Daimon e karma - Il destino dell'anima tra morte e rinascita

“Quando tutte le anime si scelsero la loro vita nell’ordine che la sorte aveva stabilito, si presentavano a Lachesi; essa assegnava a ciascuna il demone[1] che l’anima stessa aveva scelto perché le fosse custode durante tutta la vita e desse adempimento al destino prescelto. Il demone anzitutto conduceva l’anima da Cloto per ratificare, sotto la sua mano e il vorticoso girar del fuso, il destino che aveva scelto dopo il sorteggio. Toccato il fuso, il demone la conduceva poi alla trama che Atropo per rendere immutabile il destino una volta filato. Di qui, senza voltarsi, il demone e l’anima andavano sotto il trono di Ananke[2] e passavano dall’altra parte”.[3]

 

Ogni anima, incarnandosi, non fa che porre in atto un destino già scelto e tracciato; un destino che, in potenza, è già presente, immutabile e che la nascita dell’individuo, la sua discesa nel corpo, non fa che reificare e vivificare. Questo è quanto asserisce il mito di Er, fornendo una peculiare risposta ad alcune delle domande esistenziali che da sempre tormentano gli uomini alla ricerca di una chiave segreta per capire i significati occulti del proprio vivere. La chiave che dà Platone è questa: dopo la morte, ogni anima è destinata a reincarnarsi, scegliendo, in un luogo al di là dello spazio e del tempo, le caratteristiche fondamentali di quella che sarà la propria nuova vita terrena. E la stessa scelta della vita a venire è paradigmatica dell’ambigua ma lineare duplicità del destino: nella scelta, infatti, libero arbitrio e necessità si avvicinano fino a coincidere, al punto che ognuno sceglie – liberamente – proprio la vita, quella e solo quella, a cui era predestinato, in un gioco di Disegni concentrici in cui causalità e teleologia si disperdono verso l’infinito di due opposti (o convergenti?) orizzonti.

A due millenni di distanza, il mito di Er torna ad essere attuale attraverso la rilettura che ne dà, nella sua “teoria della ghianda”, lo psicologo e psichiatra (o meglio, anti-psichiatra) americano James Hillman.

Hillman rifiuta le più comuni correnti della psicologia secondo cui ognuno di noi è semplicemente il risultato di una serie di interazioni fra i dati genetici iscritti nel DNA, l’educazione familiare e l’ambiente sociale:

 

“Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo “me”. Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio fra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali (¼).

Più in profondità, tuttavia, noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente – che è come dire ignorano – il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana (¼), il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta”.[4]

 

Secondo Hillman, non sono i cromosomi, dunque, né la famiglia, né l’istruzione, né la società a plasmare l’individuo incanalando la sua vita entro determinati binari: le tracce di quegli stessi binari erano infatti già state solcate dall’anima prima dell’incarnazione, esattamente come sosteneva Platone:

 

“Ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più nota, la Repubblica. In breve, l’idea è la seguente:

Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino.

Secondo Plotino (205-270 d.C.), il maggiore dei filosofi neoplatonici, noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all’anima e corrispondenti, come racconta il mito, alla sua necessità. Come a dire che la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta deliberatamente dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile, è perché ho dimenticato”.[5]

 

Le apparenti casualità o necessità che caratterizzano la vita, il destino di ognuno, quindi, non sono altro che “vocazioni”, compiti ai quali consapevolmente abbiamo attirato noi stessi, anche se ora ne siamo immemori. E, verso queste prove che abbiamo scelto per noi, siamo spinti da una forza invisibile alla quale possiamo forse opporci solo apparentemente o momentaneamente, ma mai resistere fino alla fine, poiché è impossibile andare contro il proprio destino.

Una o più idee ricollegabili a questa intuizione platonica hanno attraversato, spesso sotterraneamente, molte tradizioni del pensiero occidentale, come riconosciuto dallo stesso Hillman:

 

“Si è cercato per secoli il termine più appropriato per questo tipo di “vocazione”, o chiamata. I latini parlano del nostro genius, i greci del nostro daimon e i cristiani dell’angelo custode. I romantici, Keats per esempio, dicevano che la chiamata veniva dal cuore, mentre l’occhio intuitivo di Michelangelo vedeva un’immagine nel cuore della persona che stava scolpendo. I neoplatonici parlavano di un corpo immaginale, ochema, che ci trasporta come un veicolo, che è il nostro personale supporto o sostegno. C’è chi fa riferimento alla dea Fortuna, chi a un genietto, a un cattivo seme o genio malefico. Per gli egizi poteva essere il ka o il ba, con il quale si poteva dialogare”.[6]

 

Le concezioni della vita come realizzazione di un destino già scritto, del destino come “scelta necessaria” dell’anima disincarnata, dall’esistenza di forze – spesso personificate – che impongono all’anima di seguire il proprio destino e le proprie scelte, sono tutte idee rintracciabili anche nelle filosofie orientali, fin dai loro albori.

Nell’induismo, ad esempio, si parla di un principio spirituale denominato Jiva, che, così come in Platone, preesiste alla vita individuale fisica, ed è depositario del cammino esistenziale dell’uomo:

 

“In India, la credenza più diffusa sull’Io, l’individuo, è, a prima vista paragonabile a quella espressa nei catechismi cristiani: “l’uomo è composto di un corpo materiale e di un’anima immortale”.

Tuttavia, lo Jiva, principio vitale che sopravvive al corpo, come lo intendono gli indiani, differisce abbastanza dall’anima e ha un ruolo differente. Mentre l’anima, per la credenza occidentale, nasce con l’individuo, lo Jiva molto più importante del corpo umano precede la forma fisica e compare nel mondo con la nascita dell’essere umano. Infatti, esiste da un periodo di tempo inconcepibile, ed ha viaggiato, di reincarnazione in reincarnazione, fino al momento in cui è apparso sulla terra con sembianze umane.

La natura della condizione umana che gli tocca, non è un caso fortuito. È il risultato di una serie di cause inflessibilmente conseguenti ai loro effetti. Queste cause sono gli atti fisici e mentali compiuti, nel passato dai corpi degli individui che lo Jiva ha successivamente abitato.”[7]

 

Il principio vitale, dunque, esiste prima della vita fisica e, proprio come una ghianda che contiene in sé in potenza la quercia, anch’esso porta in sé il carattere e le vicissitudini che caratterizzeranno l’esistenza terrena. Tali carattere e vicissitudini, in India come in Platone, sono determinati da quanto l’anima ha compiuto nella vita precedente. Non si tratta tanto di un premio o di una punizione, quanto di una lezione. Infatti, l’anima, nel corso della vita a venire, andrà ad imparare – per migliorarsi – ciò che nelle vite precedenti ha dimostrato di non essere stata in grado di apprendere. Questo aspetto migliorativo piuttosto che punitivo è il vero significato dell’idea di karma.

