I limiti della mente ordinaria

La mente razionale, in riferimento allo stadio dell’io adattato, è una mente che potremmo definire ordinaria, in quanto è quella attualmente più diffusa e pervasiva nella media degli esseri umani. Non vi è alcun giudizio negativo di valore sulla mente razionale, se non che, permanendo come posizione dominante da questo stadio evolutivo in poi, impedisce l’ulteriore, possibile sviluppo.

È la decisione che molto spesso la persona prende dentro di sé di aver raggiunto l’apice delle sue possibilità a condannarla all’adattamento. La caratteristica di questa decisione interiore, profonda e inconsapevole, è l’illusione di aver ottenuto finalmente il controllo di sé e dell’ambiente prossimo. Essa facilmente vacilla non appena la persona si confronta con delle condizioni ambientali impreviste o con un improvviso cambiamento delle condizioni di vita, per una causa esterna, dunque non dipendente dalla propria volontà.

Spesso sono le crisi personali a mettere tutto in discussione inaspettatamente, causando shock e non di rado depressione, ansia e un senso di incertezza nella vita presente e futura. Ne sono un esempio le perdite di persone significative, la perdita del lavoro o di una posizione sociale, il pensionamento e tutti quegli eventi che mettono in discussione una posizione acquisita, risvegliando le emozioni sottostanti, a lungo sopite, e in generale mettendo in discussione tutto l’assetto emotivo tenuto fino a quel momento “sotto controllo”.

Un primo limite della mente ordinaria è la dipendenza. I bisogni dello stadio dell’io adattato (v. articolo “Lo stadio dell’io adattato”) sono la sicurezza, l’affetto e la stima, bisogni che devono essere nutriti da un altro da sé. E si tratta sempre di un altro da sé (essere umano o condizione ambientale) con una sua variabilità, dunque difficilmente controllabile e piegabile al proprio volere. Vi è perciò un notevole lavoro da fare per coniugare i propri bisogni con l’aspettativa di vederli soddisfatti e si richiede una buona capacità di tolleranza delle frustrazioni. Ai livelli di una mente sana, pur se ordinaria, la dipendenza nelle relazioni interpersonali sfocia nella interdipendenza, una condizione caratterizzata dall’appoggio reciproco. La dipendenza porta spesso con sé gelosia, invidia, rabbia, legate alla paura della perdita.

Un’altra caratteristica della mente ordinaria è il consolidamento dello stato di separazione dall’ombra, iniziato nella prima infanzia, laddove con “ombra” si intende quell’insieme di contenuti psichici (difetti, limiti) non accettati o considerati poco desiderabili dalla persona, e rimossi nell’inconscio. La mente ordinaria, con la sua tendenza a controllare, rifiuta facilmente l’ombra, arrivando perfino a ignorarne l’esistenza. Oltre a rifiutare degli aspetti di sé, si arriva a rifiutare di vederli. All’ombra, considerata come immagine di sé non voluta, si contrappone una “maschera”, ovvero l’insieme degli aspetti di sé che si vorrebbero avere come controparte dell’ombra. Questo processo separativo è perlopiù inconsapevole. La mente relega le emozioni nel corpo e, separandosi da esse attraverso il controllo razionale, tende anche a controllare il corpo, allontanando da sé i segnali che questo invia quando è sollecitato dalle emozioni. Così, lo stato di separazione dall’ombra diviene tout court uno stato di separazione dal corpo. La personalità è divisa: l’io che pensa non è lo stesso io che sente, e quest’ultimo viene messo in secondo piano, costretto a esprimersi in modo simbolico, ciò che appare chiaramente negli stati ansiosi.

Un altro limite della mente ordinaria è costituito dalla morale convenzionale, che è eteronoma, dunque guidata dall’esterno. Essa viene accettata incondizionatamente ma spesso il vero senso delle regole e dell’agire non viene compreso. Si può vivere un senso di estraneità dal proprio sé e una rabbia diretta verso l’autorità, della quale da una parte si sono accettate le direttive.

