Inconscio e... Geopolitica? Un possibile contributo

“Il commercio delle anime è una delle poche materie non influenzate dalla banche centrali” Ben Bernanke (Il Fatto del 2-9-2013)

L’identità europea

Si comincia a parlare  da un po’ di tempo delle Elezioni Europee, a cui saremo chiamati a partecipare prossimamente. Sarebbero queste un momento di democrazia diretta davvero importante, visto i temi al calor bianco sul tappeto: le politiche economiche, quelle monetarie, il lavoro, l’immigrazione, dentro o fuori dall’euro, e chi più ne ha più ne metta. Peccato che l’aria che tira sia di grande disorientamento. Mi sono così lasciato andare ad alcune considerazioni spero non del tutto condizionate dalla deformazione professionale.

Si sa che la geopolitica, è banale dirlo, si presenta come materia assai complessa. Di solito tratta scenari presenti e futuri di popoli e nazioni sulla base di valutazioni, per quanto possibile, ancorate a realtà o tendenze socio-economiche, piuttosto che ideologico-religiose o razziali. Queste valutazioni sono spesso influenzate dall’interpretazione di tendenze storiche passate o da fatti di grande importanza per l’attualità. Infine si cerca di fare riferimento all’opinione di leaders di forze politiche o militari dei quali si ritiene rilevante l’influenza sull’opinione pubblica.

Si tende così a guardare con una certa sufficienza ai singoli individui costituenti quei popoli e quelle nazioni, visti tutt’al più come gruppi più o meno aggregati. Magari da orientare, se non condizionare, in maniera non sempre (o non necessariamente) democratica in senso stretto.

Gli individui però, per il fatto della loro appartenenza a un popolo o a una nazione non smettono di essere individui, vale a dire persone che continuano a funzionare appunto con modalità individuali. Con lo sguardo sociologico, sullo sfondo vediamo gli individui come guidati da pulsioni e passioni che possiamo definire universali. Eppure, nonostante l’universalità di queste ultime, con la deformazione dello sguardo psicologico soggettivo, non possiamo non vedere l’unicità e la irripetibilità di ognuno di loro nel modo di rielaborare le esperienze relazionali con l’ambiente di vita, con sé stessi e con gli altri esseri umani.

L’Europa è una realtà geopolitica fatta di popoli, culture e storia millenari, forgiata da fatti economici di vasta portata e plasmata dal pensiero e dall’azione di uomini eccezionali, straordinari umanisti e pensatori, grandi statisti.

In essa ha preso corpo (si potrebbe dire “finalmente!”) un’idea di convivenza e sviluppo tutta tesa al superamento di quegli orrori dell’ultimo conflitto mondiale che l’avevano ridotta in macerie. Non tutto però sta andando in quella direzione.

Non passa giorno senza che mille segnali di incertezza si frappongano al processo di integrazione europeo, che ha conosciuto tempi migliori ed entusiasmi più contagiosi di quelli attuali.

Non è mia competenza analizzare le ragioni concrete di queste difficoltà, ma proverò a proporre alcuni pensieri più pertinenti alla mia esperienza professionale, nella convinzione che una maggiore consapevolezza del funzionamento della psiche individuale, della soggettività dunque, possa permettere anche ad una disciplina come la geopolitica, così lontana dall’individualità, di fare progressi più efficaci e duraturi.

La complessità della psiche

Questo approccio psicologico può apparire come un salto, una intrusione in una disciplina lontana, per quanto piena di fascino e di ricadute significative sulla quotidianità di molti individui.

Ho preso spunto da una questione assai intrigante per la psicologia, quella del “Perturbante”, cara a tanta letteratura fin dall’800 che ne è stata fascinata. Il Perturbante è stato poi utilizzato a piene mani nel cinema e nelle arti visive, tanto che ancora oggi certa filmografia, senza citarlo, ne sperimenta le figure più esasperate.

Oggi né in letteratura né nel cinema non si parla più di Perturbante. Anche nella nostra vita quotidiana questo vocabolo ha forse cessato di circolare come tale, eppure, sotto altre forme, sembrerebbe farla ancora da padrone. Basta uno sguardo disincantato per notare senza sforzo quanto ancora condiziona in modo apparentemente immutabile la nostra quotidianità.

