Quando Marco ha ricevuto la lettera di licenziamento, la prima cosa che ha pensato non è stata "Come farò a pagare le bollette?", ma "Chi sono io ora?". Dopo quindici anni nello stesso ufficio, la sua identità si era saldata indissolubilmente al ruolo di responsabile vendite. Il giovedì era Marco-che-va-in-ufficio, il venerdì era Marco-che-chiude-i-contratti. Il lunedì dopo il licenziamento, era solo Marco: un nome senza sostanza, un contenitore vuoto.
La perdita del lavoro è una delle esperienze più sottovalutate nella scala del dolore contemporaneo. La società la inquadra come un problema logistico – "cerca un altro lavoro" – ignorando che per molti rappresenta un vero e proprio lutto identitario. Non stiamo semplicemente perdendo una fonte di reddito, ma un intero senso di sé, costruito negli anni attraverso competenze, riconoscimenti, routine e relazioni.
Quando il curriculum diventa epitaffio
Il lavoro, nelle società occidentali, è diventato molto più di un mezzo per sopravvivere. È diventato la risposta alla domanda "Chi sei?". Ci presentiamo dicendo "Sono un avvocato", "Sono un insegnante", "Sono un manager", come se l'essere coincidesse con il fare. Questa fusione identitaria rende la perdita del lavoro un trauma che va ben oltre l'aspetto economico.
Silva, architetto freelance, mi racconta: "Dopo la crisi del 2008, i progetti si sono azzerati. Per mesi non ho toccato una matita. Un giorno mia figlia mi ha chiesto 'Mamma, tu cosa fai?' e ho realizzato che non lo sapevo più. Senza progetti da disegnare, chi ero? Un architetto che non progetta è ancora un architetto?"
Il problema si amplifica quando l'identità professionale è stata costruita su risultati e riconoscimenti esterni. Il manager abituato agli applausi dopo le presentazioni, il venditore che viveva per superare i target, l'insegnante che si sentiva realizzato nel vedere i progressi degli studenti. Quando questi feedback esterni scompaiono, l'autostima collassa come un castello di carte.
Il dolore nascosto dietro la ricerca attiva
La società ci aspetta "attivi" nella ricerca di un nuovo lavoro. Curriculum, colloqui, networking, formazione. Tutto giusto, tutto necessario. Ma nessuno riconosce che dietro ogni candidatura c'è spesso un lutto non elaborato. Come può Marco presentarsi al meglio a un colloquio quando non sa ancora chi è senza il suo vecchio ruolo?
Il dolore della perdita lavorativa ha caratteristiche peculiari:
Negazione: "È solo temporaneo", "Troverò subito qualcos'altro", "In fondo non mi piaceva neanche quel lavoro". Si minimizza l'impatto emotivo concentrandosi solo sull'aspetto pratico.
Rabbia: Verso l'azienda, verso il capo, verso "il sistema". Ma anche verso sé stessi: "Avrei dovuto accorgermi", "Sono stato ingenuo", "Ho sprecato anni della mia vita".
Contrattazione: "Se solo avessi fatto di più", "Se accettassi di lavorare per meno", "Se ampliassi le mie competenze". Il tentativo disperato di rinegoziare una perdita ormai avvenuta.
Depressione: Il peso della realtà si fa sentire. L'energia per cercare lavoro si affievolisce. Alzarsi dal letto diventa difficile. Il futuro appare vuoto e privo di significato.
Accettazione: Non è rassegnazione, ma la capacità di vedere la perdita come un'opportunità di ridefinizione. Il punto di partenza per ricostruire un'identità più solida e meno dipendente da un singolo ruolo.
Le conseguenze nascoste: relazioni e autostima
La perdita del lavoro non colpisce solo chi la vive direttamente. Le relazioni familiari si trasformano. Antonio, ex dirigente, mi racconta: "All'inizio mia moglie era comprensiva. Dopo sei mesi di ricerche senza successo, ho iniziato a notare i suoi silenzi. Non mi diceva nulla, ma sentivo che mi guardava diversamente. Anch'io, del resto, non sapevo più come guardarmi".
