Nathaniel Hawthorne → Il sognatore solitario

Dott. Roberto Ruga

Dott. Roberto Ruga

NATHANIEL HAWTHORNE
il sognatore solitario


di Roberto Ruga e Vincenza Criserà – Vibo Valentia
 
a mia moglie Cinzia
per avermi fatto scoprire
questo autore della penombra


Una fiaba nella quale si parli di inseguire l’Eco fino al suo nascondiglio.
L’Eco è la voce dell’immagine in uno specchio.
(N. Hawthorne)

Porre la scena di un racconto o di un bozzetto entro il cerchio luminoso d’un
lampione; fare che il tempo sia quello in cui la lampada sta per spegnersi; e
che la catastrofe avvenga nel momento in cui essa lancia gli ultimi guizzi di
luce.
(N. Hawthorne)



Hawthorne desidera, desidera sognare. E scrive, racconta di sogni, lo fa per rigenerarsi. Ciò che è impalpabile lo attrae, ha una vera passione per le immagini, sa che non si possono mai pienamente raggiungere e comprendere. E’ sedotto perché ha trasfigurato, la sua vocazione gli ha concesso di intravedere l’eterno. Si è consegnato al dissidio ed in esso è divenuto randagio; allora ha scelto la sua prima materia: la scrittura. A questo punto è divenuto ponte e per percorrersi si è creduto viandante. Sospeso, si è lasciato oscillare senza opporre resistenza alla vertigine. La brama che lo assaliva l’ha convertita per mezzo del linguaggio in simbolo. Non ha mai raggiunto la redenzione e non si è mai riconciliato con se stesso, ma ha ricreato e poi distrutto ogni suo idolo, scrollandosi di dosso la prolissità del reale. Infine, ha rotto il silenzio liberando la voce dell’anima.
Nathaniel Hawthorne (o Hathorne, com’era in origine il suo nome prima che lo scrittore lo modificasse) nasce a Salem, cittadina atlantica del New England, nel 1804, da una famiglia un tempo illustre, ma ormai decaduta. Perde a quattro anni il padre (capitano su navi mercantili, muore di febbre gialla) e viene accolto dai parenti materni. A nove anni, per una lussazione al piede, si trova confinato nella sua camera che chiamerà la sua “chamber” e che diventerà il luogo di una “romita giovinezza”, di una semireclusione e, insieme, di un’autoformazione immaginifico-visionaria. In quei lunghi mesi, acquista il gusto delle appassionate letture solitarie, rivelandosi carattere già chiuso nella sfera dei sogni, delle meditazioni segrete. Scopre presto la sua vocazione letteraria: un desiderio, e poi una necessità, - per usare le sue parole, a dark necessity,- una buia necessità. Il giovane, sotto l’usbergo di un sicuro egoismo, sente ripulsa per amici e conoscenti, che cedono a frivoli ideali, a fatue illusioni, che s’illudono di cambiare, di migliorare il mondo. L’unico fortunato accidente della sua vita è l’incontro con Sophia, che diverrà sua moglie; e, se vogliamo, la stesura de La lettera scarlatta, il suo capolavoro. Ma sono fortune che potevano capitare solo a lui.
Povero, timido, altero, con un desiderio solo: trovare l’amore e riuscire a esprimersi, che per lui sono una cosa sola, nascono da una medesima radice. Siamo nel 1825, da questo momento a soli ventuno anni, ha inizio una specie di clausura, che durerà circa tredici anni. Enunciato così, l’episodio sembra un incomprensibile accesso di follia. Tale dovette apparire, a tratti, e poi sempre più frequentemente, allo stesso Hawthorne. Il quale, quando aveva ormai vinto il sortilegio per merito di Sophia, gliene parlò in una celebre lettera, che ha contribuito a creare la leggenda della haunted chamber, la camera segreta:


Qui siede il tuo sposo, nella sua usata stanza, dove visse recluso gli anni scorsi, prima che l’anima sua avesse incontrato la tua. Qui scrissi molti racconti: molti che vennero ridotti in cenere; e molti che indubbiamente meritavano sorte uguale. Questa dovrebbe invero essere chiamata una camera stregata, perché migliaia e migliaia di visioni mi apparvero in essa, delle quali poche appena furon rivelata al mondo. Se mai avrò un biografo, egli dovrà intrattenersi a lungo su questa camera, perché qui sperperai tanta parte della mia romita gioventù, e qui mi formai la mente e il carattere, e qui vissi lieto e fidente, e qui mi sentii scorato, e qui son rimasto un lungo, lungo tempo, pazientemente aspettando che il mondo si decidesse ad accorgersi di me, e chiedendomi talvolta perché non si decideva mai, o semmai si sarebbe deciso, almeno prima che fossi sceso nella tomba. E talvolta già mi pareva d’esser sceso nella tomba, con tanto appena di vita da potermi sentire intorpidito e freddo. (1)


L’ambiente, tutt’altro che favorevole a uno scrittore che non partecipava alle illusioni del tempo, doveva indurlo a cercar rifugio in quella stanza. Così l’ Artista del bello parla dell’incomprensione che l’arte incontra nel mondo e delle ardue prove che attendono tutti i poeti:


L’artista dovrebbe possedere una forza di carattere, che appare a stento compatibile con la delicatezza delle sue aspirazioni; dovrebbe mantener salda la fede in se stesso, mentre il mondo incredulo lo assale con tutta la violenza dei suoi dubbi; dovrebbe accamparsi contro l’umanità intera, e non ubbidire ad altri che a se stesso, sia per quanto concerne il suo genio, che i fini perseguiti. (2)


Teso verso gli scopi che s’è proposto, egli non s’avvede neppure che gli anni passano e, al risveglio dal lungo sogno, constata sgomento quanta parte della vita sia ormai trascorsa, senza largire alcun dono a chi si è smemorato dietro le sue fantasie.


Se il tempo fosse disposto ad attendere la fine delle nostre predilette follie, resteremmo sempre tutti giovani, sino al giorno del Giudizio. (3)


Eppure furono questi anni perduti i decisivi, i più importanti, quelli che gli permisero di far fiorire la sua poesia più segreta. Per la quale, aveva bisogno di raccolta solitudine, di silenzio e penombra.
La notte era il tempo che dedicava al lento processo di ricreare quell’unica Idea, verso cui convergeva ogni sua attività intellettuale. Alla sua morbosa sensibilità, la luce solare pareva possedere una violenza che veniva a interferire con le sue ricerche. Non stupirà quindi che nel 1836 Hawthorne è ancora “il più oscuro letterato d’America” e che annoti nel suo diario: “In questa tetra stanza si conquistò la Gloria”. Durante il decennio di clausura, vi scrive infatti quel centinaio di racconti che, dopo La lettera scarlatta, costituiscono la sua produzione più alta e, a partira dal 1835, comincia a redigere un diario (i cosiddetti American Notebooks), dove andrà annotando gli spunti di molte novelle, che poi gli mancò il tempo e l’animo di sviluppare:


Un ricco lascia in eredità un palazzo e terreni a una coppia di poveri. Questi vanno a vivere nel palazzo e vi trovano un fosco servitore, che il testamento proibisce loro di mandar via. Egli diviene un tormento per quei due, e infine svela d’essere l’antico proprietario del palazzo. (4)