Nei riguardi dell’ambiente, al quale l’io deve adattarsi, la mente deve ora ristrutturare il proprio sistema difensivo, che nell’infanzia era stato rivolto ad arginare gli impulsi dell’io bambino. Si tratta ora di costruire principalmente difese tra l’io e la sua frontiera, l’ambiente prossimo, che sono state definite resistenze al contatto.

La Gestalt, un orientamento psicoterapico dell’area umanistica, si è occupata di definire con accuratezza queste difese, ritenendo la nevrosi una forma di evitamento del contatto tramite l’interruzione dello stesso, e basando la sua prassi terapeutica sul recupero di un contatto pieno e vibrante(1). Sono state individuate cinque fondamentali forme di interruzione del contatto.


(1) Polster E., Polster M., Terapia della Gestalt integrata, Giuffrè, Milano 1986.


L’introiezione è una modalità di contatto che nasce come capacità del bambino di recepire gli imperativi genitoriali senza metterli in dubbio. Colui che introietta impiega la propria energia incorporando passivamente ciò che l’ambiente gli fornisce. Il confine di contatto in questa modalità assume la seguente configurazione: La persona che introietta tende a muoversi come l’interlocutore, a dire sempre di sì, a ricercare delle regole (“dimmi come devo fare”, “dammi un consiglio”); i suoi verbi più comuni sono “devo”, “non posso”; l’atteggiamento verso l’ambiente è rassegnato (spesso con un bacino fortemente ritratto), infantile e disposto ad accettare.

Nella proiezione l’individuo non può accettare i propri sentimenti e le proprie azioni, perché “non dovrebbe” sentire né agire in un certo modo. Il risultato di questa resistenza è la mancanza di consapevolezza delle proprie caratteristiche reali; nello stesso tempo, vi è un’acuta consapevolezza di tali caratteristiche nelle altre persone. Se colui che introietta rinuncia al proprio senso di identità, colui che proietta la frammenta. L’attenzione delle persone che proiettano è molto spostata sull’esterno. Esse hanno spesso un linguaggio valutativo (attribuire etichette), estremizzante, polarizzante (dividere le situazioni secondo una polarità, come “bene/male”, “bello/brutto”).

La retroflessione è una modalità di contatto in cui l’individuo rivolge verso di sé ciò che vorrebbe fare a qualcun altro, o fa a sé stesso ciò che vorrebbe che qualcun altro facesse a lui. Coloro che retroflettono tendono a rimuginare, riflettere, trattenere, tendono a essere autoreferenziali, hanno una modalità relazionale irrigidita, chiusa.

La deflessione è una modalità di resistenza il cui fine è distogliersi dal contatto diretto. È un modo di ridurre il contatto attraverso l’uso di circonlocuzioni, il parlare troppo, il ridere su ciò che si dice, il non guardare direttamente la persona con cui si parla, l’essere astratti piuttosto che specifici, il non arrivare al dunque, il parlare del passato quando il presente è più rilevante, il parlare “su” piuttosto che parlare “a”. Coloro che deflettono utilizzano spesso la frase “ma…se”.

La confluenza è una modalità di contatto utilizzata da coloro che vogliono ridurre le differenze in modo da moderare l’esperienza sconvolgente del nuovo e dell’altro. Nello stesso tempo, queste persone non tollerano la separazione, che equivale a perdere la propria identità.

In generale, possiamo affermare che i limiti della mente ordinaria sono derivati fondamentalmente dall’inconsapevolezza, con un senso dell’identità ristretto, limitato ad un’autorappresentazione mentale, approssimativa, che separa l’io dalle emozioni o che, nel migliore dei casi, le tiene adeguatamente a bada. Per superare tali limiti, occorre la volontà ferma di superarli, conoscendoli innanzitutto, e poi mettendosi a disposizione di un cammino personale di evoluzione e di ricerca, svolto senza fretta e pregustandone tutte le fasi. Tutto ciò ha un enorme costo in termini di sacrifici da affrontare, ma restituisce altrettanto, se non di più, in termini di salute e benessere personale.

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