Convivere con una malattia

INTRODUZIONE

La malattia, come codice e struttura narrativa, rappresenta una funzione del paradigma medico. In questo gli “oggetti” della malattia vengono solitamente impiegati per narrazioni che fanno riferimento alla perdita di parti di sé, alla menomazione, alla limitazione funzionale, alla minaccia dell’integrità fisica, al dolore, alla morte. Diversamente, il concetto di salute invece non è dominio medico, difatti spesso non è condiviso tra medico e paziente: per il medico la salute è un fatto oggettivo (anzitutto assenza di malattia, poi prevenzione e stili di vita), per il paziente invece è una percezione soggettiva: la salute è una condizione possibile, anche in presenza di malattia. Ma torniamo alle malattie.

Le malattie e le narrazioni che strutturalmente vi si associano non sono tutte uguali. La malattia come “cosa curabile”, magari in modo rapido, che interviene solo in una fase molto circoscritta della vita, può essere efficacemente affrontata e gestita con un processo di scissione dai normali processi di vita. La malattia come “cosa non curabile”, cronicizzata, ovvero che dura nel tempo, che diventa parte della stessa esistenza, non può essere scissa dai normali processi di vita, se non con una modalità paradossale: in questo caso infatti è necessario un adattamento profondo, completo, un impegno di riorganizzazione psicosociale, che investe tanto il soggetto “malato”, tanto chi partecipa e sta all’interno del suo campo esistenziale e relazionale; è tuttavia un percorso non semplice, perché implica la fantasia di essere “dominato” dalla malattia, in un impegnativo processo di identificazione con essa.

E’ inoltre un processo che deve poter contare anche sulla capacità delle figure significative del soggetto di riorganizzare i modelli fondanti lo stare insieme e le modalità di rapporto. Questo processo deve anche poter contare sulla capacità più propriamente famigliare di riuscire a dare una ridefinizione ai propri miti di convivenza e di appartenenza, che hanno dense valenze affettive, al fine di realizzare un adattamento attivo e funzionale, ovvero di permettere un adeguato investimento di tutti i partecipanti del nucleo famigliare nel mondo esterno e nei compiti sociali che accompagnano il costante processo di evoluzione personale.

 

LA DIFFICOLTA’ DI NARRARSI NELLA MALATTIA

Il primo processo che attiva l’incontro con la malattia è la scissione, ovvero la malattia viene vissuta come una parte estranea, aggressiva e nociva, potente, da delegare al medico, ovvero a colui che l’ha indovinata e che con i suoi poteri salvifici la guarirà. Ma la malattia che non si cura? Immaginiamo che esista un continuum ideale tra la malattia che si cura all’istante (basta portarla dal medico, che questo subito ci guarirà, eliminandola), e quella che non si cura mai. In mezzo c’è l’esperienza della persona. Abbiamo ipotizzato tre livelli di esperienza:

1) malattia: oggetto di narrazioni mediche à a questo livello si agiscono azioni-relazioni di tipo tecnicistico volte alla “cura della malattia”(che Fornari chiama “fallocentrica”)

2) malato: costruzione identitaria con cui la persona prova ad integrare in sé le narrazioni che trova calate su sé relative alla malattia à a questo livello si agiscono azioni-relazioni di tipo solidaristico, volte al “prendesi cura della persona” (che Fornari chiama “onfalicentrica”)

3) persona: complesso identitario di un soggetto risultato della propria esperienza dello star al mondo, quindi dell’integrazione tra esperienze interne e di relazione à a questo livello si realizza, strutturandolo, un ordine di simbolizzazione e narrativo che possa permettere al soggetto di dare integrazione e continuità alla propria esistenza, rendendola al tempo stesso una rappresentazione sufficientemente unitaria per riconoscersi e rappresentarsi come un preciso soggetto, con un proprio punto di vista, un modo d’essere ed un progetto di vita.

La malattia che si guarisce all’istante rappresenta un evento confinato, che può essere funzionalmente scisso dall’esperienza di persona, ed anche nel rapporto con il medico ci si potrà sentire portatori di una malattia senza per questo sentirsi necessariamente malati. Quando la malattia invece si esprime in modo invalidante o cronico, oppure quando la malattia porta dei segni altamente percepiti (ad esempio il dolore), o ancora quando la medicina non ha strumenti per cui non può essere efficacemente scissa e delegata al medico (manca la cura!), si attiva pian piano un necessario processo di “avvicinamento” alla malattia come esperienza della persona: ci si avventura così in un percorso ad imprevisti, all’interno del quale si realizza l’identità di malato e l’esperienza esistenziale e sociale che vi si organizza.

