Tutto comincia (o meglio, finisce) quando si chiude un ciclo di studi. Molti giovani italiani, dopo il diploma o la laurea, si ritrovano con un bagaglio di conoscenze teoriche che però spesso non trovano un’applicazione concreta nel mondo del lavoro. Le università, salvo eccezioni, non sono ancora riuscite ad allineare i loro percorsi formativi a quello che il mercato richiede. Si esce pieni di aspettative, ma senza strumenti pratici. E quando le offerte iniziano ad arrivare – sempre che arrivino – molte risultano incoerenti con il percorso fatto: stipendi bassissimi, stage ripetuti, mansioni che nulla hanno a che vedere con quanto studiato. I dati parlano chiaro: quasi il 70% degli under 30 dichiara di sentirsi insicuro, frustrato o addirittura spaventato all’idea di non riuscire a costruirsi un futuro professionale. Ma da dove nascono davvero queste emozioni così forti e pervasive?
La lentezza del mercato e la fatica dell’inizio
In Italia il mercato del lavoro è poco dinamico. Le imprese fanno fatica a crescere, e in mancanza di crescita non assumono. Questo blocca il naturale ricambio generazionale: i giovani restano fuori, mentre chi è già dentro tiene stretto il proprio posto, spesso per anni e anni. La conseguenza è un senso costante di attesa, di sospensione, come se la vera vita dovesse ancora iniziare.
L’impatto psicologico: paura, frustrazione, ansia
Quando le aspettative si scontrano continuamente con una realtà che non premia, la mente inizia a cedere. Non è raro incontrare giovani che si sentono “fuori posto”, “non abbastanza”, “sbagliati”. Il senso di fallimento arriva presto, anche senza colpe. La frustrazione diventa la compagna di viaggio quotidiana, e l’ansia – quella da prestazione, da futuro incerto – si insinua e si cronicizza. Più passa il tempo, più la paura di non farcela prende il sopravvento.
La storia di Giulia
Giulia ha 27 anni, una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione, ottenuta con il massimo dei voti. Dopo l’università, ha fatto uno stage non retribuito in un piccolo studio di consulenza. Poi un secondo stage, stavolta con rimborso spese. Poi… niente. Le aziende cercavano profili “junior con almeno tre anni di esperienza”, e lei non riusciva mai ad arrivare al colloquio finale. Le giornate di Giulia erano scandite da candidature inviate e silenzi ricevuti. “Mi sentivo inutile”, racconta. “Avevo studiato tanto, avevo dato il massimo, eppure sembrava che nessuno avesse bisogno di me”.
A un certo punto, Giulia ha toccato il fondo. Si è chiusa in casa, ha iniziato a dormire poco e male, e ogni offerta di lavoro la faceva sentire ancora più sbagliata. È stato in quel momento che ha deciso di chiedere aiuto. Insieme abbiamo lavorato su tre aspetti fondamentali: la ricostruzione dell’identità professionale, la gestione dell’ansia, e la ridefinizione degli obiettivi.
Una strategia concreta: piccoli passi, grande impatto
Il primo passo è stato ridare voce alle sue competenze, ma in un modo diverso. Abbiamo creato una mappa delle sue capacità, anche quelle informali – soft skills, progetti personali, lavori occasionali – e le abbiamo tradotte in un linguaggio “spendibile” per il mercato. Poi abbiamo ridotto il campo di ricerca: anziché mandare CV a tappeto, Giulia ha cominciato a candidarsi solo per posizioni realmente in linea con ciò che voleva.
Parallelamente, abbiamo introdotto una routine settimanale: tempo per sé, tempo per cercare lavoro, tempo per fare esperienze anche brevi ma pratiche (es. volontariato, freelance, formazione online). Il messaggio era semplice: non devi essere perfetta subito. Devi solo riprendere in mano il timone.
Dopo alcuni mesi, Giulia ha trovato un impiego part-time in una piccola agenzia. Non era il lavoro dei suoi sogni, ma le ha permesso di ripartire. Oggi ha un contratto a tempo determinato, ma soprattutto ha ritrovato fiducia nelle sue possibilità. “Non è cambiato il mondo attorno a me”, dice. “Sono cambiata io nel modo di affrontarlo”.
E adesso?
Serve un’evoluzione del sistema, questo è certo. Non possiamo continuare a trattare il mondo del lavoro come un labirinto dove ognuno deve cavarsela da solo. Servono servizi di orientamento davvero efficaci, già durante il percorso di studi. Serve una maggiore connessione tra formazione e mercato. E serve, soprattutto, una cultura che smetta di colpevolizzare i giovani per colpe che non sono le loro.
Come psicologi, possiamo fare molto: ascoltare, decostruire i pensieri disfunzionali, aiutare a trovare nuove narrazioni. Ma è la società tutta che deve rimettere al centro il tema del lavoro giovanile, non come emergenza, ma come priorità.
In Italia, cercare lavoro, per molti giovani, è un’esperienza più vicina al deserto che al mercato: silenziosa, piena di miraggi e, troppo spesso, vissuta in solitudine.
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