A volte basta entrare in ufficio per percepirlo. L’aria è pesante. Nessuno dice nulla apertamente, ma lo senti: qualcosa non va. Magari hai l’impressione che i tuoi dipendenti siano distratti, svogliati, addirittura freddi. E, da imprenditore o professionista, ti chiedi: “Ma che cos’hanno? Perché non mi seguono più? Con tutto quello che faccio per loro…”
Il punto è che non sempre il problema sta nei collaboratori. Spesso — molto più spesso di quanto si creda — il problema parte da chi guida, da chi ha responsabilità. E no, non si tratta di essere “cattivi capi”, ma semplicemente di cadere in dinamiche inconsapevoli, errori di comunicazione che minano lentamente la fiducia del team.
Vediamoli insieme.
1. La trappola delle risposte veloci (e dell’essere sempre di corsa)
Nel mondo del lavoro contemporaneo, soprattutto nelle piccole realtà, il tempo è sempre poco. Ogni minuto è una corsa contro le scadenze, i clienti, le riunioni, i problemi imprevisti. È normale che, quando un dipendente si avvicina per fare una domanda o esprimere un dubbio, la risposta sia un “Sì, sì, fallo così” oppure un “Non adesso, poi ne parliamo”.
Ma attenzione: queste risposte rapide, se diventano la regola, non sono più efficienza. Sono segnali di disinteresse. Per chi le riceve, il messaggio è chiaro: “Il mio contributo non è importante”, “Non vale la pena ascoltarmi”, “Conto poco”.
Quando questo succede regolarmente, si genera una frattura invisibile ma profonda. Il collaboratore inizia a disimpegnarsi, a smettere di proporre idee. Non si sente più parte del progetto. E smettere di sentirsi parte è il primo passo verso lo scollegamento emotivo dal lavoro.
2. Gli sbalzi di umore del titolare: un’azienda sulle montagne russe
Un altro aspetto critico è l’instabilità emotiva del leader. Giorni in cui si entra in ufficio e si scherza con tutti, si è brillanti, pieni di entusiasmo. E altri in cui si è nervosi, tesi, a volte persino aggressivi senza motivo.
Capita a tutti, certo. Ma quando questi sbalzi diventano una costante, il team si trova a camminare sulle uova. Nessuno sa cosa aspettarsi, il clima è incerto, e la sensazione che si diffonde è quella di insicurezza.
I dipendenti — anche i più fedeli — non riescono a riconoscere una base solida su cui poggiare. Non capiscono se oggi il capo li valorizzerà o li ignorerà. Se l’idea che ieri sembrava interessante, oggi verrà liquidata. Se possono parlare liberamente o devono stare zitti.
3. La comunicazione funzionale: un’arma (gentile) potentissima
La soluzione non è diventare supereroi della calma o guru della gestione. La soluzione è lavorare sulla comunicazione. Ma non quella “alta”, teorica. Parliamo di comunicazione funzionale, quella che costruisce ponti quotidiani tra imprenditore e collaboratori.
Comunicare in modo funzionale significa:
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Prendersi tre minuti veri per ascoltare davvero una proposta o un dubbio, anche quando si ha poco tempo.
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Dare feedback chiari, non ambigui. Non “vediamo”, ma “Sì, procedi” o “No, ma potremmo farlo così”.
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Evitare sarcasmi, battute pungenti, risposte taglienti. Anche quando si è stressati.
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Condividere in modo semplice dove si sta andando, anche nelle piccole scelte. Far sentire che “si rema nella stessa direzione”.
E sì, anche nelle micro-aziende — negli studi con 3, 4, 5 persone — la comunicazione fa la differenza. Anzi: proprio lì, dove tutto è più ravvicinato, il modo in cui si parla e ci si relaziona ha un impatto immediato.
4. Il caso di Ernesto, architetto e titolare di uno studio con 4 dipendenti
Ernesto (nome di fantasia) mi ha contattato durante un periodo di forte crisi interna. Architetto brillante, guidava da anni un piccolo studio di progettazione con 4 dipendenti e alcuni collaboratori esterni. Da mesi percepiva una distanza crescente. “Mi sembrano spenti”, diceva, “nessuno ha più iniziativa”.
Dopo un paio di incontri individuali e una mappatura delle dinamiche interne, è emersa una fotografia chiara:
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Ernesto cambiava spesso umore, a volte irrompeva con entusiasmo in ufficio, altre volte non salutava nemmeno.
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Quando si parlava di progetti, decideva in autonomia e velocemente, spesso ignorando i suggerimenti dei collaboratori.
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Nelle riunioni era presente a tratti, sempre distratto da messaggi o telefonate.
Il risultato? I suoi collaboratori avevano smesso di parlare, di proporre, di sentirsi coinvolti.
La strategia applicata è stata concreta e semplice:
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Abbiamo introdotto una riunione settimanale fissa, breve ma ben strutturata, in cui Ernesto ascoltava e rispondeva senza interrompere.
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Gli è stato suggerito di iniziare ogni giornata con un saluto collettivo e uno scambio informale di 5 minuti.
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Ha lavorato sul riconoscimento positivo, imparando a dare un “grazie” diretto e sincero quando un lavoro era ben fatto.
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Infine, ha creato un piccolo calendario condiviso con gli aggiornamenti sui progetti, così da rendere tutti partecipi.
Nel giro di due mesi, il clima è cambiato. I dipendenti hanno ripreso a fare domande, a proporre idee. Uno di loro — il più silenzioso — ha proposto una soluzione tecnica che ha fatto risparmiare giorni di lavoro in un progetto importante. Ernesto ha detto: “Non mi ero reso conto di quanto mi fossi isolato.”
Conclusione
Se senti che il tuo team non ti segue, prima di cambiare le persone, prova a cambiare la prospettiva. Chiediti se, senza volerlo, stai inviando segnali di disinteresse o instabilità. La leadership non è fatta solo di visione, ma di presenza, ascolto e coerenza emotiva.
Non serve essere perfetti. Serve essere umani, consapevoli e disponibili al dialogo. Anche nei piccoli studi, anche nelle realtà familiari, il modo in cui si comunica può trasformare la fatica quotidiana in entusiasmo condiviso.
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