I meccanismi delle dipendenze

I circuiti emozionali di base

Troppo spesso noi abbiamo un atteggiamento passivo che ci fa dipendere dagli stimoli esterni. Il nostro cervello, e quindi la nostra mente, è invece in grado di modificarsi non solo attraverso le esperienze esterne, ma anche grazie al contatto quotidiano con le proprie emozioni interne.
Inoltre, la presunta oggettività del reale viene messa in discussione dal fatto che noi vediamo le cose come attraverso degli occhiali deformanti, ed è proprio questo “filtro” a farci percepire la realtà in un'ottica orientata molto spesso verso la negatività.

Tuttavia le nostre esperienze potrebbero essere riprogrammate, indirizzando consapevolmente la nostra attività cognitiva ed emotiva in linea con i modelli neurali di cui tutti disponiamo sin dalla nascita, per sottrarci così all'insoddisfazione cronica ed al male di vivere.

Dobbiamo pertanto porre attenzione sul fatto che noi abbiamo due sistemi distinti nel nostro cervello: uno per le sensazioni positive, il sistema del piacere; l'altro deputato per quelle negative, il sistema del dolore, del dispiacere. Potremmo dire, semplificando, due sistemi che ci portano, l'uno ad apprezzare ciò che di buono e gratificante vi è nella nostra esistenza, e l'altro a sperimentare emotivamente gli squilibri e le contrarietà che ci accompagnano nella stessa.

Il sistema della gratificazione positiva, a livello sottocorticale, si origina nella regione del prosencefalo basale, in prossimità delle proiezioni ascendenti del sistema dopaminergico mesolimbico, e si dirige attraverso l'ipotalamo (area preottica) e l'amigdala verso la stazione finale del GPA ventrale (grigio periacqueduttale), punto in cui si dovrebbero originare le sensazioni di piacere, governate dal neuromodulatore endorfina.

Il sistema avversivo delle emozioni negative ha nel nucleo mediale dell'amigdala (probabilmente di destra), la struttura chiave per stati d'animo quali la rabbia, l'aggressività, il rancore; mentre l'ansia, la paura, le fobie si collocano nei nuclei centrale e laterale della stessa. Da questi, il tutto si proietta all'ipotalamo con le sue connessioni poi verso il circuito dello stress e verso il GPA dorsale in cui si originerebbero tali emozioni.

Dal punto di vista chimico, è il sistema dinorfinico del GPA dorsale a governare le emozioni negative.
Nel giro anteriore del cingolo, inoltre, che si connette con alcune delle strutture citate, risiederebbe il cuore del sistema dell'angoscia da separazione, del lutto, della perdita o minaccia di perdita, che può indurre stati di panico e portare in seguito a manifestazioni gravi di depressione. Il giro anteriore del cingolo si attiva anche in tutte le situazioni di dubbio e conflittualità da cui siamo continuamente afflitti.

Lateralizzazione emisferica cognitivo-emotiva

Altri studi sull'argomento hanno ormai acclarato da tempo che una più elevata attività generale a livello della corteccia frontale sinistra sottintende ad una maggiore disponibilità verso sentimenti positivi, mentre una prevalente attività corticale a livello frontale destro evidenzierebbe una emozionalità orientata in senso negativo.

Ciò suggerisce che nel nostro cervello esistono due modalità distinte per affrontare in modo vantaggioso e congruente la realtà. La diversa distribuzione delle sensazioni gradevoli e sgradevoli nei due emisferi rifletterebbe allora la presenza di modalità cognitive differenti, cioè di sistemi differenti di elaborazione predisposti a destra per affrontare gli aspetti avversivi delle nostre esperienze, in particolare le novità, l'ignoto, ciò che ci fa quindi sovente paura, che ci pone in afflizione quando non riusciamo a dominare certe situazioni per cui ci sentiamo impotenti. La parte sinistra sarebbe invece più abile nell'elaborare e analizzare, sistematizzare, gli aspetti delle nostre esperienze quando queste si fanno maggiormente familiari, quando ormai risultano acquisite e categorizzabili. Quest'attività di categorizzazione, di appropriazione, ci rende soddisfatti, ci rassicura.

In situazioni sperimentali, analizzate con la PET, in cui i soggetti dovevano affrontare compiti nuovi si vede come inizialmente sia la corteccia prefrontale destra ad attivarsi. Man mano che i soggetti prendevano poi confidenza con il compito questa attività si spostava progressivamente a sinistra. Un tale aumento è tanto più marcato quanto più la situazione sperimentale proponeva ai soggetti di affrontare compiti difficoltosi. Al contrario, quando il compito era riconducibile a nozioni già acquisite, l'emisfero destro risultava meno attivo, in quanto meno impegnato rispetto al sinistro.

Equilibri precari emozionali

Sono degni di interesse anche certi studi effettuati su individui che in seguito a traumi o ictus hanno completamente perso la funzionalità, ad es., della corteccia prefrontale destra. Queste persone, dopo l'incidente, cambiano letteralmente carattere, non percepiscono la negatività, vivono in uno stato di permanente allegria (quasi sempre fuori luogo), ignorano perfino la propria malattia. Lo stesso dicasi quando ad essere colpito è il lobo prefrontale opposto, per cui ci si trova a vivere improvvisamente in uno stato di completa ed immutabile infelicità.

