identità sociale ed individuale

Il costrutto dell’identità racchiude in sé diversi aspetti, alcuni dei quali possono essere contraddittori ma, comunque, coesistenti e perfino complementari tra loro; il suo studio riguarda vari ambiti, come quello filosofico, sociologico, psicoanalitico e politico, ed il risultato di tale studio può portare a conseguenze importanti sulla vita pratica dei singoli e delle comunità, a seconda delle epoche storiche di riferimento.

A fondamento delle teorie sociologiche sull’identità vi sono alcuni concetti filosofici quali, per esempio, la logica aristotelica che sostiene che “ogni cosa sia se stessa e non sia nient’altro”, dalla quale derivano il “principio di non contraddizione”, secondo cui non è possibile dichiarare e, contemporaneamente, negare un predicato di uno stesso soggetto ed il “principio del terzo escluso”, per il quale tra due dichiarazioni contraddittorie, non esiste una terza possibilità, ovvero una proposizione o è vera o è falsa. La logica dialettica hegeliana, al contrario, ritiene che la realtà sia continuamente attraversata dalla contraddittorietà, che rappresenta “la radice di ogni movimento e vitalità”. Ogni determinazione, infatti, implica la trasformazione nel suo opposto e l’integrazione di entrambi in una sintesi che li mette in relazione reciproca; il divenire, dunque, ha un primato sull’essere (“la verità dell'essere, come quella del nulla, è quindi la loro unità e questa unità è il divenire”).

Tali principi filosofici sono inclusi nel concetto d’identità, così come viene definita dalle scienze psicosociali, ossia come la concezione che l’individuo ha di se stesso cui giunge in età matura a seguito di progressive crisi che avvengono nel corso del suo sviluppo; essa comprende l’insieme delle caratteristiche che rendono un soggetto unico ed irripetibile e, pur cambiando durante la storia personale e nel contesto sociale, mantiene una propria stabilità e continuità nel tempo.

L’identità, dunque, implica sia l’uguaglianza e tutti gli aspetti di condivisione che contribuiscono a generare un senso di appartenenza ad entità plurali (quali la famiglia, il gruppo dei pari, il gruppo di lavoro, la cultura, la nazione), sia la differenza, rispetto ad altri gruppi e rispetto a membri del medesimo gruppo, dai quali ci si distingue per caratteristiche personali e storia di vita.

Estrapolato dai contesti cui appartiene e privato dell’affetto dei propri cari, della casa, del ruolo professionale all’interno della società, della possibilità di parlare la lingua madre, in un luogo sconosciuto e senza alcun punto di riferimento che possa ricondurre alla propria storia, un individuo non è più nessuno e la perdita del senso d’identità personale che ne consegue può raggiungere veri e propri stati dissociativi.

Nel libro “Io sono con te, storia di Brigitte” la scrittrice contemporanea Melania Mazzucco racconta la storia di un’infermiera del Congo, madre di quattro figli e proprietaria di due cliniche sanitarie, alle quali si dedica con devozione che, per aver rifiutato la richiesta di un militare di uccidere alcuni degenti che avevano manifestato contro il governo, viene prelevata dalla propria casa nel cuore della notte e resa vittima di torture impensabili. Il suo valore etico ed umano, che è ciò che le toglie tutto, è anche ciò che la salva dalla morte; tra i soldati della prigione, infatti, c’è il padre di un bambino che Brigitte aveva curato nonostante la famiglia non avesse denaro, che le è riconoscente. Ed è così che la protagonista arriva a Roma, in un posto sconosciuto, dove parlano una lingua che non comprende, senza soldi, senza casa, senza contatti e con il veto di tornare nel suo paese d’origine. La stazione diventa la sua casa, la spazzatura la sua cena, nulla di quel che era le è rimasto e solo quando si sente chiamare per nome al centro Astalli, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati dove inizia il suo percorso d’integrazione, si ricorda della propria identità, riuscendo timidamente ad uscire dallo stato di depersonalizzazione nel quale era difensivamente piombata.