I figli, soprattutto adolescenti, possono perdere il modello di riferimento che rappresentava il genitore lavoratore. Le dinamiche di potere in casa si spostano. Chi prima era il "provider" si ritrova improvvisamente in una posizione di dipendenza emotiva ed economica.
Sul piano sociale, la perdita del lavoro porta spesso a un ritiro graduale. Le conversazioni con gli amici diventano minefields: "Come va il lavoro?" diventa la domanda che fa crollare ogni difesa. Si evitano gli aperitivi, si declinano gli inviti, si costruisce un isolamento che aggrava la perdita di identità.
Quando il vuoto diventa opportunità
Eppure, in questo dolore si nasconde anche un'opportunità unica: quella di riscoprire chi siamo al di là di quello che facciamo. La perdita del ruolo lavorativo può diventare l'occasione per una ridefinizione identitaria più profonda e autentica.
Gabriella, ex manager bancaria, dopo due anni di disoccupazione ha aperto un bed&breakfast in campagna: "All'inizio è stato terribile. Mi sentivo un fallimento. Poi ho capito che per quarant'anni avevo vissuto l'identità che mi avevano cucito addosso. Perdere il lavoro mi ha forzato a chiedermi cosa volevo davvero. Le risposte sono arrivate lentamente, ma sono arrivate".
Il percorso di ricostruzione identitaria richiede tempo e gentilezza verso sé stessi. Non si tratta di "reinventarsi" – termine che suona come l'ennesima performance da completare – ma di ritrovare parti di sé dimenticate o mai esplorate.
Strategie per attraversare il lutto professionale
Riconoscere il dolore: Ammettere che la perdita del lavoro è un lutto vero e proprio, non solo un inconveniente logistico. Il dolore va accolto, non negato.
Separare l'identità dal ruolo: Fare una lista delle proprie qualità, competenze e interessi che esistono indipendentemente dal lavoro. Chi ero prima di questo ruolo? Chi sono quando nessuno mi sta guardando?
Creare nuove routine: Il lavoro strutturava le giornate. Serve creare nuove routine che diano senso e direzione al tempo, evitando la deriva dell'ozio forzato.
Coltivare relazioni non legate al lavoro: Amicizie, hobby, volontariato. Tessere una rete di relazioni che non dipendano dal status professionale.
Accettare l'incertezza: Il futuro lavorativo è incerto. Anziché combattere questa incertezza, imparare a starci dentro senza farsi schiacciare dall'ansia.
Considerare un supporto professionale: Il lutto professionale è complesso e spesso sottovalutato. Un percorso psicologico può aiutare a elaborare la perdita e ricostruire un'identità più solida.
Oltre la ricostruzione: l'identità antifragile
L'obiettivo non è tornare alla situazione precedente, ma costruire un'identità più resiliente. Un'identità che possa attraversare future perdite professionali senza andare completamente in frantumi. Un'identità che sappia rispondere alla domanda "Chi sei?" senza dover necessariamente ricorrere al nome di un'azienda o a un titolo professionale.
Marco, dopo un anno di ricerche e un percorso di consapevolezza, ha trovato un nuovo lavoro. Ma soprattutto, ha trovato un nuovo modo di relazionarsi con il lavoro: "Ora so che sono Marco anche senza l'ufficio. Il lavoro è una parte importante della mia vita, ma non è la mia vita. Questa differenza mi rende più sereno e, paradossalmente, anche più efficace professionalmente".
La perdita del ruolo lavorativo è un lutto che merita rispetto, tempo e cura. Non è un fallimento personale, ma una transizione che, se attraversata con consapevolezza, può portare a una versione più autentica e solida di sé stessi.
Se stai vivendo questa esperienza e senti il bisogno di un supporto per elaborare questo passaggio, sono disponibile per una consulenza ai contatti in evidenza o al link in bio: https://linktr.ee/dottgiampaolo
Il Dott. Francesco Giampaolo è psicologo iscritto all'Albo degli Psicologi del Lazio (n° 30933). Riceve a Roma e online, adolescenti ed adulti, fornendo supporto a chi affronta ansia, stress, disregolazione emotiva, processi di elaborazione del lutto, dipendenza affettiva e altro.
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