Darò per scontato e come vero il fatto già rilevato da Freud nel 1919, che quanto più ognuno di noi si orienta adeguatamente nel mondo intorno a lui, tanto meno sarà facile sperimentare un’impressione di turbamento davanti a cose o eventi diversi da quelli aspettati, già noti e familiari (Freud, cit., p. 82-83)

Quando però questo orientamento viene smarrito, continua Freud, è esperienza comune sentirsi invadere da qualcosa che viviamo come inquietante, insolito e magari sinistro. Egli nota, riflettendo su ciò che è nascosto e segreto, sepolto nell’inconscio, che se per qualche ragione affiora, esso produce una scossa nel mondo emozionale: a quel punto ciò che prima era sentito come familiare emerge ora come insolito. Con le sue parole “Questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, ma è invece un  che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi e ad essa estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione” [1919, p. 102 vol IX]. Va detto che qui il riferimento di Freud è agli impulsi libidici del Complesso di Edipo, caratteristico di una fase evolutiva successiva a quella neonatale.

Poiché però la maggior parte delle cose insolite o nuove non risultano spaventose o terrificanti, e men che meno perturbanti, Freud si chiede qual è la caratteristica peculiare per cui un oggetto possa risultare propriamente perturbante. Arriva infine alla conclusione che il turbamento nasce quando un oggetto o una situazione presentano per noi caratteristiche di estraneità e familiarità allo stesso tempo, in una sorta di dualismo affettivo. Non occorre essere particolarmente acuti per fare un pensiero del tipo: “E’ probabilmente vero per tutti che se a qualcosa reagiamo con un turbamento, è perché quel qualcosa possiede almeno una caratteristica già incontrata in un contesto emozionale significativo e, come dice Freud, per qualche ragione, ‘dimenticata’. Il turbamento attuale è la risonanza emotiva di quanto abbiamo sepolto nell’inconscio, ma non a sufficienza per non essere preconsciamente riconosciuto nel contesto attuale”.

Il dualismo affettivo

Qui la farò breve e sono costretto a chiedervi un po’ d’indulgenza per la sintesi estrema.

Questo dualismo affettivo, questa coesistenza di familiarità ed estraneità ha forse radici piu lontane, in fasi evolutive più arcaiche rispetto a quella immaginata da Freud (chi ne è interessato può per esempio consultare i lavori della Klein e di Bion).       

Il dualismo affettivo probabilmente riverbera di quei fantasmi neonatali, che il nostro Io ancora in formazione, ha dovuto affrontare prima di consolidarsi nella coscienza di sé.

Quell’Io immaturo non ci permetteva ancora di costruirci un’idea adeguata dell’ambiente relazionale in cui eravamo immersi e men che meno ci permetteva di farci un’idea compiuta di chi si prendeva cura di noi. Quando insomma il confine fra il nostro Io e l’oggetto relazionale, l’Altro, doveva ancora stabilirsi, avvenivano con molta verosimiglianza parecchi fenomeni.

Facciamo un esercizio di empatia: immergiamoci per un momento nel mondo relazionale di un neonato, di tutti i neonati.

Allora, senza grandi possibilità di padroneggiare il mondo esterno, noi neonati eravamo costretti a interrogarci ingenuamente e continuamente sull’esito di ogni nostro appello all’ambiente affinché provvedesse ai nostri bisogni.

Il riscontro ai nostri richiami sarebbe stato positivo o negativo? Un interrogativo davvero esistenziale!

Una risposta positiva, accogliente e coincidente con le nostre aspettative avrebbe sostenuto il consolidarsi della nostra capacità di leggere l’ambiente di accadimento. In ultima istanza avrebbe con tribuito al processo di strutturazione del nostro Io. Un’assenza di risposta o una risposta negativa non coincidente con le nostre aspettative (“magiche” direbbe forse Winnicott) avrebbe portato con sé numerose angosce. Possiamo immaginare con facilità i sensi di impotenza, i vissuti di separazione, le paure di annullamento e vuoto, cariche di fantasmi destrutturanti o persecutori (Klein, 1950).

In sintesi la nostra tensione relazionale verso il mondo avrebbe potuto avere uno sbocco di piacevole contatto o una deludente mancanza di conferma delle nostre capacità di interagire con esso.

Vorrei potesse essere colto in un qualche modo tutto il dramma del risveglio di un neonato dal sonno dei beati.

