dove l’anima si libera dalle catene del corpo e delle paure. Ma come si accompagna qualcuno in questo viaggio? Kübler-Ross ha studiato le reazioni psicologiche di chi si trova di fronte alla fine e ha descritto cinque fasi fondamentali: il diniego, la rabbia, la negoziazione, la depressione e, infine, l’accettazione. Non si tratta di stadi fissi e immutabili, ma di fasi fluide, che si intrecciano e si alternano in modi diversi da persona a persona. Ogni fase racconta una parte del dolore, della resistenza e infine della resa serena al destino. Il ruolo di chi sta accanto al morente è quindi essenziale: non solo curare i sintomi fisici, ma soprattutto offrire amore incondizionato, presenza autentica, ascolto e rispetto. Solo così si può aiutare chi sta per morire a completare questo processo, attraversando ogni fase e giungendo a una vera accettazione della morte. Questa accettazione non è rassegnazione, ma un traguardo di pace interiore, una conquista che permette alla persona di lasciar andare la vita con dignità e serenità. Questa visione ci invita a ripensare il ruolo dei medici, degli psicologi e di tutti gli operatori sanitari. Troppo spesso, quando le cure non possono più guarire, si crede che non ci sia più nulla da fare. Ma proprio allora, secondo Elisabeth Kübler-Ross, nasce il bisogno più grande: quello di una presenza umana autentica. Non si tratta di compiere miracoli, ma di offrire una cura dell’anima, capace di illuminare l’ultimo tratto del cammino con sensibilità e rispetto. La parola compassione, dal latino compassio, “soffrire con”, racchiude l’essenza di questo accompagnamento: non semplice pietà, ma partecipazione profonda, il coraggio di restare vicini nella fragilità, senza fuggire. Accompagnare qualcuno nel morire significa proprio questo: restare. Quando non ci sono più soluzioni, può ancora esserci presenza, ascolto, silenzio condiviso. È in quei momenti che l’umanità trova la sua espressione più alta.

Come ha scritto Irvin D. Yalom:

“Perché i medici non sanno riconoscere, che il momento in cui non hanno più niente da offrire, è proprio quello in cui si ha più bisogno di loro?”

Questa riflessione non è un rimprovero, ma un appello a non distogliere lo sguardo, a non sottrarsi proprio quando la vicinanza diventa più importante.
Riconoscere la morte come un passaggio, da baco a farfalla, ci invita a viverla non come una sconfitta, ma come parte del viaggio. E in quel viaggio, essere presenti fino alla fine può diventare l’ultimo, profondo atto d'amore.

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