Il Dolore → Persistente o Cronico

Essi consistono nella reazione del paziente ai sintomi e agli impedimenti imposti dalla malattia o dalle terapie, nell’impatto della malattia sulle relazioni con gli altri ed in eventuali ripercussioni sul lavoro o sui progetti di vita.

Le patologie che comportano dolore cronico sono particolarmente invalidanti in quanto il dolore influenza ogni aspetto della vita del paziente: la percezione del proprio corpo diviene un’esperienza negativa, l’autonomia è limitata negli spostamenti o talvolta anche nella cura di sé, le abitudini lavorative e sociali sono spesso stravolte ed è piuttosto comune la tendenza ad isolarsi dagli altri.

Il dolore cronico è fortemente correlato alla presenza di disturbi dell’umore, spesso dello spettro depressivo (“ Pain” riporta diverse ricerche che correlano il dolore cronico al Disturbo Depressivo Maggiore dal 33% al 57.1%) ma anche a disturbi d’ansia (nella misura del 35% della popolazione con dolore cronico contro il 18% riscontrato nella popolazione generale) ed ai disturbi dell’adattamento (che si delineano come reazioni al trauma della perdita di un’immagine di sé “sana”, “abile” ed “attiva”) ma l’insorgenza di queste psicopatologie potrebbe essere ostacolata già dal momento della diagnosi algologica.

Diagnosi attraverso il DSM in pazienti con dolore cronico. Tratto da McWilliams et al. Pain, 2003

 DIAGNOSI  PAZIENTI CON DOLORE CRONICO (n=382)  POPOLAZIONE GENERALE (n=5495)
Disturbi dell'Umore 83 (21.7%) 551 (10%)
Depressione 77 (20.2%) 510 (9.3%)
Distimia 20 (5.2%) 128 (2.3%)
Disturbi d'ansia 134 (35.1%) 992 (18.1%)
Disturbo d'ansia generalizzata 28 (7.3%) 144 (2.6%)
Disturbo da ADP con Agorafobia 25 (6.5%) 103 (1.9%)
Fobia Semplice 60 (15.7%) 456 (8.3%)
Fobia Sociale 45 (11.8%) 428 (7.8%)
Agorafobia con o senza ADP 32 (8.4%) 182 (3.3%)
Disturbo post-traumatico da Stress 41 (10.7%) 182 (3.3%)


La nascita dei reparti di Medicina del Dolore riconosce il diritto ad un’esistenza senza sofferenze fisiche evitabili ma determina la necessità di uno spazio per il paziente in cui elaborare la propria sofferenza psicologica, aiutandolo a riconoscere determinate reazioni disadattive alla malattia organica, la malattia dolore appunto, il cui impatto psicologico è ancora, inspiegabilmente, sottovalutato.

Ma la presenza di uno psicologo all’interno di un reparto di Medicina del Dolore non ha risposto solo al bisogno di un approccio più attento al benessere dei pazienti ma anche alla necessità di poter meglio definire, valutare e quantificare l’esperienza dolorosa per poter raggiungere risultati più efficaci “con” il paziente.

Il dolore è, infatti, una percezione estremamente soggettiva in quanto la soglia del dolore è diversa in ognuno di noi; esso è definito come “una spiacevole esperienza sensoriale ed emotiva associata ad un danno tissutale attuale o potenziale” (International Association for the Study of Pain, IASP) ed è dunque determinato non solo dalle modificazioni conseguenti al danno tissutale ma anche dall’interpretazione personale di quanto il danno è lesivo.

Nella misurazione del dolore è consigliabile dunque utilizzare un approccio sia soggettivo che oggettivo. “Le variabili del dolore, come intensità, frequenza e qualità sono valutabili con metodi soggettivi come l’autodescrizione. L’invalidità, espressa come mancanza di movimento, incapacità lavorativa o difficoltà nelle relazioni interpersonali, e certi atteggiamenti associati al dolore che si esprimono con smorfie facciali, vocalizzazione e atteggiamenti posturali, possono essere facilmente analizzati e misurati. Possono essere quantificati oggettivamente gli effetti della terapia o di altri interventi. (…)

“Poiché il dolore è un’esperienza personale, l’unico modo per il cui il medico può esaminare un paziente affetto da dolore è:

  1. fondarsi sulla rappresentazione che il paziente fa delle caratteristiche o degli effetti del proprio dolore (autodescrizione).
  2. considerare il comportamento derivato (osservazione del comportamento)
  3. misurare i parametri fisiologici che ritiene caratteristici di un paziente affetto da dolore (valutazioni fisiologiche)” (A. De Nicola “Misurazione del dolore”).