La concezione del karma è sicuramente uno dei punti basilari del pensiero induista e, successivamente, buddhista:

 

“La legge del karma nel mondo morale corrisponde a quella che nel mondo fisico è la legge dell’uniformità; è la legge della conservazione dell’energia morale (¼). Secondo il principio del karma non c’è niente di incerto o arbitrario nel mondo morale: raccogliamo ciò che abbiamo seminato. Il buon seme procura buoni frutti; quello cattivo, frutti cattivi. Ogni azione, per piccola che sia, produce effetti sul carattere. L’uomo sa che alcune tendenze all’azione che ora esistono in lui sono il risultato di una scelta cosciente o intelligente da parte sua. Le azioni coscienti tendono a diventare abitudini inconsce, ed è naturale che le tendenze inconsce che troviamo in noi stessi siano considerate l’effetto di passate azioni coscienti. Non possiamo arrestare il processo dell’evoluzione morale più di quanto possiamo arrestare il flusso delle maree o il corso delle stelle. Tentare di scavalcare la legge del karma è futile quanto tentare di saltare oltre la propria ombra. È un principio psicologico che la nostra vita porta dentro di sé, una registrazione che il tempo non può confondere né la morte cancellare (¼).

L’uomo diventa virtuoso con le opere buone e malvagio con le cattive (¼). L’uomo è una creatura dotata di volontà. Secondo quanto egli crede in questo mondo, così sarà dopo la sua dipartita (¼). La ricompensa dell’azione produce il samsara [8] con nascita e morte, senza inizio e senza fine. La teoria del karma abbraccia uomini e dèi, animali e piante (¼).

Ciò che ci lega alla catena di nascite e morti non è l’azione in quanto tale, ma l’azione egoistica. In un epoca in cui l’individuo era sempre pronto a sottrarsi alla responsabilità di quanto faceva scaricandola sulla provvidenza, sulle stelle o su qualche altro essere, la dottrina del karma affermò che l’uomo si incatena da se stesso (¼). Ciò che incombe su di noi non è un oscuro destino, ma il nostro passato”.[9]

 

L’uomo dunque è il frutto del seme del karma: il pensiero indiano, nella stessa terminologia, è qui avvicinato dalla teoria della ghianda di Hillman, secondo cui ogni vita è il germoglio di un seme che è presente prima della vita.

Non dissimile è, in proposito, il pensiero buddhista, secondo cui l’illusorio sé dell’uomo è composto dai cosiddetti cinque skandha o gruppi di attaccamento, ma anche da qualcosa di ineffabile trascendente rispetto ad essi:

 

“Il Buddha chiama il corpo, la sensazione, la percezione, le attività della mente e la coscienza, che possiamo afferrare come la totalità di tutto [l’insieme psicofisico che costituisce l’individualità umana], i cinque gruppi di attaccamento (¼). Il processo della nascita consiste appunto nell’interazione, ossia nel divenire di questi cinque gruppi con il corpo, quale loro base (¼)”.[10]

 

“Se siamo costituiti dai cinque gruppi, se la nostra essenza consiste in essi, dovrebbero allora essere per noi la cosa più familiare e naturale del mondo. Essi non sarebbero nient’altro che noi stessi, il nostro io, e quindi assolutamente riconoscibili e definibili. Ma (¼) consideriamo con quanta curiosità non solo il bambino, ma anche l’adulto tratta e osserva il proprio corpo nella sua vita, se ne stupisce come fosse un enigma, un mistero, si comporta esattamente come se si fosse imbattuto improvvisamente in qualcosa di assolutamente strano con cui non ha avuto prima d’allora niente a che fare. (¼) L’uomo riflessivo (¼) s’interroga sulle sue facoltà sensoriali, sulle proprie sensazioni, sui propri stati d’animo e pensieri: “Com’è possibile che io possieda tutte queste cose? Devo averle realmente?”. Una domanda che sarebbe pressoché impossibile, se egli non fosse altro che questi stessi processi (¼). Tuttavia tale stupore esiste, e non soltanto il semplice stupore della coscienza di se stessa, bensì lo stupore di chi si meraviglia degli altri quattro gruppi in cui è compreso e, soprattutto, della stessa coscienza, dietro cui deve stare. Si tratta del grande stupore di come ho avuto “questo corpo dotato di sensorialità e coscienza” o, per esprimersi in parole povere, come sono arrivato a questo mondo. È il grande stupore che costituisce la fonte principale di ogni religione e di ogni filosofia (¼).

Si noti come questo sentimento fondamentale dell’umanità si rifletta anche nella lingua, che esprime più direttamente la percezione immediata: “vengo al mondo”, “lascio il mondo”, “mi piace la vita”, “sono attaccato alla vita”, “mi tolgo la vita”. In queste espressioni si può notare che la vita non è nient’altro che i cinque gruppi in azione. Come potrei essere attaccato alla vita e, soprattutto, togliermi la vita, se non fossi io stesso vita, se non consistessi cioè nei cinque gruppi? Soprattutto togliersi la vita sarebbe in questo caso impossibile, così come sarebbe impossibile per la mano staccarsi dal braccio (¼). Ma come potrei sopprimere il mio vero sé, ciò in cui di fatto consisto, sia quel che sia, dal momento che esso costituisce la mia essenza, per essere ciò che sono? (¼) Posso soltanto gettare via o sopprimere ciò di cui non consisto e che mi è, dunque, estraneo. Questo pensiero, a ben considerare, basterebbe a far comprendere che io sono qualcosa che sta dietro la vita, dietro i cinque gruppi, qualcosa che si attacca e aderisce alla vita e ai cinque gruppi che costituiscono la personalità, come a qualcosa di estraneo che considero desiderabile”.[11]

 

L’esistenza fisica è perciò, nel buddhismo, qualcosa a cui il principio spirituale (un sé, peraltro, privo di reale sostanza), aderisce perché spinto dal desiderio, dalla necessità, dalla legge del karma.

La vita, in oriente come in Platone come in Hillman, è dunque destino che l’anima si autoimpone, scelta consapevole ed ineluttabile che l’essenza spirituale individuale compie, spinta dalla necessità e dal desiderio di migliorarsi, fino a ritornare all’Unità della Potenza primigenia originaria che l’ha posto in essere.

Così come il karma è una necessità e al tempo stesso una pulsione che porta l’anima individuale a reincarnarsi in un certo modo per diventare migliore, così, in Platone e Hillman, il daimon è ciò che sta alla base del proprio progetto di vita e consente di visionarlo e sceglierlo.

Il daimon è dunque Destino, scelta di vita.

Questo, almeno, è uno dei due significati fondamentali del daimon.

L’altro significato, come vedremo, è riconducibile all’esistenza di quella forza sottile, impalpabile ma ineludibile, che spinge l’uomo alla realizzazione del suo Destino e delle sue scelte: una forza che in diverse culture è stata ipostatizzata e dipinta con un carattere angelico o demoniaco.