Per procedere in questo percorso avviene un processo di esplorazione del proprio corpo, dei suoi stati, delle sue modificazioni, delle sensazioni, dell’identificazione di rapporti tra cause ed effetti, caricandoli di significati affettivi, e attraverso l’animazione di un nuovo scenario di relazioni oggettuali interne (pensieri, fantasie, assetti affettivi, vissuti), nel tentativo di rimettere ordine e pace negli scombussolamenti e nei cambiamenti determinati dalla malattia: l’identità di malato può essere allora considerata come un laboratorio in cui si attivano tentativi autoregolatori e processi di codifica delle esperienze del corpo e delle influenze determinate dalla malattia. In questa fase avviene quello che gli psicologi definisco “ripiegamento narcisistico secondario”: un processo regressivo (ma funzionale) in cui si verifica uno spostamento degli investimenti dal mondo esterno al proprio corpo, e in cui si verifica una alta dipendenza (espressa attraverso sentimenti positivi o negativi) su poche persone e cose del proprio mondo, investendoli intensamente a livello affettivo (come parenti, medici, migliori amici).

Questo alto investimento delle energie verso l’“esperienza della malattia” coincide con l’avvio della costruzione dell’identità di malato, e tanto più questa energia narcisistica (ovvero questo ripiegamento su sé) sarà alto, tanto più sarà disinvestita quella parte più ampia e interconnessa con le esperienze sociali, definibile “identità di persona”. Avviene quindi, in vari gradi, una generale oscillazione tra l’identità di malato, in cui resta centrale l’esperienza della malattia, e la complessità della propria identità come persona (storia, problemi, desideri, ambizioni, progetti di vita, ecc).

Possiamo quindi assistere al restringimento quantitativo delle mete di investimento affettivo, ma all’incremento della densità di questo investimento affettivo. In questo particolare mondo “da malato” il medico (e più in generale i soggetti “che curano”) rappresenta quel totem salvifico, in cui si incarnano le fantasie di trasformazione onnipotente del destino, ora impedendo uno stare al mondo (la malattia), ora permettendolo (la cura): una vera e propria figura del destino. Per questo un processo usuale che viene ad esprimersi è la dipendenza, e per questo facilmente questa trova a manifestarsi nel rapporto con il medico (sia attraverso affetti positivi, che negativi).

Ovviamente è importante tenere presente la natura e la funzione di questi affetti, e dei processi che sottendono la dipendenza, la loro difficoltà e precarietà, per non rafforzarli inutilmente, e non “utilizzarli”: è di estrema importanza infatti facilitare comunque un decentramento dell’identità di malato per permettere di riposizionare il centro della propria esperienza identitaria nella persona. Non è così semplice per chi sta attorno alla persona-malata mantenere un equilibrio su questo compito.

I processi regressivi e narcisistici del malato sollecitano infatti nell’altro atteggiamenti corrispettivi: può capitare che il medico trovi gratificazione narcisistica nell’essere vissuto come un oracolo dai prodigiosi poteri curativi, da cui dipendere; può capitare che un genitore trovi appagante continuare a percepirsi buono e nutriente, qualcosa che mantiene in essere la prodigiosa esperienza dell’allattamento; può capitare che un genitore si possa sentire destinato a perseverare in preoccupazioni strabordanti e fantasie riparatorie, colpevole per aver in qualche modo “fatto arrivare” al figlio qualcosa di dannoso; può capitare che il miglior amico sia tutto preso da sentimenti buonistici e di una smielata benevolenza altruistica e che solo in questi sentimenti riesca a stare. Ecco che così, quasi automaticamente, si istituiscono e si consolidano intense e alleanze, che si fondano sulla relazione di dipendenza (ricordando che questa si fonda sempre dentro una reciprocità), organizzate attraverso la malattia, a scapito di più ampi investimenti esterni.

L’esperienza della malattia allora, tanto per la persona malata, quanto per chi vi sta in relazione, diventa un mondo particolare, con codici tutti propri: insomma sistemi relazionali, chiusi, dove l’appartenenza è poggiata sulla malattia, riducendo di molto tutto il complesso campo di esperienze che offre la vita, e nello specifico che suggerisce e rende possibile la nostra società.