Abbiamo finora parlato di misurazione del dolore; è importante però distinguere la misura del dolore (measure) ovvero l’applicazione di un determinato strumento metrico ad una specifica componente del dolore (spesso l’intensità), dalla valutazione del dolore (assessment) che prende in considerazione le diverse componenti dell’esperienza dolorosa e le loro interazioni, l’elaborazione cognitiva, il vissuto affettivo di malattia, gli aspetti relazionali, l’impatto sulla vita quotidiana etc.
La batteria di questionari somministrati ai pazienti al momento del ricovero ed a un mese dalla dimissione (per il follow up dei risultati terapeutici) risponde a questa necessità di un approccio più complesso e multidimensionale al dolore che si traduca in indicazioni terapeutiche individualizzate e specifiche.

Il lavoro dello psicologo all’interno dell’ equipe del reparto di Medicina del Dolore consiste dunque:

  • in uno screening psicodiagnostico del paziente al fine di rilevare eventuali patologie psichiatriche che per le loro caratteristiche influiscono sulla scelta terapeutica (ad esempio nel caso di un dolore di origine psicogena o della prevalenza della componente psicogena)
  • nella valutazione dell’influenza del dolore sulla vita del paziente
  • nella valutazione del ruolo che la componente emotiva gioca nel rinforzare il dolore (il rinforzo psicologico del dolore, Orlandini) dove è effettivamente presente una nocicezione che non si risolve e che, di per sé, giustifica solo il dolore persistente ma non l’amplificazione presentata dal paziente.
  • nella presa in carico, anche se solo per il periodo del ricovero, delle valenze affettive e della sofferenza psicologica del paziente, che influiscono o sono determinate dalla patologia algologica.



La consulenza psicologica fornisce infatti non solo uno spazio in cui il paziente può confrontarsi con lo psicologo riguardo i risultati dei questionari (che in psicodiagnostica è chiamata “restituzione”), ma anche un momento in cui raccontare la propria storia e la storia del dolore e spesso per la prima volta dare voce ai propri vissuti di disagio e sofferenza psicologica (vissuti di rabbia, colpa, umiliazione, desolazione).

Turk evidenzia nel titolo del suo articolo “Valuta l’individuo, non soltanto il dolore” la necessità di considerare “non solo la componente somatica (sensitiva) del dolore, ma anche l’umore del paziente, i suoi atteggiamenti, il modo in cui fa fronte al suo dolore, le sue risorse, le risposte da parte dei familiari e l’impatto del dolore sulla loro vita”.

La storia clinica, che comprende sia la storia personale del paziente sia la storia del dolore, è molto importante in quanto permette di chiarire i fattori che influenzano la sintomatologia e rivela importanti caratteristiche della personalità del paziente che influenzano la patologia algologica; i pazienti nevrotici, come ricorda De Nicola, spesso arrivano con particolareggiati appunti scritti o ricordano dettagliatamente ogni data, ora, luogo di ogni visita medica. Si può anche ipotizzare che vi sia, dietro il tentativo di alcuni pazienti di incollare alla sedia il medico raccontandogli ogni più piccolo particolare, senza permettergli di interrompere il fiume di parole, anche una malcelata aggressività…

La storia personale deve comprendere, oltre alle informazioni generali, indicazioni sul livello culturale (che sembra influire sulla terapia se non altro per la compliance terapeutica intesa come osservanza della terapia) la professione ed il lavoro attuale (in quanto i lavoratori traggono maggiori benefici dalla terapia anche perché più motivati ad uscire da una condizione di “malattia”), lo stato civile e la valutazione del rapporto coniugale e dell’ambiente familiare (che fornisce indicazioni sulle risorse del paziente intese sia come assistenza fisica che come aiuto affettivo e morale); anche l’origine etnica, la religione e lo stato sociale sono ulteriori fattori che influenzano la risposta al dolore e l’efficacia terapeutica. In particolare in alcune culture, o religioni, il dolore è vissuto come una punizione a cui è ingiusto sottrarsi, oppure l’espiazione per i propri peccati; inoltre chi svolge una vita sacrificata spesso presenta una soglia del dolore più alta rispetto a chi vive agiatamente.