Tutto questo ci fa riflettere e suggerisce che se un sistema del piacere o del dispiacere viene per qualche motivo iperattivato, esso acquisisce una sorta di autonomia rispetto alla realtà. Ciò significa che nel nostro cervello se viene drasticamente rotto l'equilibrio tra i due sistemi contrapposti, si può essere felici o infelici in pianta stabile. Ma questa non è evidentemente una situazione invidiabile, perché perdendo il senso della realtà finiamo per vedere tutto rosa o tutto grigio. Avviene un po' come può accadere , in qualche raro caso, a chi ha perso, ad es., la sensibilità al dolore. In poco tempo si autodistrugge.

La buona funzionalità dei sistemi del piacere e del dispiacere è legata ad un loro reciproco equilibrio. Sentimenti positivi e negativi si susseguono e contrappogono, si mescolano durante la giornata, scandiscono la moteplicità e la varietà degli eventi che ci coinvolgono.

Eppure non è difficile osservare quanti vivano in una condizione permanentemente orientata verso la negatività, la sofferenza, anche se tali individui si possano considerare per certi aspetti normali. Questo perché siamo abituati a sottolineare gli eventi negativi dell'esistenza, i nostri presunti malanni, mentre ignoriamo quasi del tutto ciò che è positivo, a meno che non ci appaia come qualcosa di straordinario. Ma facendo così, inconsapevolmente giorno dopo giorno rinforziamo i circuiti del dispiacere nel nostro cervello, creando i presupposti per futuri eventuali comportamenti disadattativi.

Quando il nostro cervello è oberato dall'afflizione, dall'insoddisfazione cronica, cessa di funzionare come “il centro tranquillo e riflessivo di un mondo ordinato”.

Emozioni negative e alterazione del sistema noradrenergico

Come si può arrivare a tutto ciò? Abbiamo visto che l'attività protratta di rinforzo inconscio delle emozioni negative, mentre quasi si ignorano o minimizzano quelle positive, a meno che non siano ritenute particolarmente esaltanti, ci rende sempre più propensi e pronti a reagire alle contrarietà della vita in modo distruttivo. Intanto, i circuiti dell'amigdala regolanti le emozioni negative, si rinforzano e si fanno maggiormente sensibili.

Ma non c'è solo questo. A livello cerebrale, nella corteccia, si verificano dei cambiamenti indotti da una deplezione funzionale del locus coeruleus, il centro sottocorticale da cui si dipartono due o tre mila fibre noradrenergiche che con le loro ramificazioni innervano tutta la corteccia, specialmente nella sua metà destra a livello prefrontale. Questo nucleo, che si trova nel tronco cerebrale, se iperattivato e sollecitato da continue situazioni di stress, conflitti, emozioni negative, si squilibra, non è più in grado di attivarsi come dovrebbe. Esso funziona come uno stabilizzatore dell'attività corticale e quindi dei nostri stati mentali. Infatti, la noradrenalina è un modulatore corticale con funzione inibitoria, tiene cioè a freno l'azione eccitatoria del glutammato (che il principale neurotrasmettitore eccitatorio della corteccia).

In un cervello ben equilibrato, la noradrenalina contiene nei giusti limiti il sistema del glutammato. Ciò significa che l'individuo ha il giusto livello di eccitazione ed è così in grado di affrontare le contrarietà in modo adattativo, reagendo agli stimoli adeguatamente, senza farsi travolgere dall'ansia o da impulsi aggressivi. Se invece con il tempo il nucleo del locus coeruleus viene, per così dire, ad essere “spremuto”in modo tale da non essere più in grado di svolgere la sua azione regolatrice, ecco che si sono create le premesse per ingigantire ulteriormente una reattività emozionale già predisposta in senso negativo e distruttivo. Il circuito del malessere si espande di rimando anche nella nostra mente.

Ma non è solo il locus coeruleus ad essere implicato in questo meccanismo, in quanto esso è a sua volta modulato, oltre che dalla acetilcolina, anche dalla serotonina. Una delle ramificazioni del sistema serotonin ergico, originantesi dai nuclei del rafe, termina i suoi assoni proprio sul locus coeruleus con azione eccitatoria-inibitoria. Ciò significa, ad es., che quando quest'ultimo è sottotono, il sistema serotoninergico si dà da fare per stimolarlo. E' tanto importante il ruolo stabilizzatore del locus coeruleus che, come si vede, la natura ha provveduto ad accoppiarlo ad un altro sistema modulatore allo scopo di regolarlo per farlo mantenere in equilibrio ed impedire così eccessive alterazioni in un senso o nell'altro. Ma purtroppo, c'è anche il rovescio della medaglia. L'alterazione del primo, infatti, a lungo andare si ripercuote inevitabilmente sul secondo, così anche il sistema serotoninergico si può a sua volta scompensare precipitando in una condizione di deficit.

Le conseguenze di un deficit di serotonina sono arcinote, e cioè aggressività, irritazione, impulsività. Ecco perché si sente spesso dire in giro che la serotonina sarebbe la molecola del “buon umore”. Ciò non è però del tutto corretto, sia perché i modulatori in genere, non sono una sorta di sostanze “magiche”, sia per il fatto che la serotonina non rappresenta altro che un anello di una catena che vede tra le sue maglie altre molecole modulatrici quali innanzitutto la dopamina , la noradrenalina e le endorfine.
Se dunque l'azione inibitoria modulatrice della noradrenalina viene meno e si consolida con il tempo, la corteccia diventerà allora rumorosa, ipersensibile agli stress, alle contrarietà, andrà in confusione.