“Brigitte Zèbè Ku Phakua è il numero di una statistica. Rientra nelle percentuali residuali – donna, africana, maggiore di trent’anni, istruzione superiore, tra il tredici per cento dei richiedenti che hanno ottenuto lo status pieno di rifugiato, tra il quindici per cento che vivevano in strada al momento della domanda…Eppure è anche solo Brigitte – la sua storia somiglia a quella di molte, ma è solo la sua”. Il concetto di identità non si riduce a contemplare uguaglianze e differenze, identificazioni che implicano conseguenti esclusioni; come nella dialettica hegeliana, nell’identità due opposti possono essere simultaneamente compresi in una sintesi che li mette in relazione reciproca. “Se i bambini non esistessero lei potrebbe regalarsi la giovinezza che non ha mai vissuto. Se fossero con lei, potrebbe esercitare il suo ruolo di madre, occuparsi di loro, proteggerli. Invece è sola senza essere libera, è madre senza il conforto e l’onere dei figli. È una potenziale massaia senza casa, un’infermiera senza clinica e senza ricette…si chiede chi è davvero. E non ha risposta”.

Il libro, che è la storia dell’incontro tra la protagonista e la scrittrice, racconta di un Italia politicamente inadeguata ma, insieme, molto accogliente e di una persona “scelta tra mille possibili…perché è solo dentro gli occhi di ognuno che si può vedere il mondo”.

Gli aspetti di contraddizione e sintesi dell’identità non si evidenziano solo nel confronto tra individuo e gruppo o tra due individui, ma possono riguardare anche il soggetto singolo e non sempre sono consci: l’identità nasconde colori, forme ed estraneità anche all’interno di noi stessi, senza che ve ne sia necessariamente la consapevolezza.

Julia Kristeva, linguista, psicanalista, filosofa e scrittrice francese, di origine bulgara, d'adozione americana e cittadina europea, nel suo libro “Stranieri a noi stessi”, uscito per la prima volta nel 1988, affronta il tema dello straniero attraverso il racconto dell’Europa contemporanea, costituita da diverse appartenenze geografiche, culturali e identitarie che si incontrano e scontrano tra loro, facendone una riflessione che dalla storia passa alla filosofia, alla politica per poi soffermarsi su un’analisi profonda legata al tema dell’identità. Si tratta di un testo dedicato a coloro che vivono sulla propria pelle l’esperienza dello sradicamento, a coloro che sono obbligati a convivere con stranieri con i quali non vorrebbero confrontarsi e a chi si sente estraneo anche in casa propria. L’autrice passa in rassegna la storia del percepirsi straniero in un percorso che dalle origini arriva fino alla contemporaneità: dai Greci agli ebrei, da san Paolo agli illuministi, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino fino alla regressione del nazionalismo romantico per arrivare a Camus, Nabokov e, infine, all'analisi della celebre teorizzazione freudiana del perturbante, che la studiosa interpreta come l'estraneo angosciante che portiamo dentro di noi e che non riconosciamo.

Il concetto di “perturbante” è stato introdotto in ambito psicologico per la prima volta nel 1906 dallo psichiatra Ernst Jentsch e, in seguito, è stato sviluppato da Freud nel suo omonimo saggio del 1919 in cui analizza, in particolare, quell’aspetto dell’esperienza umana che produce la sensazione di paura e spaesamento di fronte ad opere e manifestazioni che hanno del soprannaturale, dell’orrorifico. Il termine perturbante, in tedesco “Unheilmich”, significa “non familiare”, “estraneo”; del suo opposto “Heimlich” Freud ne sottolinea, oltre al significato più comune di “familiare”, “intimo”, quello meno consueto di “nascosto”, “celato”; in chiave psicoanalitica, pertanto, equivale al rimosso (ciò che è intimo e nascosto). Ne consegue che l'“Unheimilch” sia da intendersi come lo svelamento del rimosso, cosa che spiega la sua natura traumatica, ansiogena e disturbante. Ancora una volta Freud ricarda che “l'Io non è padrone in casa propria”: ciò che spaventa del “perturbante” è la sua capacità di evocare contenuti inconsci, ancestrali ed angoscianti che risalgono all’infanzia e sono, quindi, “familiari” ma, allo stesso tempo, rimossi e negati alla coscienza in quanto terrorizzanti. Nel momento in cui lo stimolo perturbante richiama desideri e affetti inconsci, avviene un’integrazione tra familiarità ed estraneità che provoca angoscia di annichilimento perché mina il confine identitario.