Nei suoi scritti, infatti, Hillman usa

 

“in maniera pressochè intercambiabile molti dei termini che designano la nostra ghianda – immagine, carattere, fato, genio, vocazione, daimon, anima, destino”.[12]

 

Daimon come Destino, dunque: questo è il significato primo di quella ghianda da cui ognuno di noi dipana la propria esistenza. Un destino che ognuno serba nell’animo prima di nascere.

 

“Ciascuna vita è formata dalla propria immagine, unica e irripetibile, un’immagine che è l’essenza di quella vita e che la chiama a un destino. In quanto forza del fato, l’immagine ci fa da nostro genio personale, da compagno e da guida memore della nostra vocazione.

Il daimon svolge la sua funzione di “promemoria” in molti modi. Ci motiva. Ci protegge. Inventa e insiste con ostinata fedeltà. Si oppone alla ragionevolezza facile ai compromessi e spesso obbliga il suo padrone alla devianza e alla bizzarria, specialmente quando si sente trascurato o contrastato. Offre conforto e può attirarci nel suo guscio, ma non sopporta l’innocenza. Può far ammalare il corpo. È incapace di adattarsi al tempo, nel flusso della vita trova errori, salti e nodi – ed è lì che preferisce stare. Possiede affinità con il mito, giacché lui stesso è un essere del mito e pensa in forma mitica.

Il daimon è dotato di prescienza – non dei particolari, forse (¼), perché non ha il potere di manipolare gli eventi per conformarli all’immagine e adempiere la vocazione. La sua prescienza, dunque, non è perfetta ma limitata, riguarda piuttosto il senso generale della vita in cui si incarna. Inoltre, il daimon è immortale, nel senso che non ci lascia mai e non può essere liquidato dalle spiegazioni di noi mortali.

C’entra molto con i sentimenti di unicità, di grandezza, e con l’inquietudine del cuore, con la sua impazienza, la sua insoddisfazione, i suoi struggimenti. Ha bisogno della sua parte di bellezza. Vuole essere visto, ricevere testimonianza, riconoscimento, soprattutto dal suo padrone. È lento ad ancorarsi e svelto a volare. Poiché non può dimenticare la sua vocazione divina, si sente insieme esule sulla terra e partecipe dell’armonia del cosmo. Le immagini e le metafore sono la sua lingua madre, innata, la stessa che costituisce la base poetica della mente e rende possibile la comunicazione con tutti gli uomini e tutte le cose”.[13]

 

Il destino che il daimon racchiude è una scelta a cui l’anima tende per migliorarsi, esattamente come avviene secondo la dottrina del karma. Lo stesso Platone, nel mito di Er, parla infatti esplicitamente di metempsicosi:

 

“Le anime, che provengono da vite precedenti e soggiornano in una sorta di aldilà, hanno ciascuna un destino da compiere, una parte assegnata (moira), che corrisponde in un certo senso al carattere di quell’anima. Per esempio, racconta il mito, l’anima di Aiace Telamonio, il valoroso e irruente guerriero, scelse la vita di un leone, mentre quella di Atalanta, la vergine famosa per la velocità nella corsa, scelse il destino di un atleta e un’altra anima quella di un nobile artigiano. L’anima di Ulisse, memore delle prove e dei travagli patiti, “e guarita di ogni ambizione, andò a lungo in giro alla ricerca di una vita di uomo solitario senza occupazione, e la trovò a stento, gettata in un canto e negletta dagli altri¼

“Quando tutte le anime si erano scelte la vita, secondo che era loro toccato, si presentavano davanti a Lachesi [lachos, “parte, porzione di destino”]. A ciascuna ella dava come compagno il genio [daimon] che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto”. Il daimon conduce l’anima dalla seconda delle personificazioni del destino, Cloto [klotho, “filare, volgere il fuso”]. “Sotto la sua mano e il volgere del suo fuso, il destino [moira] prescelto è ratificato”. (Gli viene impresso il suo particolare effetto?). “¼ quindi il genio [daimon] conduceva l’anima alla filatura di Atropo [atropos, “che non si può volgere all’indietro, irreversibile”], per rendere irreversibile la trama del suo destino.

“Di lì, senza voltarsi, l’anima passava ai piedi del trono di Necessità” (Ananke), o, come traducono alcuni, “del grembo” di Necessità.

Dal testo non risulta chiaro in che cosa consista esattamente il kleros lasciato cadere ai piedi delle anime affinché ciascuna scelga il proprio. Il termine kleros può avere tre significati strettamente connessi: a) pezzo di terra, come il nostro lotto di terreno e, per estensione, b) lo spazio, la parte assegnata nell’ordine generale delle cose e c) eredità, ciò che per diritto ci viene in quanto eredi.

Io interpreto i kleroi del mito come immagini. Poiché ciascuno di essi è particolare e compendia lo stile di tutto un destino, l’anima percepirà intuitivamente un’immagine che abbraccia l’insieme di una vita tutto in una volta. E sceglierà l’immagine che la attrae: “Ecco quella che voglio, che è la mia giusta eredità”. La mia anima sceglie l’immagine che io vivo.

Il testo platonico chiama questa immagine della vita paradeigma, “modello”, come viene di solito tradotto. Dunque quella che ricevo è l’immagine che è la mia eredità, la porzione assegnatami nell’ordine del mondo, il mio posto sulla terra, condensata in un modello che è stato scelto dalla mia anima, perché nelle equazioni del mito il tempo non entra (¼).

Per dipanare quell’immagine occorre tutta la vita. Se pure è percepita tutta in una volta, la si comprende solo lentamente. Sicché l’anima possiede un’immagine del proprio destino, che il tempo può rendere manifesta soltanto come “futuro”. Che “futuro” sia dunque un altro nome per indicare il destino, e le nostre preoccupazioni circa “il futuro” fantasie del destino?

