Lettera da un paese lontano

J. Alfred Prufrock

Gentile psicologo/psicologa. Forse, quando si è da tanto tempo in uno stato di difficoltà diventa sempre più difficile parlarne. Credo che questo sia il mio caso. Negli ultimi quattro anni ho scritto tantissime lettere, alcune come queste rivolte a degli psicologi, altre rivolte semplicemente a me stesso. Non so perché aumenta questa difficoltà a parlare. Forse mi sento troppo avanti in ciò che sono, non penso che queste lettere siano inutili quindi sicuramente non è per una mancanza di fiducia nel vostro operare. La realtà probabilmente è che ho imparato a convivere così, ho imparato a sopravvivere anche nei momenti più bui e la mia vita continua benissimo senza che si chieda se sia felice o meno. Sono uno studente, credo di andar bene all'università e non ho nessun problema in famiglia ed ho amici che mi vogliono bene. Forse ho paura, ho paura di perdere questa stabilità ed è per questo che ho così tanto timore nel affrontare questa questione seriamente e mi chiedo cosa dovrebbe cambiare nella mia vita.
O ancora (ed è forse questa la verità) ho troppo pensato ai miei problemi per poter credere/volere qualcos'altro. Al momento, tutto questo l'ho detto solo per me stesso.
Perché vi scrivo? Neanche rispondere a questa domanda è facile. Sono arrivato ad un punto in cui l'unica cosa su cui riesco a pronunciarmi è il suicidio. Un tempo non era così, un tempo la questione per me era "mi sento lontano dagli altri uomini, sento di avere separati in me anima e corpo, nessuno mi conosce, nessuno sa ciò che provo". Nelle prime lettere che scrissi, tantissimi anni fa, dicevo che avrei voluto vivere "seguendo i miei sentimenti" ed è una cosa così romantica ed adolescenziale. Dicevo che avrei voluto un rapporto diverso con gli uomini, un rapporto molto più profondo, quasi spirituale. In una lettera scrissi che avrei voluto essere come William Blake, che credeva che dote dei poeti fosse quella di spostare le montagne e di spostarle veramente. No, non ho disprezzo per quello che scrivevo, lo credevo veramente, credevo che avrei dovuto chiedere altro alla mia vita, altro rispetto alle questioni del mondo, altro rispetto alla politica, alle stragi e alla violenza.

Continuo a ripetere che questo è così pateticamente adolescenziale, ma avrei voluto tornare ad avere verso il mondo e verso la vita le stesse, diciamo, "speranze" di quando ero bambino. È probabile che la realtà mi si sia precipitata addosso, senza neanche accorgermene. Ricordo che i primi pensieri sul suicidio li avevo ad 11 anni, anche se spesso erano dopo che venivo rimproverato. Questa lettera però non può continuare così, se continuo così rischio solo di perdermi. Quello che probabilmente sento tutt'ora è una mancanza di vera motivazione per continuare a vivere, di scopo. Lentamente dentro di me forse è nata una profonda indifferenza che ha inglobato ogni cosa. Sento che se non mi sono suicidato è solo perché non voglio deludere i miei genitori e i miei fratelli , solo per questo. Una volta vivevo tutto molto più profondamente, in primis la lettura, mentre ora riesco a stento a leggere ogni tanto. In ogni caso solo quando ero al primo liceo ho davvero provato a farla finita. Al quinto anno invece ho iniziato a mordermi ed a procurarmi tagli nelle braccia. Poi ho smesso perché iniziavano ad alimentare sospetti.

A nascondere la mia vita, da ciò che penso su di essa sono sempre stato bravo, nessuno mi ha mai chiesto se sono infelice o meno. Non è del tutto vero, c'era una ragazza una volta che lo sapeva ed era come me, l'unica persona verso la quale mi sono sentito legato, ma questo è un discorso lungo che non voglio approfondire. Sento solo di essermi perduto, di non essere più una persona, di non essere neanche vivo.

A volte ho profonde crisi che mi lasciano senza fiato e questo è un periodo davvero difficile. Oggi volevo provare a farmi dei tagli ma non ci sono riuscito. Avevo troppa paura stavolta. Un tempo lo facevo perché dopo stavo meglio, stavo bene come se non fosse successo niente. Non so nemmeno come devo pensarmi, vorrei chiudermi in me stesso fino a scomparire. Ora basta, non riesco a dire più niente. Grazie infinite per la pazienza, ho provato davvero stavolta a parlarvi.

2 risposte degli esperti per questa domanda

Caro  J. Alfred Prufrock,

grazie per essersi aperto con noi. Non deve essere stato affatto facile iniziare e finire un racconto su sè stessi in un momento così dolorosodella Sua vita. Ripercorrere la propria storia e il proprio dolore, rimettere in discussione il proprio valore e la propria vita un'altra volta. Credo che forse oggi, più che un tempo, lei sia pronto per affrontare questo dolore e pensare ad un nuovo epilogo, diverso da quello del suicidio. Si prenda tutto il tempo che le serve e provi a valutare l'idea di cominciare un percorso, magari per gradi, cominciando a debita distanza per poi valutare la presenza in studio. 

Potrei consigliarle qualcuno su Catania che è la mia città d'origine.

Le faccio i miei più cari auguri.

 

Gentile Alfred j. Prufrock,

il suo racconto è davvero molto toccante e comprendo quanto deve essere stato difficile per lei scriverlo, esprime tanto dolore e tanta sofferenza ma lei ha dimostrato anche un grande coraggio nel rendere pubblica la sua storia.

Mi permetto di dirle che lo stesso coraggio che è riuscito a tirare fuori per scrivere a noi, ora potrebbe provare ad utilizzarlo per rivolgersi ad un collega della sua zona ed iniziare un percorso che la aiuti ad affrontare il dolore che la affligge.

Da quello che scrive si evince anche l'immagine di un ragazzo colto ed intelligente, con una spiccata sensibilità e buone capacità di introspezione e di riflessione su se stesso e credo che queste doti, che a volte possono farci sentire soli ed incompresi, possano anche essere un punto di forza e una risorsa per incominciare a rinarrare, a riscrivere la sua storia e a darle un nuovo significato.

Comprendo la sua riluttanza a rivolgersi ad un professionista e la difficoltà a parlare di se stessi ma compito di uno psicoterapeuta è anche quello di creare un contesto accogliente e non giudicante in cui la persona possa esprimersi con fiducia e rispettare i tempi dell'altro. Non abbia paura di non trovare le parole, anche i silenzi hanno la loro importanza, le parole verranno quando sarà il momento giusto.

Se scrivere le piace e le da sollievo continui a farlo e mi auguro di poter leggere in futuro nuovamente la sua storia ma con un nuovo epilogo, in cui ha ritrovato la fiducia in se stesso e in ciò che la vita può offrirle.

Un abbraccio

Dott.ssa Monia Biondi

Dott.ssa Monia Biondi

Ravenna

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