Inibizione e maturazione

Vale la pena di spendere, a questo punto, qualche parola sul concetto di “inibizione”, in quanto esso pare avere un ruolo fondamentale sia per lo sviluppo cerebrale sia per garantire una corretta evoluzione e maturazione della nostra personalità, basti pensare che lo sviluppo del cervello, dopo la nascita, si basa non su di un aumento di neuroni e connessioni sinaptiche bensì su di una loro diminuizione. Ad, es., se un neurone all'inizio ha diecimila sinapsi, ne avrà poi in seguito solo un migliaio o duemila. Il processo di sviluppo e maturazione cerebrale si gioca tutto su di un'attività di potatura, cioè di selezione di alcuni circuiti che diventano preminenti a scapito di altri che a poco a poco scompaiono di scena.

I circuiti corticali, come abbiamo visto, vengono per così dire mantenuti “freddi”dal basso, dai centri modulatori del tronco encefalico noradrenergici e dopaminergici. Dall'alto, dall'azione coordinatrice e programmatrice della corteccia prefrontale che rappresenta, dal punto di vista evolutivo, l'acquisizione più recente del sistema nervoso. Essa era necessaria in quanto la corteccia ha un'organizzazione differente rispetto alle più antiche strutture sottocorticali quali il talamo, l'ipotalamo, i gangli della base, ecc. Non è composta da nuclei distinti relativamente indipendenti, ma è programmata in modo che le varie aree siano fortemente connesse tra di loro. C'era quindi bisogno di un centro ordinatore, che tenesse a freno e coordinasse l'attività di tali aree.
La corteccia prefrontale è, si può dire, il direttore d'orchestra del cervello, senza di essa l'intera struttura tenderebbe a collassare. Ed è quello che succede, ad es., in seguito a gravi traumi che la colpiscono. (vedi anche il cosidetto morbo di Alzheimer, in cui è la prima struttura a deteriorarsi). Il soggetto cambia completamente carattere, è come una nave senza timone, non perde del tutto le sue funzioni di base ma non sa come gestirle razionalmente. In particolare la corteccia prefrontale (area orbito-frontale) è deputata ad inibire le emozioni negative agendo sull'amigdala che come abbiamo visto rappresenta uno degli snodi fondamentali nel circuito del dispiacere.

Spesso la gente è convinta, ed è anche purtroppo una certa psicologia, che sfogare le emozioni negative faccia bene alla salute. C'è dietro un modello della mente di stampo ottocentesco, come se il nostro cervello fosse simile ad una pentola a pressione la quale, perché non esploda, deve far uscire ogni tanto un po' di vapore. In realtà, più piangiamo e più ci disperiamo, più sfoghiamo la rabbia e più diventiamo aggressivi, più agiamo compulsivamente e più diventiamo ossessivi. E' come gettare benzina sul fuoco.

Dovremmo invece non dare più attenzione del dovuto alle emozioni negative. Reprimerle semmai o contenerle sin dal loro primo insorgere, per impedire che debordino e diventino incontrollabili. Così, forse, saremo in grado di gestirle in modo più adattativo. Una tale capacità e padronanza in molti probabilmente non è stata mai acquisita sin da quando, ad es., da piccoli siamo stati invece incoraggiati in maniera sconsiderata da parte dei nostri genitori a sfogare le nostre rabbie, i nostri pianti capricciosi e ricattatori, i nostri impulsi ancora immaturi. E' difficile governare quello che non si è mai appreso, poiché i circuiti prefrontali deputati non sono stati convenientemente rinforzati quando erano più facilmente e naturalmente disponibili. In seguito dovremo impiegare uno sforzo maggiore, tuttavia la buona notizia è che, però, c'è sempre tempo per acquisire quello che non abbiamo appreso al momento giusto, basta che non ci facciano difetto costanza e volontà.

Abbiamo visto che il deficit di noradrenalina, ma anche di dopamina cui accenneremo poi, ha come conseguenza nella corteccia di ridurne il grado di inibizione. (L'inibizione non significa blocco, arresto, ma modulazione frenante di un sistema che altrimenti finirebbe per sovraeccitarsi). Una corteccia sovraeccitata produce un eccesso di conduzione nervosa scoordinata che a livello mentale si traduce in un senso di confusione, caos, una difficoltà a concentrarsi, a mantenere l'attenzione, a selezionare gli stimoli pertinenti da quelli che non lo sono.

Emotivamente poi vi è, irritabilità, impulsività, un senso generalizzato di sofferenza che corrisponde, a livello fisico, al dolore.

Un'altra importante struttura su cui si riverbera la modulazione inibitoria della corteccia prefrontale è rappresentata dal nucleo caudato. Questo fa parte dei gangli della base, che era la stazione operativa finale prima che ad un certo punto dell'evoluzione comparisse la corteccia. Gangli della base e talamo sono i precursori funzionali della corteccia, rispettivamente nelle sue porzioni anteriore e posteriore. L'evoluzione ha portato però livelli di integrazione superiori rispetto a quelli con cui operavano gangli della base e talamo.

