Perché i dipendenti non ti ascoltano (e ti remano contro): il nodo che gli imprenditori sottovalutano

Quante volte, da imprenditore o titolare di studio, ti sei chiesto: "Ma perché i miei dipendenti sembrano sempre andare nella direzione opposta?"
Dai compiti semplici ai progetti più strutturati, ogni proposta è accolta con freddezza, ogni novità con scetticismo. In riunione tacciono, poi mormorano in pausa caffè. Ti trovi solo a sostenere il peso dell’azienda, con collaboratori che dovrebbero aiutarti e invece sembrano sabotare (più o meno consapevolmente) il tuo lavoro.

Questo scenario è fin troppo comune, specialmente nelle piccole imprese e negli studi professionali. Il problema non è solo “avere le persone sbagliate” (anche se a volte succede), ma più spesso riguarda dinamiche comunicative disfunzionali, confusione organizzativa e mancanza di coinvolgimento.

Il problema (non) sono i dipendenti

Molti imprenditori arrivano in consulenza psicologica o organizzativa con frasi tipo:

  • “Non ascoltano!”

  • “Devo spiegare le cose dieci volte.”

  • “Ogni volta che chiedo qualcosa, parte il mugugno.”

  • “Mi fanno passare la voglia di investire.”

Dietro queste frustrazioni si nasconde spesso un loop silenzioso: l’imprenditore sente il peso della gestione e prende decisioni da solo, non si fida pienamente del team, comunica poco o in modo poco chiaro. Il dipendente, percependo distanza o disorganizzazione, reagisce chiudendosi, difendendosi, opponendosi o disimpegnandosi. E così si crea un circolo vizioso: meno collaborazione – più controllo – meno fiducia – più opposizione.

Il primo passo per spezzarlo è uno solo: assumersi la responsabilità di ciò che accade nel sistema.

Comunicazione: il tallone d’Achille della microimpresa

Nei contesti piccoli – studi, negozi, piccole aziende familiari – si dà spesso per scontata la comunicazione. "Siamo in pochi, ci capiamo al volo", si pensa. Niente di più lontano dalla realtà.
Proprio perché si lavora a stretto contatto, ogni errore comunicativo pesa di più: un tono sbagliato, un messaggio ambiguo, una direttiva data a metà generano malumori, rallentamenti e tensioni personali.

Una comunicazione funzionale prevede:

  • chiarezza nei ruoli e nelle responsabilità;

  • ascolto attivo e feedback;

  • un linguaggio che tenga conto della persona, non solo della funzione.

Ma attenzione: non basta “parlare di più”. Serve parlare meglio.

Organizzazione: la struttura invisibile che fa la differenza

Altro nodo spesso trascurato è l’organizzazione aziendale.
"Nel nostro studio siamo solo in dieci, non servono ruoli rigidi", dice spesso chi guida piccole realtà. Ma anche (e soprattutto) nei gruppi piccoli, se i confini non sono chiari, le persone si pestano i piedi. La mancanza di struttura alimenta fraintendimenti, conflitti, perdita di tempo e potere decisionale centralizzato (che stanca chi lo gestisce).

Una buona organizzazione non significa burocrazia, ma:

  • flussi di lavoro chiari;

  • ruoli e mansioni definiti;

  • strumenti di coordinamento semplici ma costanti (riunioni brevi, dashboard, procedure condivise).

Senza struttura, il gruppo regredisce: si litiga, si accusa, ci si deresponsabilizza.

Il caso XXY: uno studio di commercialisti in stallo

Prendiamo un esempio concreto. Lo studio XXY (di cui non faccio il nome reale, per riservatezza) è un team di 10 persone, guidato da due soci. Arrivano da me dopo un anno particolarmente faticoso: turnover alto, conflitti interni, clienti persi. Durante la prima consulenza, emerge un quadro tipico:

  • i due soci gestivano tutto in prima persona;

  • lo staff non aveva ruoli chiari, solo "chi è più bravo si prende il compito";

  • comunicazione quasi esclusivamente via e-mail o WhatsApp, zero riunioni strutturate;

  • clima interno di silenziosa sfiducia reciproca.

L’intervento ha previsto un percorso di sei mesi con queste fasi:

  1. Mappatura del sistema: abbiamo analizzato i ruoli, i flussi e i punti critici. Non si trattava solo di “chi fa cosa”, ma come si lavora insieme.

  2. Ridefinizione delle responsabilità: ogni dipendente ha avuto un ambito chiaro, con un minimo di autonomia. Questo ha ridotto l'effetto "tutti fanno tutto", fonte continua di scontro.

  3. Creazione di rituali comunicativi: 15 minuti di check settimanale, una riunione mensile più ampia, aggiornamenti mensili con ogni dipendente. All’inizio sembravano “una perdita di tempo”, poi sono diventati l’ossatura dello studio.

  4. Formazione dei due soci sulla comunicazione assertiva: non si trattava solo di “essere più gentili”, ma di sapere quando parlare, come dare feedback e quando delegare.

Dopo sei mesi, la percezione interna era cambiata drasticamente: meno mail infuocate, più collaborazione, clienti più soddisfatti e – non secondario – due soci meno esausti.

Il coinvolgimento non è un optional

Molti pensano che per motivare un dipendente servano premi, benefit o grandi progetti. In realtà, la leva più potente è il coinvolgimento reale. Sentirsi parte di un progetto, sapere di avere voce e impatto, anche minimo, nella direzione aziendale, cambia completamente l’atteggiamento delle persone.

E no, non servono grandi mezzi: basta chiedere un parere prima di cambiare un processo, spiegare il perché di una decisione, ascoltare cosa non funziona dal loro punto di vista.

Il dipendente non è solo esecutore: è parte del sistema. E come tale, o lo coinvolgi… o lo perdi.

In conclusione

Se ti sembra che i tuoi dipendenti non ti ascoltino e siano sempre contrari, fermati un momento e chiediti:
Sto comunicando davvero? Sto dando struttura e coinvolgimento?
La differenza tra opposizione e partecipazione non sta tanto nella personalità dei dipendenti, ma nel clima psicologico che si crea. E quel clima – che tu lo voglia o no – lo crei tu, ogni giorno.

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