La storia del dolore comprende il tempo e la modalità in cui la patologia è iniziata, in quanto un inizio graduale della patologia permette all’individuo di adattarsi gradualmente ed attivare delle strategie, mentre la stessa disabilità acquisita per un incidente può rappresentare un trauma a cui il paziente non sa reagire. La localizzazione del dolore e la sua descrizione forniscono importanti indicazioni sulla natura del dolore ma spesso anche su alcune caratteristiche di personalità del paziente; inoltre la durata e la causa di comparsa sono fattori che influenzano l’alleanza terapeutica con l’equipe medica: ad esempio una patologia determinata da un intervento chirurgico porterà ragionevolmente il paziente ad un atteggiamento aggressivo e di diffidenza, che si potrà ripercuotere sull’efficacia stessa dell’intervento; le caratteristiche del dolore (l’intensità e la qualità), la risposta del dolore alle attività, gli eventuali sintomi associati e le situazioni che migliorano o peggiorano la sintomatologia sono altri aspetti da indagare nell’intervista al paziente con dolore persistente e/o cronico (De Nicola, 1999).

Altri fattori importanti da considerare, oltre ad una dettagliata anamnesi medica e terapeutica (che comprende le terapie precedenti ed i precedenti interventi chirurgici, gli esami di controllo ed i farmaci assunti, i precedenti ricoveri, le visite ed i test diagnostici) è l’eventuale dipendenza da sostanze di abuso (tra cui alcool, fumo e farmaci) in quanto l’interazione di tali sostanze con la terapia può precludere alcuni interventi, ed il tipo di lavoro svolto dal paziente.

La presenza di eventuali procedimenti legali in corso o l’attesa di compensi e pensioni di invalidità può portare il paziente ad essere inconsapevolmente meno interessato a migliorare; è vero altresì che le condizione di dolore persistente e cronico hanno diritto alla certificazione per cui è necessario considerare ogni specifica situazione con onestà intellettuale e tatto dall’equipe. Anche le aspettative del paziente sono importanti in quanto è risaputo che le aspettative irrealistiche comportano il non riconoscere i piccoli miglioramenti. (De Nicola, 1999)

Tutte queste informazioni unite alle metodiche fisiche, radiologiche e di laboratorio permetterebbero di rispondere a quelle tre domande fondamentali che dovrebbero guidare la valutazione di tutte le persone che riferiscono dolore (D. Turk):

  • Qual è l’entità della malattia o dell’infortunio, o dell’impedimento fisico, del paziente?
  • Qual è la dimensione della malattia? Cioè, fino a che punto soffre il paziente, è disabile ed è incapace di svolgere le sue attività usuali?
  • Appare appropriato il comportamento del paziente di fronte alla malattia o all’infortunio? Ci sono prove che i sintomi sia amplificati per motivi psicologici o sociali?



La considerazione dell’influenza del dolore:

  • sull’attività lavorativa,
  • sulla vita relazionale e sull’umore,
  • sulle attività sociali,
  • sulla cura di sè
  • sul sonno.

mette maggiormente in luce eventuali disturbi psicologici (ansia, depressione) o comportamenti problematici (isolamento, ricerca di attenzione) e vissuti di sofferenza (umiliazione e vergogna del proprio corpo) permettendo di correlarli alla patologia algologica e valutando non solo l’impatto che la malattia-dolore ha sul paziente, ma anche l’eventuale rinforzo psicologico che tali problematiche giocano sulla percezione del dolore, spesso amplificandola.