La corteccia prefrontale consente un'operatività ampia basata su contesti di larghe dimensioni.Se si pensa, programma, immagina, in vista del futuro, tenendo anche conto di tanti fattori contemporaneamente, non siamo più pesantemente condizionati dall'immediato. Ma se la corteccia prefrontale si ipoattiva la sua azione modulatoria viene meno ed il nucleo caudato ritorna, in una certa misura, ad essere dominante. E' come se, nonostante la nostra dotazione superiore, regredissimo a stadi evolutivi precedenti. E l'operatività del nucleo caudato sembra tendere verso comportamenti estremizzati opposti. Da un lato verso la coazione a ripetere, all'ossessività compulsiva, dall'altro all'iperesplorazione, all'iperdipendenza dagli stimoli, alla ricerca coatta del nuovo.del diverso, del rischio trasgressivo.

E con ciò, abbiamo aperto le porte e spianato la strada verso il variegato tunnel delle dipendenze.

Il sistema gustativo: un modello di dipendenza di attualità

Passiamo ora ad esaminare come i circuiti del piacere e del dispiacere si coniughino, per es., ad un bisogno primario quale è il cibo, tra l'altro fra i più indagati anche a livello cerebrale, il circuito gustativo parte dai vari sensori distribuiti nella lingua che si raggruppano in più di centomila fibre riunite in tre nervi cranici (il settimo, il nono e il decimo), che sfociano in un'area chiamata nucleo del fascicolo solitario. Da questo si diparte un circuito, che possiamo chiamare circuito gustativo cognitivo, che poi si dirige verso la corteccia dell'insula (un'area infossata tra il lobo frontale e quello temporale). Un altro circuito, che possiamo definire gustativo affettivo, raggiunge invece le aree dell'ipotalamo e dell'amigdala.

Come si vede, nel cervello aspetti cognitivi ed emotivi sono distinti ma anche strettamente collegati da un punto di vista funzionale. I sistemi del piacere e del dispiacere, di cui abbiamo parlato in precedenza, sono intimamente collegati ai circuiti cognitivi da cui dipendono. Non esiste emozione senza cognizione, anche se spesso non ne siamo consapevoli, questo perché il sistema cognitivo lavora per lo più al di sotto della soglia della coscienza.

Così, ad es., per sentire il piacere del cibo occorre un circuito cognitivo (aree di proiezione corticale), uno emotivo (amigdala, grigio periacqueduttale governato dagli oppiacei), ma non basta. Ci vogliono pure dei sistemi di integrazione superiori in zone della corteccia prefrontale. Questa è infatti l'area che ha più collegamenti con tutte le altre parti del cervello (sia a livello corticale che sottocorticale), altrimenti non sarebbe in grado di dirigerle e gestirle in maniera efficace.Senza questo ulteriore processo di integrazione la sensazione gustativa perderebbe di significato, di interesse. In parte lo abbiamo sperimentato tutti. Quando mangiamo distrattamente, spostando la nostra attenzione verso qualcos'altro, magari in fretta, non riusciamo ad apprezzare il cibo che assume una tonalità neutra in quanto viene a mancare in parte , ed a ridursi , l'influenza della corteccia prefrontale con i suoi processi interpretativi di ordine superiore.

Chi soffre poi di attacchi di compulsività ciclica riguardo al cibo, è difficile pensare che ne possa trarre piacere. C'è da chiedersi se questa sia propriamente un'esperienza positiva o piuttosto un'ambigua esperienza negativa di cui alcune persone non possono , loro malgrado , fare a meno.

La dubbia positività di un'ingestione compulsiva di cibo viene ulteriormente messa in discussione dal fatto che vi è un altro sistema parallelo da prendere in considerazione. Si tratta di quello veicolante i messaggi viscerali provenienti dal nervo vago che confluiscono proprio (anche se in maniera distinta) sul nucleo del fascicolo solitario. E' interessante una tale vicinanza spaziale tra il sistema esterocettivo dei sapori con quello enterocettivo che veicola i messaggi sensoriali provenienti dal tubo digerente. Anche quest'ultimo proietta sull'insula ed ha ulteriori collegamenti con l'amigdala, ci informa quindi sullo stato di benessere o malessere rispetto ai nostri organi interni. Un eccesso di cibo è evidente che ne altererà il funzionamento in senso negativo con l'attivazione finale del sistema dinorfinico del GPA.

Nella corteccia prefrontale (area orbito-frontale posteriore) esistono due centri paralleli che sembrano veicolare l'uno il valore affettivo positivo, gratificante del cibo, e l'altro quello negativo repulsivo. Quando ingeriamo un alimento, in quanto affamati ed attratti da esso, se ne attiva il primo localizzato in una zona mediana. Quando invece cominciamo ad essere sazi si attiva il secondo localizzato in una parte più laterale, sempre dell'area orbito-frontale posteriore. Questi centri sembrano inoltre essere specifici per alimento. Ciò spiegherebbe perché quando siamo sazi e però vogliamo continuare a mangiare, si tenda a passare da un alimento ad un altro in modo da disattivare e riattivare il sistema ora descritto.

Tirando le fila, da quanto sinora discusso, ci viene da fare un ulteriore riflessione, e cioè che sembra difficile poter fare una distinzione tra “fame fisica”e “fame emotiva”, come si sente spesso affermare, per il semplice motivo che anche la cosidetta fame fisica è connotata emotivamente. Non è che siamo affamati e mangiamo perché vi è solo un deficit di nutrienti. Senza emozione, la cognizione(in questo caso della fame) verrebbe ad essere paralizzata. D'altronde, inversamente, senza cognizione l'emozione è cieca.