(¼) Plotino, il più grande dei filosofi del neoplatonismo, così sintetizza il mito platonico: “Il fatto di venire al mondo, di entrare in questo corpo particolare, di nascere da questi genitori e nel tal luogo, e in generale ciò che chiamiamo le condizioni esteriori della nostra vita¼ tutti gli eventi formano una unità e sono per così dire intessuti assieme”. Ciascuna anima è guidata dal daimon a quel particolare corpo e luogo, a quei dati genitori e condizioni di vita, per la forza di Necessità; ma noi non abbiamo il minimo sentore di tutto questo, perché il suo ricordo è stato cancellato nella pianura dell’oblio”.[14]

 

Non solo in Platone e poi Hillman, ma in tutta l’Asia si può ritrovare una filosofia secondo cui il Destino – sia quello individuale, microcosmico, sia quello universale, macrocosmico – è l’espressione di una storia già scritta, delineata, mossa da principi di armonia tutt’altro che casuali. D’altronde, se esiste un destino, un disegno per il singolo, è solo perché esiste un Destino, un Disegno per il Tutto: l’eredità, la porzione di destino dell’individuo rappresenta la sua parte nel grande ordine dell’Universo. Il Tutto e il particolare – i singoli individui – si muovono all’insegna di un’armonia sincronica. Questo, il pensiero cinese l’aveva già intuito oltre 3.000 anni fa, come aveva sottolineato Carl Gustav Jung nella sua introduzione all’ I King, il millenario e oracolare “Libro dei Mutamenti”:

 

“La nostra scienza è basata sulla causalità, e quest’ultima è considerata verità assiomatica (¼). La mentalità cinese, quale io la vedo all’opera nell’I King, sembra invece preoccuparsi dell’aspetto accidentale degli eventi. Ciò che noi chiamiamo coincidenza sembra essere la cosa della quale questa peculiare mentalità principalmente si interessa, e ciò che noi adoriamo come causalità passa quasi inosservato (¼). Il modo con cui l’I King è incline a considerare la realtà sembra non vedere di buon occhio i nostri procedimenti causalistici (¼). L’oggetto che interessa sembra essere la configurazione che gli eventi accidentali formano al momento dell’osservazione, e nulla affatto le ragioni ipotetiche che apparentemente rendono conto della coincidenza. Mentre la mentalità occidentale accuratamente separa, pesa, sceglie, classifica, isola, ecc., l’immagine cinese del momento contiene ogni particolare fino al più minuto assurdo dettaglio, perché l’istante osservato è il totale di tutti gli ingredienti. Accade così che quando succede che si gettino le monete [15] o si contino i 49 steli di millefoglie, questi dettagli causali entrano nel quadro dell’istante d’osservazione formandone una parte – insignificante per noi eppure colma di significato per la mentalità cinese. Da noi dire che qualunque cosa avvenga in questo momento possiede inevitabilmente la qualità peculiare per quest’ultimo sarebbe un’affermazione banale e quasi senza senso (¼). Questo non è un argomento astratto, anzi è un argomento assai pratico: vi sono certi esperti che dall’aspetto, gusto e comportamento di un vino, sapranno dire il sito della sua vigna ed il suo anno di origine; vi sono degli antiquari che sapranno informarci dell’epoca, della provenienza e dell’artefice di certi oggetti d’arte o di un pezzo di mobilio con un’accuratezza impressionante (¼). Considerando simili fatti bisogna ammettere che degli istanti possono lasciare delle tracce di lunga durata.

In altre parole: chiunque sia stato l’inventore dell’I King, era convinto che l’esagramma [16] costruito in un dato momento coincideva con questo anche nella qualità e non soltanto nel tempo. Per lui l’esagramma era l’esponente del momento in cui lo si otteneva, più ancora anzi del misuramento del tempo, in quanto lo si comprendeva come un indicatore della situazione essenziale prevalente al momento della sua origine. Questa assunzione implica un certo strano principio che io ho denominato sincronicità, concetto che formula un punto di vista diametralmente opposto alla causalità. (¼) La sincronicità considera la coincidenza degli eventi in spazio e tempo come significatore di qualche cosa di più d’un mero caso, cioè di una peculiare interdipendenza di eventi oggettivi tra di loro, come pure fra essi e le condizioni soggettive (psichiche) dell’osservatore o degli osservatori. La mentalità cinese contempla l’universo in una maniera paragonabile a quella del fisico moderno, il quale non può negare che il suo modello dell’universo è una struttura decisamente psicofisica”.[17]

 

Il Tutto e il singolo, come si diceva, agiscono in sincronia. Il destino dell’uomo dipende dal destino dell’Universo:

 

“La vitalità, le complessioni, le sorti sono diverse fra gli uomini. L’uomo (come gli altri esseri) è costituito dal sing [18] del Cielo e della Terra; dalla Terra egli deriva il suo sangue, e i suoi umori fecondi e nutritivi, come le linfe; deriva dal Cielo il suo soffio caldo e sottile; da ambedue il ritmo – battito del polso e respirazione – che mantiene o piuttosto costituisce in lui la vita. Ma è il Cielo (onorato come un padre, provvisto di autorità, lodato per la sua permanenza e la sua unità) che distribuisce le sorti, i ranghi, i periodi di vita, i destini”.[19]

 

Il cielo – come la moira, come il karma – attribuisce dunque i destini degli uomini, dando a ciascuno la parte di disegno che serve a contribuire allo svolgimento del Disegno più grande. La strada dell’individuo segue la strada del Tutto. La via del primo dipende dalla via del secondo. Così si afferma anche nel Tao Te Ching, il Libro della via e della virtù.

 

“Infatti gli esseri fioriscono e (poi) ognuno torna alla propria radice. Tornare alla propria radice si chiama la tranquillità: ciò vuol dire deporre il proprio compito. Deporre il proprio compito è una legge costante. Colui che conosce questa legge costante si chiama illuminato. Colui che non conosce questa legge costante agisce da stolto e attira su di sé la disgrazia. Colui che conosce questa legge costante è tollerante; essendo tollerante è senza pregiudizi; essendo senza pregiudizi, è comprensivo; essendo comprensivo è grande; essendo grande è (identico a) la Via”.[20]

 

“Quando un nobile superiore sente parlare della Via, si affretta a seguirla.

Quando un nobile medio sente parlare della Via, talvolta la conserva, talvolta la perde.

Quando un nobile inferiore sente parlare della Via, ci fa grandi risate.

Se non se ne ridesse, la Via non meriterebbe di essere considerata tale.

Poiché l’adagio dice:

“La Via chiara è come oscura.

La Via progressiva è come retrograda.

La via unita è come ruvida.

La virtù somma è come una valle.

Il bianco più immacolato è come contaminato.

La virtù più larga è come insufficiente.

La virtù più forte è come impotente.

La realtà più solida è come tarlata.

Il più grande quadrato non ha angoli.

Il più grande vaso è l’ultimo ad essere finito.

La più grande musica ha il suono più sottile.

La più grande immagine non ha forma.

La Via è nascosta e non ha nomi (di categorie).

Difatti, proprio perché sa prestare, la Via sa portare tutto a compimento””.[21]

 

Questa grande Via che sa prestare a ognuno la sua piccola Via, il suo destino individuale, porta tutto a compimento. Dando a ogni individuo il suo compito, che andrà svolto fino al momento di deporlo, la Via lo rende grande come lei. La realizzazione della Grande Via e della Piccola Via coincidono. Il Destino dell’Universo e quello del singolo coincidono.