Se resta innegabile la derivazione di Hawthorne dal romanzo nero, bisogna precisare che gli spunti che ne deduce egli li trasfigura subito con l’ardore e la serietà della sua passione. Non appena scrive le prime pagine importanti si sente incalzato dall’ansia di quel suo tormento: i racconti, i romanzi sono successive approssimazioni, intese alla verità, che è la buia disperazione del suo cuore. La redenzione è una favola: la sua coscienza d’uomo, la sua onestà d’artista gli impongono di riconoscere nel male il peccato. Sempre attento, pronto a ghermire the deep, warm secret, il cupo e caldo mistero della colpa, Hawthorne supera le fantasie ambigue e giunge a una rappresentazione di classico risalto, osando affrontare arditamente il tema del male che viene identificato con il peccato più grande: la solitudine, l’egoismo, il gelo: to have ice in one’s blood. Dopo alcuni anni di clausura si è infatti accorto che la speranza di mettersi in contatto con il prossimo resta delusa: il regime eroico che si è imposto potrebbe risolversi in una sterile fatica, il vano spettacolo del mondo, contemplato dal deserto della camera stregata, diventa inconsistente e vano; lo scrittore americano assume personalmente la responsabilità della sua solitudine e la giudica una colpa. Nascono Egotismo o il serpente in seno, storia di un uomo straziato da un morboso egoismo introspettivo, serpente che lo divora senza requie. L’allegoria acquista una sua funzione, quella di guida verso la verità. Ad esempio in Wakefield, dal racconto degli umili eventi balena una sinistra intimazione: per render sterile la vita e morire in uno spettrale deserto, basterebbe non uscire, non avere il coraggio o la possibilità di uscire dalla hunted chamber, sempre più terribile e sempre più gremita di conturbanti visioni le quali ora cominciano a emergere dalla confusa penombra e ad accamparsi in primo piano, magnetiche, ossessionanti. La solitudine acquista così una drammatica violenza, l’astratta colpa diviene qualcosa di molto semplice e tetro: il peccato solitario.
Siamo nel 1837 quando i Racconti narrati due volte, destando un certo interesse fanno conoscere ad Hawthorne la sua futura moglie, Sophia Amelia Peabody, una pallida fanciulla, malata dall’età di 12 anni.


“E mi si svelò allora una Colomba, - ricorda il fidanzato, - imprigionata in una segreta cupa quanto era stata la mia. E io m’accostai sempre più a quella Colomba e le offrii il mio seno, ed essa vi volò contro, e poi chiuse le ali; e là si è annidata, ora è per sempre, e mi mantiene caldo il cuore, e rinnova la mia vita con la sua. Comincio ora ad intendere perché rimasi confinato in quella solitaria stanza tanti anni, perché non seppi mai fuggire oltre le invisibili sbarre. Era perché, se fossi fuggito prima, sarei divenuto aspro e rozzo e mi sarei coperto di terrena polvere, e il mio cuore si sarebbe incallito nei crudeli contatti col mondo, e non sarei più stato degno d’offrir ricetto tra le braccia mie a quella Colomba celeste. “Tu mi hai insegnato, - le confida, più tardi - che io pure posseggo un cuore; e invero non siam che ombre finchè il cuore non è stato toccato… Per te riesco a risolvere l’enigma della vita… Dio mi t’ha concessa, perché tu fossi la salvazione dell’anima…”. (5)