I meccanismi regolatori neurochimici agenti sull'ipotalamo (la centralina che regola l'omeostasi interna), per quanto riguarda il cibo, sono svariati sia di tipo attivatorio che inibitorio. A livello centrale sono inibitori la serotonina, la noradrenalina e la dopamina. A livello periferico, la leptina la colecistochinina la bombesina, la somatostatina. Sono attivatori, centralmente, gli oppiacei endogeni che ci stimolano ad ingerire in particolare grassi e proteine mentre, perifericamente, la grelina. Il neuropeptide Y e l'insulina ci fanno propendere verso il consumo di carboidrati. Da quanto riassunto, risulta che un deficit cronico di serotonina, noradrenalina e dopamina favorisce l'attrazione verso il cibo, la sua appetibilità. In particolare, un deficit di serotonina appare sintomatico in coloro che soffrono di dipendenza dal cibo, e tra l'altro, appare come denominatore comune in tutti coloro che soccombono rispetto ad altri generi di dipendenza. Tutti sono dominati dal demone dell'impulsività.

Dinamiche del sistema del desiderio

In questo mosaico di squilibri, che si intersecano, si influenzano reciprocamente, non potevamo non parlare del sistema dopaminergico che con la dipendenza ha molto a che fare, la dopamina è pur sempre la sostanza che ci spinge, a volte anche quando noi non vorremmo. Tale complesso circuito modulatore viene chiamato in vari modi: il sistema dei bisogni, delle motivazioni, delle attese, delle aspettative, del desiderio. Ci impegna in ogni momento della nostra vita nel raggiungimento dei nostri obbiettivi. Dal suo corretto funzionamento dipende il nostro stato generale di benessere o malessere. Ma esso non coincide con il sistema della gratificazione, come a volte si insiste a dire.

La dopamina non è la molecola del piacere bensì del desiderio.

Dei circuiti sottocorticali del piacere e del dispiacere abbiamo già discusso, essi hanno le loro reti ed i loro neuromodulatori. Ciò non toglie che tra il sistema del desiderio e quello della gratificazione non vi siano stretti collegamenti.Ma è bene ribadire questa distinzione, soprattutto per il nostro ragionamento, in quanto altrimenti non potremmo spiegare perché nelle dipendenze vi sia l'impulso a ripetere , in non pochi casi, esperienze emotivamente negative. Detto in poche parole, perché desideriamo star male, il che pare un'assurdità, un controsenso, un'ipotesi rifiutata del resto a priori dal senso comune.

Il sistema del desiderio si origina nel tronco encefalico, area del tegmento ventrale (VTA). Si espande superiormente nel ramo mesocorticale verso la corteccia prefrontale, dove aspetti cognitivi e di emotività superiore si coniugano. Il ramo mesolimbico, invece, termina nel nucleo accumbens, la cui attivazione sembra fondamentale per rinforzare il comportamento appreso, e che proietta con azione inibitoria sul globo pallido interno (output dei gangli della base). Il risultato finale di tutto ciò è rappresentato da un effetto facilitatorio, tramite il talamo, sulla corteccia motoria. Come si vede, nel sistema del desiderio cognizione, emozione e azione appaiono strettamente correlati. Del resto tutti noi abbiamo provato comunemente , quando si è fortemente attratti da qualcosa, eccitamento ed un irresistibile bisogno di movimento, un impulso ad agire.

Soggetti che a livello sperimentale hanno voluto provare su se stessi come ci si senta bloccando temporaneamente la trasmissione dopaminergica, riferiscono di uno stato di completa abulia, apatia, incapacità di muoversi o intraprendere una benché minima iniziativa. Ciò assomiglia molto ad uno stato di grave depressione.

Perché si arrivi dunque ad entrare nel tunnel delle dipendenze occorre che preventivamente il sistema in questione si sia ipoattivato.

Non c'è una via univoca che conduca ad una tale situazione finale, tuttavia proveremo a riassumere le tappe salienti di questo percorso, senza voler con ciò suggerirne un andamento conseguenziale cronologico.

Si può iniziare con la tendenza costante a rinforzare le esperienze negative, il che, parallelamente, ci desensibilizza nei confronti di quelle positive. Ma la felicità non è gratis, come è stato detto. Se non abbiamo appreso a rinforzare i circuiti del piacere, non è che poi anche se lo volessimo ci riusciremmo a farlo spontaneamente. Mi riferisco soprattutto alle esperienze quotidiane, quelle che costano poco e che proprio per questo sembrano contare ancor meno.Ecco perché poi, per eccitarci, abbiamo bisogno di esperienze speciali e fuori dell'ordinario. E nemmeno per star bene basta essere liberi dalle sofferenze perché il benessere non si crea appunto nel vuoto.
Le esperienze negative, poi, favoriscono l'usura del sistema noradrenergico in quanto iperattivato da queste. La corteccia diventa così meno “fredda” ed equilibrata. Si crea uno stato di maggior tensione, irritazione, confusione mentale, la capacità di concentrarsi si riduce drasticamente. Un cervello troppo rumoroso ci impedisce in definitiva di affrontare la realtà con pacatezza ed obbiettività.

La nostra mente è meno lucida e capace di ragionare, riflettere, fare progetti a lungo termine. Anche il sistema dopaminergico così si ipoattiva, le nostre aspettative si scoloriscono, si perde il gusto della vita. Pian piano la corteccia prefrontale allenta il suo dominio sull'amigdala ed il nucleo caudato, strutture sottocorticali che si iperattivano. Le reazioni emotive negative sfuggono in maniera eccessiva al nostro controllo, mentre si tende inevitabilmente ad estremizzare le proprie esperienze. Ci sentiamo attratti, da un lato, da stimoli forti, novità, dall'imprevisto, mentre dall'altro abbiamo bisogno di routine cognitive consolidate, di comportamenti perseverativi. Anche le vie ippocampali languiscono, il che vuol dire che si apprende meno, si memorizza meno, si ricorda di meno.