Per questo complesso processo di trame affettive e di codici simbiotici, dove l’emozionalità che accompagna le esperienze è densa e potente, la funzione della parola e della relazionalità può essere un valido strumento per non essere risucchiati dall’emozionalità stessa: attraverso la parole il vissuto può essere pensato, comunicato, organizzato in percorsi narrativi e dentro rapporti può essere diretto verso percorsi di discioglimento. La chiusura di sistemi relazionali e l’isolamento in ristretti circuiti coesi, la cristallizzazione di modi di narrare i rapporti attorno la malattia, realizzano inoltre una fantasia di protezione centrata sull’evento della malattia: una protezione che è però paradossale poiché, come si fosse dentro una fortificazione, si arriva a tradurre come “tutto buono” quel che sta dentro il forte, e se non proprio “tutto cattivo” almeno “da diffidare fino a prova contraria” quello che sta o arriva da fuori.
 

LA DIAGNOSI COME EVENTO CRITICO

La diagnosi rappresenta in primo luogo la risposta ad una domanda sull’identità di una persona che, a seguito di un qualche disturbo, sta tentando di organizzare il disordine e l’animazione tra le sue fantasie. Ma la diagnosi, ovvero questa risposta, a volte può essere davvero difficile da integrare, da accettare e utilizzare come un orientamento progettuale e della propria identità. E vale tanto per il paziente, quanto per i famigliari, i genitori, il coniuge: anche per loro la diagnosi rappresenta una risposta e un orientamento progettuale, ma con una differenza, loro possono scegliere. Possono scegliere di separarsi da questa realtà, evitandola.

All’interno di questi movimenti, tra una identità di malato segnata dalle diagnosi infauste, o invalidanti oppure non gravi ma croniche, possono attivarsi, tanto per i pazienti, quanto per i famigliari (ma ancora di più per i famigliari, poiché non vivono fisicamente il problema, o perché possono con maggiore “agilità” mascherare i vissuti conflittuali – ad esempio la colpa-), processi di negazione della gravità della malattia e dei compiti di adattamento e di risposta che il medico indica e che la malattia sembrerebbe richiedere: “il medico si sbaglia”. E’ difficile accettare, è difficile sfuggire ai sensi di colpa inconsci.

E la strada per l’accettazione non è priva di pericoli, di mine: accettare il cambiamento di ordine attuale e futuro imposto dalla malattia, accettare i limiti che ci da, è un vero e proprio processo di elaborazione di un lutto. Il malato e la sua famiglia si trovano, nella fase successiva alla diagnosi, a confrontarsi con un evento decisamente difficile, perché gran parte delle fantasie di futuro erette a mete ideali per gestire tutto l’irrisolto che si porta dentro il nucleo famigliare, si trova improvvisamente radicalmente compromesso dall’organizzazione che impone l’adattamento alla gestione della malattia.

I miti (che riguardano i ruoli, le narrazioni del passato e gli scenari e le aspettative del futuro, sia sulla famiglia che sui famigliari) che sin li hanno organizzato il sistema affettivo famigliare, si devono confrontare con l’irruenza di una realtà inaspettata: e questo diventa un confronto dagli esiti imprevedibili. Gli esiti sono frutto di un processo complesso di elaborazione. Un processo di elaborazione che procede per fasi, anche se non sempre in modo lineare, ognuna delle quale mobilità difese inconsce tipiche.

La fase meno elaborata, ma anche la più economica, è il rifiuto della malattia, ovvero la negazione (che nel famigliare come abbiamo visto, può trovare un corrispettivo nella separazione). Solitamente questa fase si presenta come primo tentativo di risposta alla diagnosi. La difesa della negazione procede cercando di agire sulla messa in discussione delle qualità dell’evento, del suo livello di realtà. E lo può fare in vari modi.

Se si riesce ad evolvere la posizione negante, si incontra ed attraversa rabbia e disperazione (per un evento che evidentemente ora è accettato come reale), con intensi vissuti di ingiustizia, con facili tendenze alla colpevolizzazione e all’utilizzo della difesa detta proiezione: l’ammalato viene percepito (e/o si autopercepisce) come una vittima, e la sua patologia vissuta come un evento gigantesco e non trattabile. La rabbia è tuttavia un modo ed un tentativo onnipotente per provare a combattere la diagnosi: a volte i fattori intervenienti possono associarsi in maniera favorevole agli esiti (si dimostra un errore di diagnosi), realizzando la fantasia di aver proprio avuto la meglio sulla patologia (o su suoi rappresentanti, il medico su tutti), e rendendo così assai difficile un suo riconoscimento, accettazione ed adattamento.

