Sono le tre del mattino. Dovresti dormire da ore, ma eccoti lì, pollice in posizione atletica, a scrollare Instagram come se la salvezza dell'umanità dipendesse dal vedere l'ennesima storia di qualcuno che mangia sushi. Il tuo cervello sa benissimo che domani mattina odierai te stesso, eppure continui. Benvenuto nel club dei cervelli che scrollano all'infinito, popolazione: circa 3 miliardi di persone.
Se ti consola, non è colpa tua. O meglio, non è solo colpa tua. Il tuo cervello, quella meravigliosa massa gelatinosa da un chilo e mezzo che ti permette di fare cose straordinarie come innamorarti, risolvere equazioni e ricordare tutte le battute di Boris, è stato letteralmente hackerato. E no, non sto usando "letteralmente" a sproposito come quando dici "letteralmente morto dal ridere" mentre sei palesemente vivo.
Il nostro cervello è sostanzialmente lo stesso di quello dei nostri antenati di 50.000 anni fa. All'epoca, le preoccupazioni principali erano: non essere mangiati da una tigre dai denti a sciabola, trovare cibo, riprodursi e magari inventare la ruota. Un sistema operativo progettato per la savana che ora deve gestire notifiche WhatsApp, stories Instagram, email di lavoro e quel gruppo Telegram dove tua madre manda gif di buongiorno con i glitter.
È come pretendere che Windows 95 faccia girare un programma per mandare qualcuno sulla luna: tecnicamente ci prova, ma i risultati sono discutibili.
Il problema è che il nostro cervello paleolitico ha alcune caratteristiche che lo rendono particolarmente vulnerabile al design delle app moderne. Per esempio, siamo programmati per prestare attenzione a qualsiasi cosa si muova (utile per evitare predatori, meno utile quando sono le notifiche a "muoversi"). Siamo cablati per cercare novità (fondamentale per scoprire nuove fonti di cibo, devastante quando la novità è l'ennesimo video di gatti). E soprattutto, siamo ossessionati dal giudizio sociale del gruppo (vitale in una tribù di 150 persone, psicologicamente insostenibile quando il "gruppo" include 800 amici Facebook che non vedi dal liceo).
"Io sono multitasking!" dici fieramente mentre rispondi a WhatsApp, guardi Netflix, cucini la cena e cerchi di ricordare perché sei entrato in cucina. Spoiler: non sei multitasking. Sei solo molto bravo a fare male più cose contemporaneamente.
Il cervello umano non è progettato per il multitasking. Quello che chiamiamo multitasking è in realtà "task switching" - passare rapidamente da un compito all'altro. È come cercare di guardare contemporaneamente Sanremo e la partita: alla fine non capisci né chi ha vinto il Festival né chi ha segnato. E nel frattempo hai perso entrambi i momenti clou.
Ogni volta che passi da un'app all'altra, il tuo cervello deve ricalibrare completamente il contesto. È estenuante. È come se ogni cinque minuti qualcuno ti trasportasse da Milano a Napoli e pretendesse che tu continuassi la conversazione come se niente fosse. "Scusa, di cosa stavamo parlando? Ah sì, l’ aperitivo... no aspetta, quello era tre app fa."
Steve Jobs, quando presentò il primo iPhone nel 2007, probabilmente non immaginava di star creando la slot machine più potente della storia. Eppure è esattamente quello che abbiamo in tasca: una macchinetta progettata per creare dipendenza.
Le app sono disegnate usando gli stessi principi psicologici delle slot machine di Las Vegas. Rinforzo intermittente variabile - suona complicato ma è semplice: non sai mai quando arriverà la ricompensa (un like, un match, un messaggio), quindi continui a controllare. È lo stesso meccanismo che tiene i piccioni a beccare compulsivamente un pulsante e noi a refreshare Instagram.
La differenza è che i piccioni almeno ogni tanto ottengono del cibo. Noi otteniamo la dopamina di vedere che Chiara_fit_26 (nome assolutamente di fantasia, spero) ha messo cuore alla nostra foto del tramonto. Worth it? Il tuo cervello alle tre del mattino dice di sì.