Come s'instaura una dipendenza

Il quadro che abbiamo schematicamente riassunto rappresenta una generalizzazione e quindi un'astrazione rispetto a ciò che può succedere in certi casi nella vita di una persona. Ogni individuo è però un caso a sé e come tale va valutato.
Prima di esaminare i meccanismi della patologia delle dipendenze, è doveroso fare una distinzione a tal proposito per evitare fraintendimenti.

Se guardiamo bene siamo tutti dipendenti , chi più chi meno, e la nostra esistenza è piena di boe di salvataggio. Anche se vi è una certa continuità, possiamo distinguere due modalità di comportamento additivo. La prima, diciamo più normale, si esprime nei confronti dell'oggetto da cui si dipende, con un atteggiamento di attaccamento amche forte ma di cui non si perde totalmente il controllo. Si ha bisogno dell'oggetto in questione, ma in casi estremi se ne può fare a meno, vi si può rinunciare anche se costa sofferenza. L'altra modalità, ed è quella cui noi facciamo riferimento, è più assolutistica e si esprime in affermazioni quali: “non so vivere senza”, ”mi è indispensabile per vivere” e si manifestca attraverso spinte compulsive spesso incontrollabili.

Perché si instauri un comportamento additivo di questo tipo è necessario che l'esperienza da cui si dipende sia fortemente rinforzante. Ora sappiamo da numerosi esperimenti che ciò si verifica solo quando gli assoni che rilasciano dopamina vengono attivamente stimolati, ed in particolar modo nell'area mesolimbica del nucleo accumbens. Ma il sistema del desiderio non è il sistema del piacere. E' quindi rinforzante, per principio, qualsiasi esperienza che provochi la ripetizione di un atto, anche se questo non si può definire piacevole in senso stretto. Quando ci si ubriaca sino allo stordimento, negli sballi ad es., del sabato sera, non si va alla ricerca del piacere. Quando si assume crack, che induce cupe esperienze di paranoia, non si va alla ricerca del piacere, almeno come si intende abitualmente, ecc.

La stessa assunzione di cibo, un evento naturalmente piacevole, produce un aumento del rilascio di dopamina solo se è “sorprendente”. Questo significa che se mangiamo normalmente proviamo sì un certo piacere, in rapporto alle nostre preferenze ed alla qualità del cibo, ma non attiveremo più di tanto il circuito dopaminergico.

Per ottenere lo “sballo”occorrerà manipolare, alterare il sistema di ingestione dello stesso cibo, e questo magari anche in senso inverso, cioè riducendone all'osso la sua assunzione, come accade nelle persone anoressiche. Solo quando , in qualche modo, si produce un'esperienza “anomala”, le sinapsi dopaminergiche e del nucleo accumbens si attivano in maniera consistente, e probabilmente acquisiscono la capacità di attrarre l'attenzione su quell'evento. Qualsiasi droga, in definitiva, anche se non produce particolari effetti piacevoli, possiede la tremenda capacità, se non altro, di dominare l'attenzione di chi la consuma.

Paradossalmente, l'improvviso innalzamento dei livelli di dopamina nel sistema del desiderio, induce il cervello (e quindi anche la mente) a valutare la situazione come “positiva”, anche se non è eccezionalmente gratificante dal punto di vista del circuito del piacere e così a programmarlo verso la ripetizione. Naturalmente poi, la ripetizione rafforza nel cervello le connessioni tra l'atto ed il sentimento “positivo” che se ne ricava.

Non è dunque la ricerca pura del piacere, come spesso si pensa, a rendere gli individui vulnerabili nei confronti delle varie droghe, quanto piuvttosto il bisogno di trovare uno sfogo ad una situazione di vita fortemente sgradevole da cui non si intravede una via di uscita. Ed è proprio questo il punto cruciale. Nelle difficoltà, se si hanno delle risorse si può intravedere uno sbocco o almeno c'è la speranza di un cambiamento. Se la vita appare irremediabilmente grigia e senza attrattive, è perché il sistema del desiderio (oltre a quello del piacere) è stato seriamente danneggiato e l'unico sbocco per riattivarlo sembra essere la ricerca di esperienze compulsive eccitanti, le uniche che sembrano in grado di farlo.

D'altronde, mentre il sistema del piacere si dimostra più recuperabile, quello dopaminergico del desiderio rischia di restare durevolmente alterato.

Di fronte al senso di vuoto, di noia insopportabile, di angoscia, di insicurezza, si può scivolare impercettibilmente da un'apparente normalità al comportamento patologico. La dipendenza si insinua lentamente nel quotidiano sino ad arrivare alla soglia di una ritualità compulsiva che appare al soggetto come un male necessario per continuare a vivere, per calmarsi e sentire di esistere. Altre volte, invece, il passaggio può avvenire in maniera piuttosto repentina, violenta, magari in seguito ad un episodio negativo o traumatico scatenante.