Se invece si riesce a perdere l’illusione di poter agire per una trasformazione della realtà, ci si introduce in una fase di coscienza completa ed integrata alla propria vita della malattia, con una posizione nota in psicoanalisi come “depressiva”, una difficile e non certo economica condizione della nostra mente in cui gli aspetti ambivalenti delle esperienze e della realtà, quelli buoni e quelli cattivi, prima scrissi, trovano ad essere ora integrati insieme in livelli più maturi dell’esperienza, e nello stesso tempo si opera una riparazione di quegli oggetti cattivi che prima si era attaccato e provato a distruggere o far fuori, con la proiezione e la colpevolizzazione.

Ma il processo di elaborazione è integrato in una gamma davvero ampia di interazioni, che non rendono sensato definire tempi e modalità univocamente giusti. Di certo li possiamo comprendere nella loro funzione e nella natura dei vissuti che li connotano.

 

DALLA MALATTIA ALLA PERSONA

Sin dalla nascita si attraversano funzionalmente conflitti attraverso i quali emergono e si costruiscono rappresentazioni corrispondenti all’esperienza di una verità interna nel rapporto con la realtà esterna. Non si tratta di conflitti con il reale, ma piuttosto di conflitti interni attraverso i quali si staglia, per similitudine o differenza, il senso e la forma della propria identità. Se l’esperienza del mondo esterno è sentita ora come buona, ora come cattiva, ora come amica, ora come nemica, sappiamo che non si tratta di una situazione oggettiva (come può essere la malattia vista in una immagine radiografica) bensì di una situazione interna, fatta di fantasie, animata da vissuti che poco a poco vengono simbolizzati, poiché non la realtà esterna, ma la verità (che è sempre sentita) guida il piccolo soggetto nella sua esperienza di vita: la sua ricerca è orientata quindi ad acquisire i codici per poter divenire agente attivo nella simbolizzazione delle esperienze, nella attribuzione di senso e nell’organizzazione del senso della propria vita. In questo processo di costruzione della simbolizzazione dell’esperienza la realtà interna cerca, identifica, rintraccia corrispondenze/differenze con la realtà esterna, magari organizzando rapporti tra dinamiche causali, per riuscire a farsi una mappa e delle rappresentazioni di sé, del mondo, e di sé nel mondo: così egli è in grado di riconoscere e differenziare gli oggetti, le azioni, le emozioni, il senso, le relazione tra i fenomeni.

Dal bambino all’adulto si deve poter quindi arrivare ad acquisire i necessari strumenti per riuscire a dare ordine a quel che ci capita e a dare organizzazione all’irruenta energia dell’esperienza emozionale. Il bambino prima, l’adulto poi, devono poter riconoscersi (e vedersi riconosciute) la possibilità di animare oggetti interni e organizzargli destini, per consolidare la funzione di organizzazione delle proprie esperienze e della propria vita, quindi di essere un soggetto agente, capace di realizzare una esistenza soggettiva. E’ quindi necessario che il bambino sviluppi la capacità di identificare, costruire, organizzare e riconoscere la sua verità (emozioni, sentimenti) e assieme che, nel riconoscere queste verità, sappia anche riuscire a gestire le angosce dell’intensità dell’esperienza emozionale, per mantenere una appropriata connessione tra realtà interna e realtà esterna. Questa funzione, volta a realizzare una sempre maggiore capacità di convivere con l’esperienza di stare al mondo e di farsene alimento indispensabile per la strutturazione della propria mente e della propria persona, resta per tutto l’arco della vita una funzione indispensabile.

Anche per gli adulti. “Così, anche l’esperienza della malattia (intesa come diagnosi medica), al pari di altri eventi ed esperienze, implica un lavoro di codifica e socializzazione affettiva tra individui: il compito quindi è “in comune” a tutti gli attori che in qualche modo stanno condividendo quella esperienza. Così, il compito del medico e dello staff di operatori, ma anche di amici e famigliari che vivono un contatto professionale ed affettivo con il malato, è, in un complesso di funzioni, riuscire a testimoniare (e a testimoniare in sé) ed interagire in questo evento evolutivo”. Va perciò riconosciuto come fondamentale la riappropriazione della propria verità sull’esperienza della malattia nella propria vita.  Le narrazioni “medicalizzate” della propria esistenza, dovrebbero così poter riuscire prima o poi a riaccedere ed integrare (seguendo l’ordine della propria verità) livelli più soggettivi ed ampi, per restituirsi a scenari e desideri di un possibile progetto di vita.  

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