Questi faticati racconti, a volte paiono quasi l’opera di uno scrittore medievale che erri allucinato tra i fantasmi che lo circuiscono, e si ostini a volerli ritrarre con tanto maggior precisione quanto più dubita della loro consistenza. Ma è proprio da questo dissidio, da questo impegno di tentare ogni possibile via di salvezza prima di arrendersi alle inevitabili conclusioni che essi derivano il loro mordente, la loro importanza, il pregio artistico, che sopravvive intatto.
Ne La lettera scarlatta, egli si svela per quello che è: pieno di profondissima indifferenza per il suo prossimo, interessato solo nei suoi sogni. Ci troviamo davanti a un uomo che sa cosa vuol dire e intende parlare senza più reticenze. La Lettera scarlatta è, in certo senso, non l’esaltazione, ma il grande canto del peccato. Il peccato regna su tutto il mondo, è la forza che crea ed esalta, che trasfigura e nobilita, perché l’amore, solo quando è peccato è amore, e solo nell’amore vibra e ferve la vita. Affermazioni affini avevamo già trovato in un suo lontano racconto Il giovane signor Brown, dove un ministro di Satana dichiarava: “Il male è la natura stessa dell’umanità, il male dev’essere la nostra unica felicità!”. Ciò che risulta sinistro nella vicenda dei tre personaggi è il fatto che il peccato assume le sembianze di un’infernale carenza d’amore; neppure quando s’incontrano, i protagonisti sanno comunicare tra loro, e ognuno arde solitario in un popolato deserto, chiuso in un cerchio d’invalicabile solitudine. Nel libro non spira alito di perdono, l’amore non fa che tramutarsi in odio, che a sua volta si tramuta in anche più nefando amore. Il contrasto tra amore e orrore, tra amore e peccato, che era stata una delle allegorie più care a Hawthorne, qui si trasforma nella terribile identità di amore e peccato, ed è questa identità che crea la tragica grandezza dell’idillio nella foresta, quando i due amanti, avendo ormai capito come il loro solo alimento sia il male, si attardano in quella verde luce subacquea, quasi calati negli abissi del tempo e, simili a due rettili che rinnovino la riserva di veleno in un’atmosfera densa di peccato.
Hawthorne non esagerava quando parlava del suo libro come di una hell-fired story, una storia illuminata da vampate infernali, e confessava di non esser riuscito, malgrado ogni suo tentativo, a infondere un barlume di letizia nella buia catena d’eventi da cui si sentiva lui stesso travolto. Anche il lettore avverte questo segreto rapimento, una delle maggiori virtù del libro.
Il problema del male, affrontato nella sua complessità, non poteva venir risolto; lo scrittore non si è concesso e non ha voluto concedere al pubblico alcuna accomodante illusione; la tragedia non si conclude con una classica catarsi. Ma l’onestà con cui ha saputo misurarsi con il peccato ha largito preziosissimi frutti. Come il Leopardi, nei canti maggiori, assurge a un tono di eroica letizia proprio accettando il suo spietato pessimismo, così Hawthorne, nel riconoscere che il mondo è soggiogato dal male e non ha la possibilità di riscatto, raggiunge quella superiore e terribile ilarità, che è retaggio degli dèi e degli eletti.

Come abbiamo potuto intuire, la personalità di Hawthorne non è facilmente definibile: è qualcosa di nebuloso e indistinto, anche se lascia arguire l’esistenza di costumi ben definiti e saldi. E il suo stile rispecchia questo stato d’animo; è uno stile piano e delicato, senza contorcimenti nè luci troppo abbaglianti; rare, seppur ve ne sono, le tinte forti; la sua pagina appare soffusa come da una nebbia psicologica che non permette mai al quadro una vividezza eccessiva, perché l’autore è sempre presente tra le righe, e solo raramente, permette ai propri personaggi di vivere una propria vita indipendente. I conflitti spirituali che pure formano la base della sua opera, non assumono mai, salvo poche eccezioni, carattere netto e deciso. Hawthorne non ama i vibranti contrasti, ma preferisce un fine lavoro introspettivo che giunge tuttavia, con mezzi squisitamente letterari, ad una esasperazione del conflitto nella sua espressione immateriale. Il problema della colpa al quale egli dedica la maggiore attenzione è affiancato ad un tema sempre latente: quello della morte. E’ la morte un male, o non sarebbe piuttosto un male l’immortalità? Ed è proprio per questa seconda soluzione che l'autore propende. Attraverso tutta la serie di racconti e novelle che traggono spunto da questo motivo, centrale di tutta la sua opera, si giunge all’estrema conclusione: la morte è un bene in quanto necessaria al proseguimento della vita nella sua marcia incessante che richiede il continuo perire e rinascere. Il critico Giacomo Prampolini così si esprime: “…il più grande romanziere nord-americano, almeno quanto a potenza suggestiva e interpretazione degli impulsi profondi dell’anima. Per la critica moderna egli è un compresso in senso freudiano, e invero tutta la sua opera verte sul problema del male e della sua ereditarietà, è influita dal dogma calvinista del peccato e dalle ipocrisie che ne conseguono; pertanto è lecito parlare di un’ossessione morbosa, che d’altronde trasforma l’autore in un sagace detective delle angustiate torbide coscienze puritane. Il senso della colpa grava su di lui, e allora l’artista si ripiega su se stesso, a creare fantomatici personaggi, esseri malati e criminali, che agiscono senza speranza di salvezza, invano contrastando stimoli occulti; lo stile fruscia sommesso, pallido, femmineo. Nati nell’ombra i suoi racconti hanno la sostanza di sogni e fantasie interiori popolati da fantasmi e spettri connessi a lontane sofferenze, a segreti misfatti”.
Edgar Allan Poe dichiara: “le novelle di Hawthorne spaziano nelle più alte regioni dell’arte, di un’ arte al servizio di un genio d’ordine altamente superiore. Il tono del suo stile dà un senso di calma, l’intento fondamentale dell’autore è la ricerca della verità, egli rispetta la brevità necessaria e soprattutto possiede inventiva, creatività, fantasia e originalità, elementi che nella narrativa valgono su tutti gli altri”.