Abbiamo esaminato i meccanismi di base che possono favorire l'insorgere di comportamenti additivi e possiamo concludere che tali meccanismi sono analoghi per ogni forma di dipendenza.
Tutto ciò ha una ricaduta dal punto di vista terapeutico e se pur si dovrà tener conto delle specificità di ogni singolo caso.tuttavia non si potrà prescindere dal prendere in considerazione quei processi di base che predispongono e poi sostengono la dipendenza. Non è solo etichettando il disturbo che si risolve il problema, anche se ciò ci tranquillizza momentaneamente, offrendoci un po' di ordine al senso di confusione interiore e smarrimento da cui vorremmo sfuggire.

C'è da chiedersi inoltre come dei fattori predisponenti possano poi concretizzarsi nel convergere verso una specifica dipendenza.

Qui evidentemente sono in gioco, come si sa, elementi condizionanti sia di natura esterna che interna.

Per quanto riguarda la dipendenza dal cibo non bisogna dimenticare, ad es., l'impatto che ha nella nostra società l'attenzione quasi morbosa che sin dall'infanzia la famiglia riversa sul comportamento alimentare, visto anche come merce di scambio per ottenere affetto e ricompense. E' evidente che l'importanza che il cibo assume nelle dinamche familiari si imprime nel cervello ancora in via di formazione del bambino, ponendo così un'ipoteca sui suoi futuri comportamenti. In età adulta, non dimentichiamo inoltre, l'impatto che hanno nella nostra società l'imposizione di certi modelli estetici femminili nei cui confronti si può instaurare una osservanza rigida e restrittiva come avviene nell'anoressia oppure una sorta di ribellione autodistruttiva come nelle iperfagia e nel BED o ancora un adattamento ambiguo come nelle bulimie patologiche e anoressiche.

Tra i fattori condizionanti interni sono determinanti le caratteristiche della personalità dell'individuo da analizzarsi durante l'eventuale trattamento psicoterapico, come certe sue inclinazioni particolari: ad es., l'attrazione verso certi alimenti quali i latticini ed i carboidrati può nascondere il bisogno inconscio di riattivare il sistema endorfinico del piacere, in quanto la caseina ed il glutine in essi contenuti predispongono l'organismo alla sintesi di oppiacei endogeni.

Non dobbiamo, poi, tralasciare l'influenza specifica, anche se più limitata , dei fattori genetici. Ad es., nei casi di compulsività alimentare si ipotizzano delle alterazioni nella neurotrasmissione. Un basso livello di secrezione postprandiale della colecistochinina e più alti livelli del neuropeptide PY, finiscono per alterare il senso della sazietà.

Nei casi di obesità vi potrebbe essere implicata anche la mutazione di un gene per il recettore della melanocortina, con la conseguenza di un aumento della fame. In casi più rari il difetto genetico si tradurrebbe in una diminuita produzione di leptina e/o in una diminuita sensibilità dei suoi recettori.

A livello meno specifico, non dobbiamo trascurare alterazioni genetiche quali quelle che inducono una riduzione nel numero dei recettori D2 dopaminergici e quelle riguardanti la codifica per un recettore della serotonina che si traducono poi in una minor quantità dello stesso presente nei neuroni del sistema serotoninergico. Ciò ha come conseguenza una disinibizione, tra l'altro, nei confronti dell'attrattività degli stessi alimenti. Inoltre, secondo studi effettuati, si può verificare una maggiore attivazione del sistema del dispiacere poiché l'amigdala si fa più sensibile agli stress, venendo a decrescere l'effetto inibitorio che la stessa serotonina ha su questo nucleo.

Ma il medesimo effetto può essere ottenuto, come abbiamo già detto, quando iperattiviamo il sistema del dispiacere rinforzandolo in maniera sconsiderata in modo da favorire la deplezione del locus coeruleus.

Strategie psicoterapeutiche

Vorrei concludere non prima di aver evidenziato alcuni punti che mi sembrano cruciali ed ai quali un eventuale intervento psicoterapeutico dovrebbe dare la dovuta attenzione.

Primo punto: i pazienti in terapia hanno spesso la convinzione che la dipendenza di cui ostinatamente soffrono, abbia magari una qualche origine misteriosa, faccia parte di un lato oscuro della propria personalità e sia perciò insondabile. Tutto questo finisce per disincentivare inconsciamente l'impegno terapeutico. Una conoscenza quindi, accessibile e semplificata dei meccanismi cerebrali che sottintendono il funzionamento della mente sarebbe auspicabile. Si combatte meglio ciò che si conosce.

Secondo punto: non sottolineeremo mai abbastanza il fatto che dietro un comportamento additivo vi è da parte del soggetto il bisogno sottaciuto, e totalmente ripudiato a livello conscio, di farsi del male. Poche persone sono disposte ad accetteare un tale assunto che va contro il senso comune. L'eventuale impegno in psicoterapia potrebbe apparentemente voler dire il contrario. Ma l'apparenza spesso inganna.

In primis , va sottolineato che la maggior parte delle persone che hanno problemi di dipendenza non va alla ricerca di un aiuto costruttivo che impegni, anzi è facile che passi con il tempo da una a più dipendenze. Poi, è noto che ci si rivolge ad un professionista non ai primi stadi della dipendenza bensì quando la situazione si è ormai incancrenita e sfuggita di mano, producendo così inoltre forti sensi di colpa. La psicoterapia servirebbe allora a ridurre tali sensi di colpa e ad abbassare, se possibile, il livello di sofferenza che ha oltrepassato la misura che siamo disposti a tollerare.