Il riemergere dal nostro ritiro nel mondo dei sogni cosa avrebbe portato con sé? Il ritrovamento di quel sorriso, quella voce suadente, quelle braccia accoglienti che ci avevano accompagnato nella beatitudine del sonno? Chissà se con gli occhi aperti avremmo potuto continuare a sognare così come avevamo fatto ad occhi chiusi! Evidentemente, quella sarebbe stata solo una possibilità. L’altra possibilità consisteva in un mancato riscontro al nostro desiderio di accoglimento. Il vuoto, il silenzio, l’assenza e l’imprevisto avrebbero potuto aprire uno squarcio su un mondo sconosciuto e indecifrabile in grado di sommergerci con l’angoscia.

In altre parole la questione di fondo si potrebbe configurare qui, per il nostro discorso, come un dilemma: da una parte il bisogno della  nostra parte creativa e strutturante di ricevere conferme, e dall’altra la frustrazione del desiderio di accoglimento. Col rischio, nel caso la frustrazione del desiderio di accoglimento si fosse prolungata troppo a lungo, di sentirci precipitare in un caos emozionale senza senso: come si fa a dare un senso e un significato a qualcosa che non c’è?

Continuando il nostro discorso nel segno della brevità: la madre “devota”, la madre “sufficientemente buona”, quella a cui tutti i neonati hanno diritto, avrà il compito di riempire quel vuoto. Ella non permetterà che il suo bambino soccomba ai suoi fantasmi negativi: lo aiuterà a contenere le sue paure e le sue angosce metabolizzandole e restituendogliele bonificate (la rèverie di Bion), consolidando il suo Io e costruendo la sua fiducia nella vita che lo aspetta.

Perché tutto questo discorso? Per dire che tutti abbiamo sperimentato fin dalla primissima infanzia l’ambivalenza affettiva, se non proprio quella del Perturbante di Freud, sicuramente quella del desiderio esposto alla gratificazione o alla delusione.

E qui magari ci sta un po’ di deformazione professionale: anche per la persona adulta l’Altro non smette di significare ancora qualcuno di non-me, qualcuno che può rassicurare o deludere, qualcuno percepito a volte in forme elusive, in maniera ambivalente, magari inquietante e appunto perturbante.

I fantasmi del passato, eco attualizzata e inconsapevole di altri e ben più impegnativi incontri, sono sempre lì in un qualche andito nascosto in ognuno di noi, preconsciamente disponibili ad una facile riattivazione.

Il Perturbante oggi

Mi rendo conto di correre il rischio di una semplificazione forse eccessiva della questione.

Ci sono almeno un paio di modi facili facili a cui ricorriamo spesso per gestire l’impatto di spaesamento del Perturbante: uno è quello di negare l’impatto emotivo suscitato dalla percezione preconscia delle differenze e l’altro quello di accentuarlo. Il primo modo rimuove (patologicamente?) alla radice il problema, il secondo ci costringe a rifugiarci in posizioni emotive più rassicuranti. Dal nostro punto di vista vediamo come davanti all’Altro sconosciuto possa nascere o  l’interesse per una sua conoscenza (che può essere più o meno facile) oppure prendere corpo l’Angoscia dell’Estraneo. In quest’ultimo caso tendiamo immediatamente e quasi inconsapevolmente a cercare riparo, a proteggere il nostro Io dentro identità certe, il più possibile inequivocabili. E qui anche la cultura in cui siamo immersi a volte può fungere da schermo parastimoli. A puro titolo di esempio si potrebbe citare la più semplice, la più immediata delle risposte emotive, l’identificazione in una identità di genere: siamo uomini e non donne, o viceversa.

Le possibilità sembrano apparentemente infinite: l’identità generazionale, di gruppo, di etnia, di nazionalità, di lingua, religione o censo e così via. Vi è persino la possibilità di “indossare” l’identità di sano per marcare la differenza da quella di malato.

E purtroppo anche viceversa, assai più frequentemente di quanto si creda.

Basta uno sguardo per cogliere come questi abiti identitari si indossino in aree dove le relazioni interpersonali sono percorse da forti tensioni, ambivalenze e conflitti emozionali, ancorché di grandi angosce.

L’integrazione europea

E che il processo di integrazione fra gli stati europei sia carico di tante angosce derivate per lo più dalla storia di ognuno di questi stati, lo vedevamo all’inizio.

In questo processo si sono inseriti altri fattori non di poco conto come la globalizzazione dei mercati e l’alito pesante della finanza internazionale, apparentemente incontrollabile, col suo notevole contributo nel rendere più complessa, se non più confusa, la nostra percezione del mondo.