In tempi più recenti tale tematica in psicoanalisi è stata ulteriormente sviluppata da vari autori che ne hanno dato altre interpretazioni. Bion, per esempio, nel suo lavoro “Il Gemello immaginario”, descrive una fantasia gemellare di un suo paziente come rappresentazione inquietante di parti scisse di sé che irrompono, improvvisamente, durante il lavoro analitico.

Ma questo succede anche fuori dalla stanza d’analisi: nella vita spesso ci relazioniamo agli altri in base alle nostre parti scisse e proiettate su di loro oppure capita di sorprenderci a pensare o agire in modo totalmente incongruente rispetto alla concezione che avevamo di noi stessi, e di averne paura.

La tesi di Kristeva ruota attorno a questo nucleo: riconoscere la parte estranea a noi stessi, riconnettendoci alla nostra singolarità, rappresenta la chiave per poter vivere con gli altri senza rifiutarli e senza annullarne le differenze ed è anche il più importante dei “diritti e dei doveri dell'essere umano”. Citando l’autrice, “esiste un’identità: la mia, la nostra; ma essa può essere costruita all'infinito. Alla domanda - Chi sono io? - la miglior risposta non è, con tutta evidenza, la certezza, ma l'amore per il punto interrogativo”; “ciascuno di noi è straniero a se stesso, è molteplice e unico, singolare e plurale; lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità”.

Non manca, nel suo pensiero, un’analisi critica della società globalizzata; nell’intervista a Marie-Christine Navarro del 1998, “Il rischio di pensare”, l’autrice denuncia l’automatizzazione delle menti: “nessuno sa più cosa siano il bene e il male, non ci si interroga più, ci si adatta semplicemente alla logica di causa ed effetto”.

La società in cui viviamo oggi è in gran parte creata e nutrita dalla “politica dell’omologazione” che, diffusa tramite i mass media, la connessione costante, l’intrusività dell’immagine onnipresente e selezionata e l’imposizione della velocità, tende a costituire, dietro al falso individualismo, una massa di lavoratori e consumatori che non devono farsi la domanda “chi sono?” né esercitare il proprio diritto al pensiero autonomo e alla diversità, ma vengono investiti, acriticamente, del ruolo del “dover essere”. Credo che la società contemporanea, in modo forse più mellifluo rispetto a quanto è accaduto in altre epoche storiche, stia portando a conseguenze pericolose per il nostro futuro, di cui iniziano a vedersi i risultati nel malessere e nel disagio sempre più diffuso dei giovani i quali, avendo tutto a portata di “click”, non possono trovare il tempo per dilazionare la soddisfazione del desiderio, fino ad arrivare alla mancanza della possibilità del desiderare stesso. Ritengo, tuttavia, che all’interno di ogni identità vi sia molto di importante ed originale che, spesso, viene depauperato dell’energia necessaria per emergere e che ci siano persone che si sentono sole al mondo perché non hanno ricevuto un ascolto autentico al loro grido ritenuto “privato”.

Come sostiene Kristeva, penso che soltanto il pensiero possa liberare dalle “gabbie dei dogmi” e permettere di diventare se stessi. Mediante l’analisi, la cultura e la conoscenza di sé nello scambio significativo con l’altro, è possibile definire e rafforzare le forme e i colori all’interno di quel “caleidoscopio dell’identità” che ci rappresenta come singoli e come gruppo, che ci distingue come esseri umani e che dà un senso al nostro comune, personale ed unico percorso di vita.

 

BIBLIOGRAFIA:

-          ABBAGNANO N., FORNERO G. “Filosofi e filosofie nella storia” vol. terzo, Paravia, Torino, 1989.

-          CAROTENUTO A. “Freud, il perturbante”, Bompiani, Milano, 2002.

-          KRISTEVA J. “Il rischio di pensare, intervista a Marie-Christine Navarro, 1998”, Il nuovo melangolo, Genova, 2006.

-          KRISTEVA J. “Stranieri a noi stessi, l’Europa, l’altro, l’identità”, Donzelli Editore, 2014, pp. XII-212.

-          MAZZUCCO M. “Io sono con te, storia di Brigitte”, Einaudi, 2016.

-          SMITH P.K., COWIE H., BLADES M. “La comprensione dello sviluppo”, Giunti, Firenze, 2000.

*Viviana Leveratto: psicologa psicoterapeuta

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