Senza un'accettazione consapevole ed approfondita, anche se non colpevolizzante, del proprio potenziale autodistruttivo è difficile alla lunga progredire in modo costante nel cammino verso il superamento della dipendenza.

Terzo punto: i soggetti dipendenti da crisi di compulsività ciclica, in particolare, soffrono di un profondo senso di disistima nei propri confronti che contribuisce a disincentivare ogni serio tentativo di recupero. Riacquistare però un po' di autostima è necessario per innestare il circolo virtuoso verso la guarigione. Bisogna tuttavia vedere cosa s'intenda con ciò, visto che nella nostra società il termine risulta inscindibilmente legato al concetto d'immagine, e all'immagine ci tengono del resto tutti. Non c'è da meravigliarsi quindi che coloro i quali soffrono di comportamenti additivi facciano di tutto per nascondere la loro impulsività coatta, nei momenti specialmente in cui perdono il controllo. Se però insistiamo nel mantenerci vincolati al concetto d'immagine non andiamo da nessuna parte. Del resto, nel confronto con gli altri riusciremo sempre perdenti. Né aumenteremo la nostra autostima recitando vuote formule giaculatorie. Se invece essa riflette la valutazione approfondita e costruttiva che abbiamo nei nostri confronti, allora l'autostima non potrà radicarsi che nella concretezza del reale, in un processo operativo che ha come fine da parte del soggetto la conoscenza del proprio sé.

I filosofi antichi, a tal proposito, parlavano di ascesi e cioè letteralmente di “esercizio”. Dopo tanti secoli, non si conoscono ancora altre scappatoie. Una tale conoscenza non rappresenta un lusso bensì una necessità ineludibile.

Quarto punto: vincere una dipendenza non è facile. Ma non lo è neppure mantenere le distanze da questa, una volta che pensiamo di essercene liberati. Il problema delle ricadute è frequente, spesso si sottovaluta il pericolo e si sopravvalutano le proprie forze.

Quando s'instaura una dipendenza, i circuiti cerebrali in questione vengono ad essere continuamente rinforzati, e tanto più lo sono quanto maggiore è il coinvolgimento emotivo. L'attivazione ripetuta del sistema dopaminergico del desiderio coinvolge del resto anche l'ippocampo, la struttura che rende possibile la formazione nella neocorteccia di ricordi a lungo termine apparentemente indelebili. In definitiva, l'instaurarsi di una dipendenza è un vero e proprio processo di apprendimento altamente coinvolgente e perciò resistente ad estinguersi. Il ruolo della dopamina è fondamentale in quanto favorisce indirettamente la crescita ed il rafforzamento di nuove sinapsi.

Fortunatamente la ricerca sperimentale ha dimostrato che esistono meccanismi inversi, i quali consentono di depotenziare i circuiti precedentemente rinforzati. Le connessioni sinaptiche si possono indebolire se i neuroni in questione vengono ad essere riattivati più debolmente in maniera prolungata.

Questo sembra possibile nel nostro caso, se l'attivazione ripetuta del comportamento additivo viene depotenziata da un minor coinvolgimento emotivo, che lo renderà progressivamentce meno rinforzante.E ciò si potrà verificare se parallelamente saremo in grado di rinforzare i circuiti del piacere in modo alternativo, con comportamenti costruttivi adeguati sottraendo così energia emotiva a quelli additivi.

Queste basi neurofisiologiche dell'estinzione ci suggeriscono che è probabilmente più efficace una tale procedura piuttosto che la semplice rinuncia (di solito forzata) al comportamento additivo. In tal caso, infatti, l'attrattività di quest'ultimo verrà con il passare del tempo a potenziarsi, e con essa anche il coinvolgimento emotivo. I rischi di ricadute si fanno per tanto sempre più probabili.

Quinto punto: dobbiamo concludere che alla fine siamo tutti a rischio dipendenza, se non si è appreso a coltivare le emozioni positive ed a tener a freno, per quanto è possibile e conveniente, quelle negative. Le dotazioni nervose che ereditiamo sin dalla nascita non ci garantiscono il loro buon funzionamento ove non le avessimo doverosamente esercitate.

E' stato già detto che la felicità non è gratuita, mentre noi ostinatamente vogliamo continuare a credere che essa dipenda unicamente da eventi esterni a noi, che saremo finalmente felici quando riusciremo a liberarci dalle circostanze avverse che ci opprimono. Ma se non abbiamo esercitato con le opportune esperienze, con un corretto stile di vita i circuiti del piacere, il benessere e la felicità (umanamente intesa) ci sfuggiranno sempre di mano.

La qualità della nostra vita dipende molto meno di quanto si pensi dal mutare degli eventi esterni, siano essi positivi che negativi.

In definitiva, la cura dei comportamenti additivi scorre su due binari paralleli. Da una parte il ricablaggio dei circuiti relativi alla specifica dipendenza con lo scopo di indurne l'estinzione. Dall'altra, la riduzione del fuoco che alimenta ogni dipendenza, e cioè di quello stato di malessere esistenziale rumoroso che spinge la nostra attenzione verso quegli stimoli, come in un miraggio, da cui finiremo poi per essere fatalmente attratti e dipendere.

Fonti bibliografiche:

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Le Doux Joseph, Il sé sinaptico, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002
Mundo Emanuela, Neuroscienze per la psicologia clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009
Ratey John J., Johnson Catherine, Le sindromi ombra, Longanesi&C., Milano, 2000
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