Clarke (James Freeman) ha detto che nessuno più di Hawthorne aveva reso giustizia alle ombre della vita, nessuno più di lui aveva mostrato simpatia per il peccato che è in noi.
La sua caratteristica fondamentale – scrive Carlo Izzo – “ era stata quella di usare “concettualmente” anche le parole concrete, creando in tal modo un mondo nel quale le cose avevano forma e non dimensione, qualità e non sostanza, funzioni potenziali e non effettive”. Si tratta, rifacendoci a Platone e a Kant, di una perfetta rispondenza del microcosmo con il macrocosmo, o dell’anima individuale con l’anima dell’universo (over-soul), riponendo una fede assoluta nelle forze autonome del singolo (self-reliance).
Un autore profondamente introverso che ama indagare nei labirinti di corrispondenze e simbologie alla perenne ricerca di quelle verità intrise di inquietezza psicologica, di ambivalenza, di atmosfere e situazioni emblematiche che rimandano ad un oscuro e sfuggente passato.
Ma perché, sedotti e affascinati ci chiediamo, c’è una così evidente presenza di “scavo” di situazioni psicologiche, presentazione di aspetti tetri e sinistri, segni premonitori, situazioni di colpa e riscatto, morti misteriose, oggetti-simboli come il velo nero, una serpe, un fumoso specchio, qualche strano segno sul corpo, un fiore velenoso, allucinate visioni notturne, diabolico-faustiani scienziati, ragazzini tutt’altro che roussianamente innocenti? Ci troviamo al cospetto di un impareggiabile maestro di ambivalenze, “di perfetta duplicità”. Tutto si fa, diventa in lui, come “bidimensionale”. Il suo è un procedere per vie oblique, per contrappunti, per accostamenti e stacchi, ironie e rimeditazioni, sempre accompagnate da una com-prensione profonda, dunque, com-partecipazione per i personaggi più tormentati come ad esempio l’adultera Hester per la quale nessuna assoluzione sembra possibile. La lettera scarlatta non è, non vuole essere un romanzo d’amore e passione, ma “di umana fragilità e sofferenza” (a tale of human frailty and sorrow). E di umane ambivalenze. (6)
Abbiamo volutamente lasciato aperta la domanda sul perché di tale “perfetta duplicità” che poi costituisce la cifra ultima della seduttività di Hester, la sua capacità di abbagliarci. Tenteremo ora di sviluppare una possibile risposta.

Come ama dire Aldo Carotenuto: “Lo scrivere è sempre uno scrivere per se stessi”. Perciò nel gesto creativo dello scrivere, del raccontare, è insita una segreta speranza: quella di modificare il proprio essere, la possibilità di prendersi cura della propria anima.


Chi scrive racconta sempre se stesso e lo fa tanto nel caso che la sua parola, intessuta di sogno e fantasia, sia quella del poeta o del romanziere, quanto nel caso che il suo scrivere, depurato da ricordi ed emozioni che possono solo indirettamente trapelare all’esterno, punti alla “neutralità”, allo spazio “oggettivo” della scienza. […] In questo discreto svelarsi nello spazio della scrittura, l’anima trova forse uno specchio in cui guardarsi per conoscersi e farsi conoscere, uno spazio in cui mostrare il suo volto […] Quando si scrive lo si fa soprattutto per l’Altro, quell’Altro interiore con cui si dialoga ma da cui si è irrimediabilmente separati […] La scrittura è dialogo con l’alterità, un’alterità spesso vissuta come lontana e inaccessibile. (7)