Nella nostra equipe di Medicina del Dolore durante il ricovero ci avvaliamo della scala numerica verbale (VNS O NRS) che è una semplice scala di misurazione del dolore in cui al paziente è chiesto di scegliere un numero fra 0 e 10 per rappresentare il livello di dolore e dove per 0 si intende “nessun dolore” mentre il 10 rappresenta “il peggior dolore immaginabile”; è dato un differente punteggio per la situazione di riposo e quella di movimento; se il dolore affligge in modo differente più di un distretto corporeo (ad es. dolore alla gamba e dolore alla schiena che differiscono per eziologia) è preferibile mantenere questa distinzione con differenti misurazioni.

Il Middlesex Hospital Questionnaire elaborato da Crown e Crisp e dunque conosciuto anche come Crown Crisp Experiental Index è un questionario di personalità autosomministrabile, a scale cliniche costituito da 48 domande a risposta multipla, che evidenzia il punteggio del paziente lungo la scala dell’ansia “libera” (senza causa apparente, quella che solitamente associamo al disturbo da Attacchi Di Panico o ad una personalità particolarmente apprensiva), dell’ansia “fobica” (che indaga rispetto a specifiche cause che generano ansia e comportamenti di evitamento), dell’ossessività (sia dal punto di vista del pensiero- idee ossessive- che dal punto di vista del comportamento- rituali, coazione a ricontrollare le cose fatte, etc.) dell’ansia somatica (non riconosciuta dal paziente come ansia, ma tradotta in termini somatici e lamentata come tensione muscolare, palpitazioni, disturbi respiratori e digestivi etc), della depressione (rilevata dalla presenza di tristezza pervasiva, difficoltà di concentrazione, sconforto) ed estroversione, che nella definizione classica è un tratto di personalità normale (non-patologico) ma che nel questionario individua affettività superficiale e labile, dipendenza dagli altri. Il M.H.Q. può essere somministrato al momento del ricovero come screening iniziale del paziente dimostrandosi “uno strumento di rapida applicazione (5/10 minuti) che possiede oltre alla “oggettività” (essere somministrabile da altri) anche le due fondamentali caratteristiche psicometriche della “validità” (essere adatto a misurare ciò che si è inteso misurare) e della “attendibilità” o “costanza” (avere la capacità di dare nello stesso individuo gli stessi risultati anche se applicato in momenti diversi, purchè non preceduti da cambiamenti di vita significativi, o da esaminatori diversi)” (R. Nardella “Un questionario di personalità a scale cliniche: il Middlesex Hospital Questionnaire M.H.Q., 1970)

L’Oswestry Disability Questionnaire (ODQ) è un questionario autovalutativo utilizzato per misurare l’incidenza del dolore sulla vita del paziente; creato per il dolore lombare, si è mostrato utile anche per la valutazione del dolore cronico che interessa altri distretti. Si divide in 10 sezioni che presentano cinque affermazioni ciascuna, tra cui il paziente sceglierà quella che più rappresenta la sua situazione, e che prendono in considerazione: l’intensità del dolore, la capacità di gestire la propria igiene personale, di sollevare pesi, nel camminare, nella posizione seduta ed in piedi, e l’influenza del dolore nel sonno, nella vita sociale e nella capacità di spostamento.

Il Questionario Italiano del Dolore (QUID) è costituito da una scala di intensità del dolore presente (PPI Present Pain Intensity) che identifica l’intensità del dolore su cinque punti ( lieve, moderato, forte, fortissimo, ad atroce) e da una scala intervallare semantica costituita da 42 descrittori del dolore, distribuiti in quattro classi principali (sensoriale, affettiva, valutativa e mista). Le prime applicazioni cliniche del QUID (De Benedittis a et al. 1988, De Benedittis e Lorenzetti 1990) hanno confermato la sua validità diagnostica ed il suo utile ruolo nel monitoraggio terapeutico delle sindromi algologiche.

“Sul piano della diagnostica algologica, il QUID si è rivelato capace di discriminare, sulla base di specifiche costellazioni semantiche, tra sindromi dolorose differenti con un coefficiente medio di precisione del 74.8% (De Benedittis e Lorenzetti, 1990) e questo valore è molto prossimo al rateo del 77% riportato da Dubuisson e Melzack (1976) utilizzando il Mcgill Pain Questionnaire, ma deve essere considerato anche migliore di quello riportato col MPQ, tenendo conto che è stato ottenuto su una popolazione di pazienti tre volte maggiore di quella utilizzata da Debuisson e Melzack – ed impiegando i singoli descrittori e non le sottoclassi (molto meno numerose, ma meno specifiche)”(De Benedittis, Corli, Massei, Nobili, Pieri “QUID Questionario Italiano del Dolore”manuale 1993)

Nel monitoraggio terapeutico, il Quid si è rivelato uno strumento adatto a monitorare l’efficacia globale dell’effetto terapeutico e di valutare anche l’impatto di questo sulle singole dimensioni dell’esperienza dolorosa: sensoriale, affettiva, valutativa (De Benedittis, Lorenzetti 1990).