Come avvenga poi la distribuzione dei destini, dei compiti, delle piccole Vie, ce lo dice invece il pensiero indiano. Alla base di tale distribuzione, come abbiamo già visto, c’è la nozione di karma, la legge universale che sta alla base di ogni nascita e rinascita e che opera secondo criteri tutt’altro che accidentali:

 

“La legge del karma non è nient’altro che la legge di causalità non soltanto nel suo significato formale, come legge di causa ed effetto, ma anche nel suo significato concreto, in base a cui un determinato effetto segue sempre una determinata causa. Soltanto che essa è priva di ogni limite del mondo fisico e si estende anche ai regni dominati dalla morale e, dunque, oltre la morte”.[22]

 

Come si applichi all’uomo e al suo destino questa legge di causa ed effetto ce lo narra, in forma mitica, un’antica credenza indiana con moltissime, evidenti analogie al mito platonico di Er:

 

“Quando l’uomo è in punto di morte, ha l’improvvisa visione dell’Unità Suprema (¼). Poi il soffio vitale fugge via dal suo corpo e gli inviati del Re della morte (Yama) estraggono il suo Jiva dal corpo (¼).

Gli inviati hanno aspetti terrificanti, sono armati di mazze e lacci. Indirizzando terribili minacce contro di lui, portano via con sé lo Jiva lungo la via che conduce al regno di Yama.

Lo Jiva è affamato, tormentato dalla sete, minacciato da bestie feroci, malmenato da coloro che lo trascinano ed è impietosamente costretto ad andare lungo una strada fatta, di volta in volta, di vertiginose dicese o di ripidissime salite (¼).

Durante questo (¼) viaggio, lo Jiva soffre ancora caldo e freddo (¼). Egli si ricorda delle cattive azioni che ha compiuto, e si affligge per i risultati dolorosi, per lui, che queste gli hanno procurato. Cerca invano, attorno a sé, un protettore che gli venga in aiuto, ma non ne trova.

(¼) Sei mesi dopo, arriva sulle sponde di un fiume. Una barca è ancorata alla riva, ma prima che gli sia concesso di prendervi posto, per poter attraversare il fiume, egli deve esibire le prove delle buone azioni che ha compiuto. Non riuscendo a darle, è gettato in acqua, arpionato e trascinato come un pesce lungo il fiume, fino alla città di Yama (¼).

La città di Yama ha quattro porte, attraverso le quali rispettivamente, entrano coloro che sono stati caritatevoli, i saggi, i valorosi. Attraverso la porta a sud entrano i peccatori (¼).

Il Re dei Morti è seduto sul suo trono, circondato da saggi, da sapienti e da buoni. Tutto è Verità e Giustizia attorno a lui. La menzogna, l’ingiustizia e i sentimenti malevoli non hanno accesso alla sua Città.

Il ministro de re, Chitagupta, ha una Corte personale e degli assistenti che annotano le opere compiute da ogni uomo in pensieri, parole, azioni.

Viene fatta la lettura delle pagine del registro riguardante colui che compare in giudizio. In seguito è pronunciata una sentenza. L’uomo che si è comportato male in vita, è condannato a soffrire nei mondi infernali per periodi di tempo, a volte, incredibilmente lunghi, prima di reincarnarsi di nuovo in persona umana dopo essere, magari, passato, attraverso una serie di reincarnazioni riguardanti vari ordini di esseri animali”.[23]

 

Se il mito di Er, così come l’interpretazione buddhista della legge del karma, sottolineano l’importanza della scelta compiuta dall’individuo – o almeno dell’attrazione da lui sentita – per il proprio futuro destino, questo mito indiano rimarca invece il carattere di necessità con cui si viene vincolati alla vita che si andrà a vivere. Scelta e necessità, come abbiamo visto, vengono in realtà paradossalmente a coincidere, poiché non si può sfuggire al Destino Ultimo, che coincide con l’azione volontaria dell’Uno. Ciò non toglie che anche Hillman rilevi come, talvolta, l’aspetto di scelta volontaristica appaia subordinato all’elemento apparentemente coercitivo che sta alla base di una nuova incarnazione. A tal proposito, l’antipsichiatra americano cita la Qabbala:

 

“Lo Zohar, il testo canonico della letteratura qabbalistica, dice chiaramente che la discesa è dura; l’anima è restia a discendere e a contaminarsi col mondo.

“Al tempo in cui il Santo, sia benedetto il suo nome, era in procinto di creare il mondo, decise di foggiare tutte le anime da assegnare, a tempo debito, ai figli degli uomini, e ciascuna anima era formata secondo i contorni esatti del corpo che era destinata ad abitare ¼ Ecco, ora va’, scendi nel tale luogo, entra nel tale corpo.

“Ma il più delle volte l’anima obiettava: Signore del mondo, a me piace restare qui in questo regno, e non ho alcun desiderio di andarmene in un altro, dove sarò schiava e verrò contaminata.

“Al che il Santo, sia benedetto il suo nome, rispondeva: Il tuo destino è, ed è sempre stato fin dal giorno in cui fosti formata, quello di andare in quel mondo.

“Allora l’anima, vedendo che non poteva disubbidire, suo malgrado scendeva in questo mondo””. [24]

 

La costrizione è però solo qualcosa di apparente, di ancora legato a ciò che il buddhismo definisce “l’illusione del sé”, l’erronea credenza di possedere un’individualità separata. Non c’è nessun essere o principio esterno che obbliga l’anima ad incarnarsi: è lei stessa ad incamminarsi sulla via che la conduce alla vita terrena, spinta dalle proprie pulsioni interiori. La differenza sta nel fatto che di tali pulsioni l’anima può essere consapevole, oppure che esse possono agitarlesi dentro in modo inconscio. Quando l’anima è conscia delle proprie pulsioni, l’incarnazione appare come un atto volontario; quando non ne è consapevole, la nuova vita sembra qualcosa di imposto. Il pensiero buddhista è estremamente chiaro in proposito:

 

“Come avviene che una creatura morente provi attaccamento per l’ovulo di una donna, un’altra per l’ovulo di un grembo d’animale, un’altra per l’inferno o il paradiso? O più brevemente: da cosa viene determinata la diversa direzione dell’attaccamento alla morte di un essere? La risposta è: dallo stesso fattore che rappresenta, in genere, la causa dell’attaccamento, ossia la sete (¼). Il tipo particolare di sete o, in altre parole, la direzione principale assunta dalla volontà di un essere morente determina non soltanto lo stesso attaccamento, ma anche la sua direzione”.[25]

 

Identico è il concetto che emerge dal credo tibetano, in particolare dal Libro tibetano dei morti. Qui si narra il cammino dell’anima nel Bar-do, ossia nel periodo compreso tra una morte fisica e la successiva rinascita:

 

“Se le tue inclinazioni tendenti al Bene ti ci spingono irresistibilmente, seguirai questa via di pallidi chiarori e assaporerai per un po' il riposo a cui porterà.