Tale alterità può essere contattata nello spazio intermedio della scrittura, luogo in cui i daimones ricompongono quell’imago di cui si desidera l’amore.
Possiamo a tal riguardo accostare Hawthorne a un altro autore tormentato e insieme maturato dalla sua menomazione, Joe Bousquet, con il quale troviamo delle sorprendenti analogie. Anche l’esistenza dello scrittore francese porta inciso il marchio della diversità, ed è proprio un accidente che costringe entrambi gli autori a confrontarsi con l’enigma della malattia ed il senso del male. Ferito da una pallottola proprio a ventun’anni Bousquet (alla stessa età Hawthorne si ritirò in clausura nella sua chamber) restò paralizzato a letto in una stanza illuminata solo dalla luce artificiale. Nella penombra di quella camera, la scrittura di Bousquet si fa discesa nelle profondità dell’essere, luogo in cui rivelarsi e insieme decifrare il senso della sofferenza. Tale sprofondamento nella notte dell’anima, si nutre della segreta speranza di un lento riemergere dall’oscurità, grazie proprio a quella ferita-feritoia dalla quale traspare il significato della infermità come strumento della propria rinascita.

L’“infermità” di Hawthorne è dunque più immaginaria che reale, più “voluta” che subita, possiamo dire più “sognata”. Questo autore ha molto a che fare col mondo della psicoanalisi, poiché appunto quel mondo l’ha sognato, lo ha filtrato con gli occhi della sua immaginazione, lo ha percepito, e ce lo ha raccontato con le sue “visioni romanzate”. La finzione di Hawthorne è cosparsa di simboli o meglio questo simbolismo è un modo di esprimere le sue idee e i suoi pensieri attraverso metafore, immagini, fantasie, visioni. Indubbiamente questo suo modo di scrivere lo pone in un posto molto speciale: un mondo fantastico e profondamente reale. Ciò che per lui è importante, non è come le cose sono veramente, ma come esse sembrano a lui. “To write a dream” (scrivere un sogno) era l’ambizione riccorrente dell’autore, come direbbe Orazio “hoc erat in votis” (questo era il mio desiderio) con l’intento di catturare “the intricable experience of real dreams” (l’intricata esperienza dei sogni). Attraverso le sfumate e nebulose atmosfere dei sogni Hawthorne mira ad entrare nell’intimo dei personaggi e, come usa dire Henry James “filtra il mondo attraverso il cuore senza uscire fuori (without going outside)” I personaggi sono rimossi dal reale e ricreati nell’immagine del mondo fantasioso di qualcuno; “le sue storie non imitano la realtà, esse imitano la fantasia”(8) che si nutre di un “territorio neutrale” dove le cose reali diventano contenuti dell’immaginario dissolvendosi nella penombra lunare, quando oggetti familiari e reali perdono la loro consistenza e vengono ricreati con la luce dell’immaginazione. Con le parole dell’autore:


If a man, sitting all alone, cannot dream strange things, and make them look like truth, he need
never try to write romances. (9)


Personalmente ritengo che il periodo di maggior interesse per uno psicologo, sia quel momento della vita durato nel caso di Hawthorne tredici anni, in cui l’autore si ritira nella sua chamber per seguire – uso ancora le sue parole – a dark necessity. Abbiamo già detto e mi preme sottolinearlo, che questo è il momento più egoistico e meno oblativo. Ma più fertile e creativo. Circa trent’anni prima che Freud nascesse, Hawthorne opera ciò che potremmo definire un inconscio tentativo di autoguarigione attraverso quella destrutturazione (in tal caso scelta e voluta) che come spiega Aldo Carotenuto “può costituire lo stimolo per iniziare la difficile discesa agli inferi, necessaria per un nuovo orientamento della personalità”.(10) Per dirla con le parole di Joe Bousquet: “cadi per divenire la mano che ti trattiene”.
E Hawthorne cade, si ritira, si isola, si prescrive una sorta di automutilazione sociale, una esclusione dal mondo a cui fa da contraltare ciò che da quel vuoto fertile nasce: la scrittura. Possiamo immaginare che Hawthorne sia in analisi con un alter ego rappresentato esteriormente dalla scrittura che, da “bravo/a analista”, gli consentirà un rimodellamento creativo che nasce proprio, per usare un linguaggio Ferencziano, dalla “decostruzione” di se stesso, verso cui quel ritiro conduce. Concludiamo che una tale produzione letteraria sorge dal deserto, quello stesso deserto la cui pratica lo accomuna al Leopardi. (11)