Per lungo tempo le discipline mediche e quelle psicologiche hanno cercato di tracciare una linea di demarcazione tra patologie organiche e mentali, esasperando talvolta le posizioni teoriche al punto da violare la natura stessa dell’uomo in cui mente-corpo vivono di relazioni reciproche.

Ricordando Schultz (che ha ideato la tecnica di rilassamento psicocorporea denominata Training Autogeno) “Anche l’esistenza di disturbi organici strutturati non costituisce di per sè una controindicazione alla psicoterapia; vien anzi da chiedersi fino a che punto, accanto alle irreversibili deficienze del soma, giocano nella malattia organica dei fattori funzionali che sommandosi con i precedenti si offrono a noi caratterizzando il quadro sindromico” (J.H.Schultz)

Questa reciprocità rende dunque necessario nella valutazione del dolore rilevare quella componente emotiva di sofferenza psicologica correlata al dolore cronico, che può essere una conseguenza alle gravi limitazioni imposte dalla malattia ma che può anche agire attivamente sulla percezione soggettiva del dolore (rinforzo psicologico del dolore e vantaggio secondario di malattia ).

Talvolta questa reciprocità può ricollegarsi al concetto di malattia “appendiabiti”, come evidenziato nella disabilità in cui l’ handicap, soprattutto se fisico, ha la funzione di “appendiabiti” in cui “appendere i propri conflitti”: la persona disabile rischia dunque di rinunciare all’azione o finisce per isolarsi dal contesto sociale adducendo come motivazione la disabilità; ma in taluni casi la disabilità non incide così fortemente e talvolta addirittura determina una minore invalidità rispetto ad altri conflitti interni. Nel dolore che rende disabili si possono ugualmente incontrare pazienti che riconducono il proprio disagio psicologico o le proprie difficoltà relazionali alla patologia algologica che risulta così non solo influenzata ma rinforzata.

Molto importante nel lavoro con il paziente con dolore è inoltre la valutazione della capacità di comunicare il proprio disagio psicologico; con “alexitimia” si intende l’ incapacità di mentalizzare, cioè di trasferire in linguaggio, in metafore, in espressioni linguistiche i propri sentimenti, stati d’animo. R.Rossi nel trattato “La depressione mascherata” a cura di Pancheri chiarisce che questa incapacità di esprimere i vissuti è legata a “una difficoltà nel tradurre i vissuti corporei in parole, lessico ed immagini, tramite una sorta di operazione creativa linguistica.” Se lo “strumento traduttore”- funzione del preconscio- manca, “il vissuto del corpo non può che esprimersi come dolore, senso di peso gastrico, oppressione al torace, stanchezza fino al malfunzionamento diretto del corpo, mentre termini come tristezza, essere giù, essere disperati sono sconosciuti” (R.Rossi, “L’esile maschera. Psicopatologia e psicodinamica della depressione mascherata” in “La depressione mascherata” a cura di Pancheri, 2006). Sono questi i casi in cui più facilmente riscontriamo una componente psicogena del dolore, che determina, amplifica o contribuisce a mantenere una patologia dolorosa.

Provocatoriamente, Rossi si chiede se più spesso non sia lo psichiatra, o il medico, ad essere alessitimico, “privilegiando il somatico e perdendo di vista la vita interiore del paziente e avendo scarso interesse verso i sintomi depressivi, quando non siano del tutto evidenti”.

In realtà basterebbe ritornare alle origini, a Ippocrate, che con la sua massima “la medicina senza lo psichico è un rudimento” evidenziava già allora la necessità per il medico di conoscere i vissuti ed il contesto sociale e ambientale in cui il paziente è immerso.


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