Se hai nutrito sentimenti di gelosia, di violenta ambizione, se i tuoi ultimi pensieri ti hanno fatto entrare nel Bar-do con un corpo sottile impregnato di influssi combattivi, sarai tentato di dirigerti su una via fatta di luce verde.

Resisti al tuo impulso, il raggio verde conduce al mondo dei Lha-ma-yin (¼). Eternamente in guerra con i Lha, essi si sforzano invano di superare lo spazio che li separa dal mondo della quiete e della fedeltà. Vinti continuamente, continuamente rinnovano i loro sforzi con una fatica infinita. Se puoi, distoglitene”.[26]

 

L’anima, secondo il Libro tibetano dei morti, può scegliere una rinascita in almeno sei mondi diversi. Tutti questi mondi sono illusori, allo stesso modo in cui è illusoria l’idea di un principio esterno che costringa ad incarnarsi:

 

“Nessun potere supremo regola la reincarnazione dello jiva-namshe [27]. Esso è diretto automaticamente verso il nuovo corpo che dovrà abitare. Questo nuovo corpo non gli è estraneo, come il vestito acquistato in un negozio è estraneo a colui che lo indosserà. È il namshe che ha egli stesso, nel corso della sua unione con il corpo materiale, tessuto e confezionato il vestito che si appresta a riceverlo.

Questo processo di “confezione” è continuo. Di volta in volta, il namshe sarto effettua ritocchi all’opera fatta precedentemente. Ne modifica l’aspetto, aggiungendo differenti parti di tessuto, o ricoprendone altre di guarnizioni (¼).

Così l’incessante attività del corpo, della parola e dello spirito (¼) confezionano il destino dell’individuo nella sua esistenza, continuando a farlo di reincarnazione in reincarnazione, attraverso la successione delle morti e delle rinascite.

Soltanto gli ignoranti parlano di punizioni e ricompense. Non c’è che la legge inesorabile, superiore e razionale delle cause e degli effetti “dell’atto e dei suoi frutti”, dicono i Tibetani”.[28]

 

Sempre secondo il buddhismo tibetano, dopo la morte,

 

“Quando la visione della chiara luce è terminata, un individuo ordinario viene involontariamente spinto dai radicati impulsi mentali in un altro stato di ‘divenire’. I tibetani credono che non possa controllare il luogo e la qualità della sua prossima esistenza, dato che egli non ha nessun controllo sulle tendenze della propria mente, quindi viene sballottato da un’esistenza all’altra, condizionato dai suoi desideri e avversioni.

Tuttavia, l’essere che ha un completo controllo sulla propria mente ha la capacità di dirigere la propria coscienza verso qualsiasi forma desideri. Se lo vuole, potrebbe rimanere in un ‘reame puro’, dove sperimentare di continuo una beatitudine indescrivibile, oppure, da vero bodhisattva che ode i lamenti degli altri, ritornare volontariamente e più volte per aiutarli”.[29]

 

Il segreto per non farsi travolgere dagli impulsi inconsci che inducono verso reincarnazioni apparentemente indesiderabili, è quello di controllare la mente, di sedare l’attaccamento verso le cose materiali:

 

“Per avere una cattiva rinascita è necessario che al momento della morte nella mente si sviluppi l’attaccamento, la confusione e la poca lucidità mentale, per cui se questi stati non si verificano, la colla dell’attaccamento non fa effetto e anche se si possiede una grande quantità di energia negativa che ci spinge a rinascere in un reame inferiore sperimentando incredibili tormenti (¼), possiamo salvarci e dire arrivederci alle negatività, anche se queste sono numerose come il Monte Meru”.[30]

 

L’acquisizione della consapevolezza e del controllo mentale può anche ridurre gli effetti del karma:

 

“Il viaggiatore disincarnato è, come noi, sottoposto agli influssi delle sostanze materiali e mentali di cui momentaneamente è composta la sua essenza. Come noi egli reagisce attraverso i suoi istinti, o varie abitudini che regolano il suo comportamento.

Tuttavia, gli insegnamenti enunciati nel Bar-do Thödol [31] sembrano ben sottolineare che questo comportamento non è sottoposto a un rigido fatalismo. Alcune trasposizioni o combinazioni possono effettuarsi nell’insieme di “elementali” che costituiscono il viaggiatore, e dare la prevalenza a quelli di loro che sceglieranno per lui una favorevole decisione.

Questa scelta si farà, come facciamo le nostre, sotto la direzione dello stato d’animo momentaneo dell’individuo”.[32]

 

Che ce ne rendiamo conto o no, ci scegliamo tutta la nostra vita prima ancora di nascere. Ci scegliamo il luogo in cui nascere, le avventure da vivere, i genitori da cui venire concepiti.

Se, nelle vite precedenti, abbiamo coltivato la consapevolezza e il controllo mentale, siamo consci che la scelta è stata effettuata da noi stessi. Ecco che, secondo il buddhismo,

 

“Si dice che quando un essere ha ottenuto un (¼) elevato livello di sviluppo, lui o lei possa stabilire le precise condizioni della sua prossima rinascita, scegliendo quella che meglio si adatta al suo scopo”.[33]

 

Altrimenti, saremo sballottati dagli impulsi inconsci e dal desiderio. Così, nel bar-do,

 

“La memoria delle sensazioni carnali a cui ti sei abbandonato nel corso della vita che hai lasciato ti pungola questo corpo di materia sottile che ora ti ritrovi.

Davanti a te, attorno a te, uomini e animali si accoppiano, tu li desideri, ti attirano.

Se l’effetto delle tue inclinazioni ti destina a nascere come maschio proverai una forte avversione per i maschi che vedrai. Se il tuo destino ti fa nascere femmina, proverai una forte avversione per le femmine che vedrai. Non avvicinarti alle coppie che vedi, non cercare di metterti tra loro, per prendere il posto di uno di essi (¼).

Svaniresti nella sensazione che sentiresti e saresti concepito come un essere umano o come un essere dell’una o dell’altra specie animale”.[34]

 

Quando anche, tuttavia, la scelta pare una mera casualità, effettuata sulla base di impulsi incontrollabili, c’è una logica dietro di essa. Tale scelta è stata effettuata dal nostro karma, dalla nostra anima superiore, dal nostro destino, dal nostro daimon.

Spiega Hillman:

 

“Se esiste nella nostra civiltà una fantasia radicata e incrollabile, è quella secondo la quale ciascuno di noi è figlio dei propri genitori e il comportamento di nostra madre e di nostro padre è lo strumento primo del nostro destino. Così come abbiamo i loro cromosomi, allo stesso modo i loro grovigli e i loro atteggiamenti sono gli stessi nostri. La loro psiche inconscia – le collere rimosse, i desideri irrealizzati (¼) – conforma congiuntamente la nostra anima e noi non riusciremo mai e poi mai a venire a capo di questo determinismo e a liberarcene. L’anima individuale continua a essere immaginata biologicamente come un frutto dell’albero genealogico. La nostra psiche nasce da quella dei nostri genitori, così come la nostra carne nasce dai loro corpi (¼).