L'ansia da prestazione digitale
"Perché ha visualizzato e non risponde?" "Sono online ma non mi scrive." "Ha messo like a tutte le foto tranne alla mia." Benvenuti nel teatro dell'ansia digitale, dove ogni piccolo gesto (o non-gesto) diventa Shakespeare.
Il nostro cervello sociale, abituato a leggere microespressioni facciali e linguaggio del corpo, si trova ora a dover interpretare puntini che si muovono, spunte blu e stati "online". È come cercare di capire l'umore di qualcuno guardando solo la sua ombra sul muro: tecnicamente possibile, praticamente un disastro.
L'ironia è che abbiamo più modi che mai per comunicare, eppure l'incomprensione regna sovrana. Un tempo bastava non ricevere una lettera per mesi per preoccuparsi. Ora bastano 15 minuti di silenzio su WhatsApp per scatenare crisi esistenziali.
Barry Schwartz aveva ragione quando parlava del "paradosso della scelta", ma dubito immaginasse Tinder. Il nostro cervello è progettato per scegliere tra poche opzioni chiare: questa bacca o quella, questa grotta o quell'altra. Non "scorri tra 10.000 potenziali partner in un raggio di 50 km".
È come portare qualcuno abituato a fare la spesa dal fruttivendolo sotto casa in un ipermercato grande come San Siro. Il risultato? Paralisi decisionale, FOMO cronica e la sensazione persistente che forse c'era un'opzione migliore che non abbiamo visto.
Il cervello, poveretto, cerca di applicare euristiche (scorciatoie mentali) progettate per la savana a un ambiente digitale infinito. Come usare una mappa del 1400 per navigare con Google Maps: tecnicamente sono entrambe mappe, ma una ti porta a scoprire l'America per sbaglio.
La memoria esternalizzata
"Aspetta, lo cerco su Google." Questa frase ha sostituito "Cerco di ricordare" nel nostro vocabolario quotidiano. Il nostro cervello ha capito che può esternalizzare la memoria su cloud, proprio come un computer. Il problema? A differenza di un hard disk esterno, la nostra memoria biologica funziona secondo il principio "use it or lose it" - usala o perdila.
Non memorizziamo più numeri di telefono (c'è la rubrica), non ricordiamo compleanni (c'è Facebook), non impariamo strade (c'è Maps). Il nostro ippocampo, la regione del cervello dedicata alla memoria, sta diventando come quella palestra che hai pagato a gennaio e mai usato: teoricamente funzionante, praticamente atrofizzata.
Il risultato è che abbiamo accesso a tutta la conoscenza del mondo ma non ricordiamo cosa abbiamo mangiato ieri a pranzo. È il paradosso del sapere tutto e non sapere niente.
Quindi, siamo condannati? Il nostro cervello diventerà un appendice inutile mentre le AI pensano per noi e Instagram decide cosa dovremmo desiderare? Non necessariamente.
Il cervello umano ha una caratteristica straordinaria: la neuroplasticità. Può adattarsi, cambiare, creare nuove connessioni. Non è veloce come un aggiornamento software (ci vogliono settimane o mesi, non secondi), ma è possibile.
Possiamo imparare a convivere con la tecnologia senza esserne schiavi. Possiamo allenare la nostra attenzione come un muscolo. Possiamo creare spazi di disconnessione. Possiamo, in sostanza, hackerare il nostro cervello prima che lo facciano gli altri.
Ma per farlo, dobbiamo prima capire come funziona.
Perché solo capendo i meccanismi possiamo scegliere consapevolmente. E magari, solo magari, riuscire ad andare a dormire prima delle tre del mattino.
Il Dott. Francesco Giampaolo è psicologo iscritto all'Albo degli Psicologi del Lazio (n° 30933) e istruttore certificato di Mindfulness. Riceve a Roma e online, specializzandosi nel supporto a chi affronta ansia, stress, disregolazione emotiva e processi di elaborazione del lutto. Per informazioni o appuntamenti, è possibile contattarlo ai recapiti presenti sul sito o al Link in Bio https://linktr.ee/dottgiampaolo
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