Ma perché nel deserto Hawthorne fantastica? Parafrasando una nota legge dell’anima che recita così: “narrare è già curare”, potremmo dire che il fantasticare è già curare nella misura in cui esso incarna quello che Jung definiva il “mito personale” vale a dire l’attivazione massima delle nostre potenzialità dovuta alla corrispondenza di azione e pensiero, agire e sentire. Pertanto, al cospetto di tali apparizioni, rapiti dai demoni e sprofondati nella “sospensione”, si libra il nostro anelito ad una possibilità di trasformazione. E quella “modificazione” Hawthorne la accolse. A noi non resta che dedicare l’intera vita per “leggere” le sue opere…
Concludiamo con un bellissimo passo che anticipa quella che cinquant’ anni dopo diverrà la pratica elettiva del medico dell’anima. Così Hawthorne ne descrive le qualità, nel personaggio di Roger Chillingworth, il gentile medico “amico”:


E così Roger Chillingworth, - l’uomo di grandi abilità, il gentile medico amico – cercava di sondare il petto del suo paziente, di scrutare fra i suoi principi, di spiare i suoi ricordi, di esaminare tutto con un tocco delicato, come chi cerchi un tesoro in una oscura caverna. Pochi segreti possono sfuggire a un investigatore, che abbia la possibilità di intraprendere una simile inchiesta, e l’abilità di condurla a termine. Un uomo gravato da un segreto dovrebbe, a ogni costo, evitare l’intimità del suo medico. Se quest’ultimo possiede una naturale sagacia e una qualche altra virtù difficile a definire, che potremmo chiamare intuizione; se egli non rivela un indiscreto egotismo né alcuna caratteristica sgradevolmente evidente; se possiede la capacità, che deve essere innata di portare la sua mente a una tale affinità con quella del suo paziente, che quest’ultimo senza accorgersene, esprima a parole ciò che ritiene di aver solo pensato; se queste confessioni sono ricevute senza agitazione, e accolte non tanto con una espressione articolata di simpatia quanto in silenzio, con un vago sospiro, una parola intercalata qua e là, quasi a indicare che si è capito tutto; se a queste qualità di confidente unisce i vantaggi offerti dal suo carattere riconosciuto di medico; allora, in un qualche inevitabile momento, l’anima del paziente si dissolverà e comincerà a trapelare in un oscuro ma trasparente flusso, che porta alla luce del sole tutti i suoi più gelosi segreti. (12)



CITAZIONI


(1) N. Hawthorne, in introduzione a La lettera scarlatta, Einaudi, Torino, 1951, p. VII.
(2) Ibidem, p. VII.
(3) Ibidem, p. VII.
(4) Ibidem, p. VIII.
(5) Ibidem, p. X.
(6) R.H. Fogle, Hawthorne’s Fiction: The Light and the Dark, Norman 1952, pp. 110-118.
(7) C. Schillirò, “La Ferita-Feritoia”, in Forme del Sapere in Psicologia, Bompiani, Milano 1993, p. 71.
(8) R. Chase, Il romanzo americano e la sua tradizione, tr. It., Torino 1974, p. 76.
(9) N. Hawthorne, The Scarlett Letter, Penguin Books, New York, 1962, p. 66.
(10) A. Carotenuto, La nostalgia della memoria, Bompiani, Milano, 1988, p. 291.
(11) Cf. M. A. Rigoni, Il pensiero di Leopardi, in Giornale storico di psicolgia dinamica, Liguori, Napoli 1998, vol. XXII, fasc. 44, p. 131.
(12) Op. cit., N. Hawthorne, The Scarlet Letter, pp. 145-146.


Roberto Ruga psicologo-psicoterapeuta e Cinzia Criserà professoressa di lingue e letterature straniere vivono e lavorano in ViboValentia.

Dott. Roberto Ruga

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