Da qualche parte, tuttavia, un folletto continua a sussurrare un’altra storia: “Tu sei diverso; non assomigli a nessuno della famiglia; tu non sei dei loro”. Nel cuore si annida un eretico, che chiama la famiglia una fantasia, una superstizione.

Del resto, il modello biologico stesso presenta smagliature che lasciano perplessi. Sappiamo spiegare (¼) più facilmente la contraccezione che non la concezione. Che cosa avviene in realtà in quel compatto (¼), conchiuso ovulo, che permette a quell’unico particolare spermatozoo, tra milioni, di penetrare? Ma forse sarebbe più giusto chiederlo allo spermatozoo: ce n’è uno tra voi che è più furbo, più intraprendente degli altri o forse più congeniale, che sente una maggiore affinità? O è un caso, una questione di “fortuna”¼ ma poi, che cosa si intende per fortuna? Sappiamo molte cose sul DNA e sui risultati della congiunzione, ma rimane intatto il mistero sul quale Darwin spese la vita, il mistero della selezione.

La teoria della ghianda propone una soluzione antica: è stato il mio daimon a scegliere sia l’ovulo sia lo spermatozoo, così come aveva scelto i portatori, detti “genitori”. La loro unione deriva dalla mia necessità, non il contrario. Questo non aiuta forse a spiegare le unioni impossibili, le incompatibilità (¼), i veloci concepimenti e i bruschi abbandoni che si verificano tra genitori di molti di noi, e in particolare nelle biografie delle persone eminenti? Lui e lei si sono messi insieme non per unirsi ma per concepire quella persona unica e irripetibile, dotata di una particolare ghianda, che poi sono risultato essere io”.[35]

 

Consapevole o meno, la scelta della vita in cui incarnarsi, una volta compiuta è irreversibile. E, per cominciare a vivere, come sottolineava Platone, è comunque necessario dimenticarsi di avere scelto:

 

“Prima di fare il loro ingresso nella vita umana (¼) le anime attraversano la pianura del Lete (oblio, dimenticanza), sicché al loro arrivo sulla terra tutto ciò che è accaduto – la scelta delle vite e la discesa dal grembo di Necessità – viene cancellato. È in questa condizione di tabula rasa che noi veniamo al mondo. Abbiamo dimenticato tutta la storia, anche se rimane con noi il modello ineludibile e necessario del nostro destino e anche se (¼) il daimon ricorda”.[36]

 

“Di norma, veniamo al mondo con la testa in avanti, come se ci tuffassimo nello stagno dell’umanità. E nella testa c’è un punto molle, attraverso il quale, secondo la tradizione del simbolismo del corpo, l’anima del neonato continua a ricevere l’influsso delle sue origini. Il lento processo di chiusura della fontanella, il suo indurirsi in un cranio ermeticamente sigillato, segna la separazione da un invisibile aldilà e il definitivo arrivo quaggiù. Ci vuole un po’ a discendere. E un bel pezzo di vita prima di reggersi in piedi.”[37]

 

Il pensiero indiano esprime esattamente lo stesso concetto esposto da Platone e ribadito da Hillman:

 

“Lo jiva che si ritrova in una matrice umana si ricorda [inizialmente] le circostanze delle sue vite precedenti, ricorda i desideri, gli errori, le cattive azioni, il male che ha causato ad altri. Si ripromette di non ricedere più negli stessi funesti errori, causa dei tormenti che ha sofferto¼

Egli nasce, la sua memoria si oscura gradatamente¼

Allora, subendo l’effetto delle tendenze che vivono radicate in lui per effetto dell’ignoranza che non ha potuto vincere, ricomincia ad accumulare, senza discernimento le azioni buone e quelle cattive ed è trascinato nella ruota (samsara) verso nuove morti e nuove rinascite”.[38]

 

Tutta la vita di ognuno di noi, dal concepimento alla morte, è dunque frutto di una scelta effettuata e messa in pratica, anche se dimenticata, con l’aiuto del nostro daimon, del nostro destino.

Ma il termine “destino” è solo uno dei due significati principali della parola daimon. L’altro significato fondamentale, come avevamo già accennato è quello di daimon come personificazione della forza che ci lega al nostro destino: ossia come genio, come demone o come angelo custode.

 

“La teoria della ghianda dice (¼) che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce (¼). Ovvero, nel linguaggio di Platone e di Plotino, ciascuno di noi incarna l’idea di se stesso (¼). La teoria, inoltre, attribuisce all’immagine innata, un’intenzionalità angelica, o daimoniaca, come se fosse una scintilla di coscienza; non solo, afferma che l’immagine ha a cuore il nostro interesse perché ci ha scelti per il proprio.

L’idea che il daimon abbia a cuore il nostro interesse è probabilmente l’aspetto della teoria più difficile da accettare. Che il cuore abbia le sue ragioni, d’accordo; e anche l’esistenza di un inconscio dotato di intenzionalità e l’idea che in quello che ci succede svolga una parte il destino: tutto questo è accettabile, quasi banale.

Perché allora è così difficile immaginare che qualcuno o qualcosa tenga a me, si interessi a quello che faccio, magari mi protegga o addirittura mi mantenga in vita, indipendentemente, in una certa misura, dalla mia volontà e delle mie azioni? Perché preferisco una polizza di assicurazione agli invisibili garanti dell’esistenza? Perché non ci vuole niente a morire. Un attimo di distrazione, e i progetti più accurati di un Io forte giacciono riversi sul marciapiedi. Quotidianamente qualcuno o qualcosa mi salva la vita, impedendomi di cadere per le scale, di inciampare mentre cammino, di ricevere una tegola sulla testa (¼). A ciò che ci salvaguarda diamo il nome di istinto, autoconservazione, sesto senso, coscienza subliminale (tutte cose invisibili eppure presenti). Nei tempi antichi, ciò che con tanta efficacia mi sapeva proteggere era uno spirito custode e io mi guardavo bene di mancargli di rispetto.

Nonostante questa protezione invisibile, noi preferiamo immaginarci gettati nudi nel mondo, vulnerabili e completamente soli. È più facile credere nella favola di uno sviluppo autonomo, eroico, che in quella di una provvidenza che ci guida, che ci ama, che ci trova necessari per ciò che abbiamo da offrire, che accorre in nostro aiuto nella disgrazia, a volte proprio all’ultimo momento. Ebbene, io voglio affermare la sua esistenza come semplice dato dell’esperienza comune (¼). Perché non possiamo far rientrare nell’ambito della psicologia ciò che un tempo si chiamava provvidenza, ovvero la presenza invisibile che ci sorveglia e veglia su di noi?”.[39]

 

Di presenze invisibili che ci sorvegliano, vegliano su di noi e controllano che svolgiamo il compito per il quale siamo vivi, sono piene anche le filosofie e le mitologie orientali.