Mondo che cerchiamo istintivamente di semplificare con: “Occidente, Medio Oriente, Lontano Oriente, Sud del Mondo, i paesi del Nord,  l’America… “

Ciò che solo poco tempo fa percepivamo forse come abbastanza lontano e astratto da apparirci come meglio credevamo, ora con la modernità invadente siamo quotidianamente connessi col mondo intero, col quale possiamo entrare in un contatto così stretto da mettere in costante corto circuito precedenti apparenti certezze.

Tutto sembra aver subito una accelerazione caotica.

La contiguità con il nuovo è costante, e costante è l’impatto emotivo suscitato da ciò che ci sembra diverso da quello a cui eravamo abituati. Il Perturbante ricompare su scala più grande, l’immigrato ci sembra l’estraneo, le altre culture ci obbligano a rivedere la nostra, altre lingue sostituiscono quella materna, il nostro modo di vivere viene relativizzato: niente è come vorremmo credere che fosse.

Possiamo qui scorgere facilmente il riverbero di quello che tutti abbiamo già sperimentato…

E cerchiamo di far fronte all’incertezza aggrappandoci a vecchie identità o cercando  nuove identità.

Per esempio, è sotto gli occhi di tutti come, accanto alla spinta centripeta verso il compimento dell’Unione Europea, vi siano forze centrifughe tese al dissolvimento di quanto già realizzato.

Il tentativo sembra proprio quello di salvaguardare identità nazionali o localistiche, che si ritiene messe a rischio da una eccessiva vicinanza a presunte, pericolose diversità. Per questo scopo viene evocato forse con troppa leggerezza, in nome di un vantaggio particolaristico, il perturbante che c’è in ogni diversità come demone portatore di sventura o pericoloso guastatore di conquiste faticose.

Per contro la costruzione di una identità europea capace di contenere tante diversità, sembra di là da venire. Anzi, appare sempre più spesso come un vestito stretto, imposto dall’alto, dalle burocrazie nazionali e trans-nazionali, dagli interessi di gruppi economico-finanziari lontani dalle realtà locali e quotidiane. Soprattutto incuranti dei bisogni e delle difficoltà delle componenti più vitali della società.

Ed è fin troppo facile vedere come tutto ciò si configuri come un appello alle parti di noi più lontane dalla ragionevole consapevolezza di appartenere al genere umano, dove tutti siamo mossi dagli stessi desideri e dagli stessi interessi. Sullo sfondo c’è quella che appare come la negazione un po’ surreale della storia dei conflitti in Europa e l’incombere della globalizzazione come un fantasma omogeneizzante, invadente e distruttivo, quasi fosse potenzialmente capace di invertire il corso della storia.

Gli altrettanto presunti privilegi attorno a cui si cerca di coagulare il consenso particolaristico di sempre più numerose realtà locali, forse sono troppo immemori degli insegnamenti della storia.

Le forme di appartenenza e identificazione in questi particolarismi sono tali e tante da far pensare a una inesausta necessità per l’essere umano di cercare sempre forme nuove per difendersi dall’emergere straniante di quello che la psicoanalisi chiama inconscio perturbante.

In conclusione, pensare che vincerà la razionalità del progetto europeo per una sorta di forza intrinseca, senza una consapevole assunzione di responsabilità collettive e individuali, appare molto rischioso.

Le elezioni europee apparentemente sono un momento in cui, collettivamente e individualmente, siamo chiamati a scegliere o meno di assumerci la responsabilità per l’assetto istituzionale nel prossimo futuro.

Forse però, come avviene di solito fra una mamma e il suo bambino, occorre una più amorevole vicinanza fra le Istituzioni e i cittadini perché possa crescere la fiducia reciproca e possa espandersi il sentimento di appartenenza all’Europa, e, perché no, al Mondo.

BIBLIOGRAFIA

W. BION (1962) “Apprendere dall’esperienza”, Armando Editore, Roma, 2009

S. FREUD (1919) “Il perturbante”, in Opere 1917-1923, Boringhieri, Milano, 1977

J. LOCKE (1690) “Saggio sull’intelletto umano”, Bompiani, Milano, 2004

M. KLEIN (1950) “La psicoanalisi dei bambini”, Martinelli, Firenze, 1970

D.W. WINNICOTT (1965) “Sviluppo affettivo e ambiente”, Armando, Roma, 1970

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