La Paura del Buio secondo il pensiero di John Bowlby

La paura del buio può essere presente in ogni età come la paura degli animali.

Tuttavia, gli indizi che intervengono sulla paura nei confronti degli animali non sono gli stessi. Analizzando detta paura in condizioni al buio, esistono due indizi naturali:

1) l’estraneità

2) l’essere soli

Nel buio gli stimoli visivi riconosciuti come familiari se fossero visti alla luce resterebbero ambigui e di difficile interpretazione, basti pensare ai disegni fatti dal movimento della luce che brilla attraverso le tende della camera da letto, alle forme degli alberi in un bosco di notte, agli angoli in ombra di una cantina poco illuminata. Pertanto, gli stimoli visivi non sono adeguati per una percezione corretta. E’ probabile che il solo fatto della mancanza di un familiare non susciterebbe tanta paura se esso non fosse accompagnato così regolarmente dal fatto di «essere soli». 

1) Si può realmente essere soli;

2) ci si può sentire soli.

In entrambi i casi – buio e essere soli - la situazione è complessa, in quanto si combinano luci e suoni non facilmente interpretabili.

Freud rimase molto colpito dal fatto che il buio induce il bambino a sentirsi solo e, al centro della sua teoria sull’angoscia si colloca proprio un comportamento di un bambino piccolo al buio e riporto la pag. 367 (Introduzione alla psicoanalisi 1915-1917) e i tre Saggi  pag. 529 (1905) in cui fa la storia di un bambino di tre anni e racconta che una volta udì questo bambino dire alla zia in una camera al buio: «Zia parla con me; ho paura del buio». La zia allora gli rispose: «Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso». «Non fa nulla – ribatté il bambino –se qualcuno parla c’è luce». Egli dunque (commenta Freud) non aveva paura dell’oscurità, bensì sentiva la mancanza di una persona cara… Per Freud, la situazione prototipo che origina l’angoscia nei bambini è semplicemente la separazione dalla madre, quindi, l’angoscia nevrotica va intesa come un persistere oltre l’infanzia della tendenza ad essere angosciati quando si è soli, anche se la paura di “essere soli”, spesso si maschera come paura di qualche altra cosa, per esempio del “buio”.

Per Bowlby e Freud la teoria è simile, le due posizioni si differenziano solo per il fatto che Freud non accettò che l’ignoto fa paura intrinsecamente o ancor più “l’ignoto”, rispetto al fatto di “essere soli” si possono considerare come due membri di una classe di indizi naturali di aumento del rischio del pericolo.
Per Freud aver paura quando si è soli è un fatto irrazionale e nevrotico, per Bowlby aver paura in tali condizioni viene considerato un fatto adattivo.

Il fatto di «essere soli», lungo tutta la vita è una condizione che stimola la paura oppure la intensifica. Dopo un disastro, è evidente l’effetto rassicurante derivante dalla presenza di una persona cara. Infatti, quando in una famiglia si presenta un dolore, non è casuale il fatto che i membri restino vicini tra loro. Nei momenti di vita normali, e in quelli che seguono un lutto, un disastro, una calamità, dietro a comportamenti considerati regressivi dai medici, esistono situazioni che una volta ben conosciute spiegano immediatamente il motivo per cui un bambino o un adulto si attacchi così disperatamente ad un altro membro della famiglia.

L’origine della paura nel bambino deve valutare due aspetti: il primo, riguarda il grado in cui ogni individuo è suscettibile alla paura e dipende, in gran parte, dal fatto che le “figure di attaccamento” siano presenti o assenti; il secondo, deriva dall’eventualità che una “figura di attaccamento” sia assente, o più in generale, non sia disponibile, quando se ne ha bisogno, soprattutto per il bambino, suscita paura. La “figura di attaccamento” secondo Bowlby va intesa non come presenza fisica reale e immediata, ma come facile accessibilità. Per accessibilità,  si intende della “figura di attaccamento” anche la volontà di rispondere in modo adeguato nei confronti della persona che ha paura agendo proprio come figura protettiva ed accogliente, in sintesi, significa “essere disponibile”. Esistono tre proposizioni per postulare la disponibilità:

1) un soggetto fiducioso in cui se la figura di attaccamento sarà disponibile sempre, tenderà ad avere meno paura;

2) il periodo più sensibile per lo sviluppo di tale fiducia si costruisce negli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza;

3) l’accessibilità e la disponibilità delle figure di attaccamento rappresentano dei riflessi abbastanza corretti ricevuti da quelle persone.

Ogni individuo si costruisce dei modelli operativi del mondo e di se stesso nel mondo, con l’aiuto dei quali percepisce gli eventi, comprende il futuro e costruisce i propri programmi. Nel modello operativo interno una caratteristica fondamentale è stabilire quali siano le sue figure di attaccamento, dove si possono trovare e in che modo ci si può aspettare che reagiscano.

La teoria bowlbiana presenta due fasi : la prima fase,  stabilisce che sin dai primi mesi di vita e poi per tutta la vita la presenza o l’assenza di una “figura di attaccamento” è una variabile fondamentale che determina se una persona è o non è allarmata in una qualsiasi situazione potenzialmente allarmante; la seconda fase, stabilisce che a partire da quella stessa età e sempre per tutta l’esistenza è fondamentale la fiducia o la sfiducia che una “figura di attaccamento” saprà dare o meno attraverso la sua disponibilità (accessibilità) quando l’individuo ne avrà bisogno.

La prima fase è fondamentale e fino ai tre anni ed è una variabile dominante, dopo i tre anni diventano dominanti le previsioni di disponibilità o meno, dopo la pubertà diventano le variabili dominanti. Pertanto, è facile che un figlio non desiderato, non si senta solo come non voluto dai genitori, ma pensa anche di essere non voluto da tutti. L’origine e la persistenza di più modelli operativi interni, deriva da un inconscio dinamico, in antitesi con quanto sosteneva Freud. Oggi, infatti, si ritiene che il contributo dell’ambiente familiare riguardante le “figure di attaccamento” è sostanziale indipendentemente dalle predisposizioni genetiche o dai traumi psichici. In realtà, la personalità dell’adulto viene considerata come un prodotto delle interazioni di un individuo con le figure chiave, in particolar modo con le “figure di attaccamento” durante i primi anni fino alla prima giovinezza. L’idoneità di queste figure, consentirà al soggetto di affacciarsi al mondo con fiducia, affrontando le situazioni difficili e allarmanti in modo efficace e cercando un aiuto. Laddove, queste “figure di attaccamento” sono state assenti l’individuo diventato “adulto” non riuscirà a credere che esista mai una figura disponibile e fidata che si curi di lui e il mondo gli apparirà sconsolato e imprevedibile, e cercherà di reagire evitandolo e lottando contro di esso. La mancata disponibilità di una “figura di attaccamento” in caso di necessità, può far aumentare notevolmente la paura di essere abbandonati, facendo accrescere la tendenza a reagire con la paura anche in altre situazioni.

Intendo precisare, infine, che in ambito clinico la teoria che sta alla base del termine “immaturo” consiste nel ritenere che le strutture delle personalità adulte prive o quasi di “figure di attaccamento” siano dovute ad un arresto di sviluppo o siano rimaste ad uno stadio che, pur essendo normale per la prima infanzia, viene superato nel corso di una “crescita sana” e lasciato alle spalle

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