In Cina, nel già citato I King, le previsioni oracolari avvenivano proprio grazie all’intervento di queste presenze invisibili:

 

“Secondo l’antica tradizione sono degli “agenti spirituali” operanti in modo misterioso quelli che fanno dare una risposta sensata agli steli di millefoglie. Queste potenze formano, quasi, l’anima vivente del Libro”.[40]

 

Nell’induismo vedico, si credeva che lo Jiva, il principio spirituale individuale, avesse con sé un compagno, un “doppio astrale”:

 

“Lo Jiva, sembra aver trascinato con sé, separandosi dal corpo, un compagno che è il corpo sottile del defunto.

Potremmo chiamare questo compagno un “doppio” (¼).

All’epoca dei Veda non soltanto gli indiani delle classi popolari, ma gli intellettuali, credevano all’esistenza di un “doppio” unito al corpo. La natura di questo non pareva però ben definita. A volte lo si confondeva con il soffio vitale che si manifestava con il respiro, a volte con il principio pensante della coscienza”.[41]

 

Sicuramente più esplicito in proposito è il buddhismo tibetano, che afferma che non c’è un solo “daimon” che accompagna l’uomo nel suo viaggio terreno, bensì due. Essi si manifestano apertamente dopo il trapasso, quando il defunto deve affrontare il giudizio del re della morte. In quel momento,

 

“la divinità delle buone azioni, nata insieme a te, verrà e metterà da parte le azioni buone che hai fatto e le segnerà con sassolini bianchi, e il demonio nato insieme con te verrà e metterà da parte i peccati e li segnerà con sassolini neri”.[42]

 

Il Libro tibetano dei morti porta, secondo lo stile dell’epoca, esempi molto cruenti. Di fronte alla divinità della morte,

 

“colui che rappresenta la divinità delle azioni positive e che insieme a noi nasce indossi una maschera bianca di sereno aspetto e vesti di lana candida. Rechi inoltre un vassoio ricolmo di sassolini bianchi.

Colui che rappresenta il demone delle azioni negative e che assieme a noi nasce abbia una maschera nera, un abito nero e un vassoio ricolmo di sassolini neri (¼).

Il demonio delle azioni negative che nasce con l’uomo lo segue (¼), mentre la divinità innata (¼) offre umilmente ai compagni negativi una sciarpa bianca ma, per quanto insista nel pregare (¼), non ottiene nulla. Anzi, quelli imprecando portano il defunto al cospetto del re il quale chiede: “Tu, uomo nero (¼), chi sei? Vieni da dove? (¼) Hai forse offeso le candide azioni positive? Sei riuscito a evitare i neri peccati? (¼)”. Allora il peccatore risponde: “(¼) Ho avuto un corpo umano ma ben poca fortuna, abiti e alimenti pessimi, molti figli e molte donne che non ho potuto sfamare. Ho privato della vita numerose creature (¼). Avevo da mangiare soltanto calda carne (¼). Se avevo sete bevevo acqua e sangue. (¼) Sulla terra molte buone e pie guide mi hanno parlato della compensazione che fa seguito al peccato e dei vantaggi della virtù. Ma non ho badato loro. Tutti mi dicevano: ‘Non peccare così, un giorno colei che chiamiamo morte verrà e scenderai nell’inferno (¼)’.

Ascoltandoli, fra me e me pensavo: ‘Chi sa se davvero l’inferno esista come essi dicono? Eppoi, chi mai è tornato dall’inferno per raccontarlo?’ (¼).

Ridevo così. E pensando che non esistesse l’inferno ho commesso numerosi peccati (¼).

Mi hanno guidato la non comprensione e l’ignoranza. Ora prego, tutti voi di non punirmi. Quando ero nel mondo degli uomini se avessi saputo come in realtà stanno le cose non avrei peccato. Ora rinnego la mia mente malvagia. È detto che tu sei il Signore della Legge: ebbene, abbi pietà di me, sii per me sostegno e guida (¼). Lasciami (¼) ancora nel mondo degli uomini. Non commetterò più peccati, solo azioni positive. Ti prego”.

A ciò la divinità delle azioni positive, che con noi nasce, porgendo una sciarpa bianca chiederà: “Signore della Legge, quest’intoccabile di infima casta non ha conosciuto né bene né male, e ciò a causa dell’annebbiamento dell’ignoranza. Ha dunque commesso numerosi peccati. Non sapeva e non capiva. Non pronunciare a suo carico un penoso giudizio. Ha anche compiuto qualche azione positiva (¼). Quale segno (¼) ecco sei sassolini bianchi. Ti prego dunque di soffermarti su questa azione positiva e su quante altre ne abbia fatte, o re della Legge” (¼).

Interviene però il demone nero: “Ah, candida divinità, hai dunque solo questo da dire? Non provi vergogna a portare un vaso vuoto? Quest’intoccabile (¼) da vivo s’affidò solo al peccato: ha offeso ogni bene; ha ucciso ogni creatura che gli capitava di vedere, e si sfamava con carne calda. Si dissetava con il sangue caldo, e parlando usava parole negative. Uccideva i caprioli che mai gli avevano fatto del male, i pacifici pesci, colpiva i mendicanti mansueti. Offendeva le buone e pie guide, diede fuoco ai templi, avvelenò i laghi; incendiò le foreste sui monti, percosse padre e madre e ne disperse i resti (¼). Osserva questo mucchio di sassi neri (¼). Uccidendo provavi gioia; poi, mangiando le vittime, ti compiacevi. Ti compiaci anche ora? A che serve sciorinare parole? Hai desiderato carpire la vita a milioni di creature. Ora devi scontare la pena per ogni azione malvagia che hai compiuto. Quanto ingiusto sarebbe se ora tu non provassi queste pene (¼). Il re della Legge, per quanto grande, nulla può fare per impedire l’esito del tuo peccare. Questi sassolini più grandi indicano che hai dato alle fiamme alcuni templi, questi più piccoli che hai ucciso alcune cimici. Osserva quanti sassi! Preparati ad andare lungo questa strada nera ed erta come un passo minaccioso”.[43]

 

Guidata da queste presenze invisibili, l’anima si appresta, dopo ogni morte, a seguire il nuovo destino indicatole dalla legge del karma, accompagnata dal suo daimon. E tutto si ripeterà di vita in vita, di trapasso in trapasso, finché l’anima non si renderà conto che tutto – i demoni bianchi e neri, il signore della morte, il suo stesso sé – non è che un’illusione:

 

“Sappi che ogni forma che puoi cont

commenta questa pubblicazione

Sii il primo a commentare questo articolo...

Clicca qui per inserire un commento