Aspettative e delusioni nei percorsi psicoterapeutici
L’idea che parlare con uno Psicoterapeuta sia sufficiente per risolvere i propri problemi, risulta nella stragrande maggioranza dei casi fallimentare e deludente.
Se in una prima fase poter vuotare il sacco, trovando una persona che ascolta con attenzione e interesse, dà un senso di grande alleggerimento con la piacevole sensazione di essere finalmente compresi e permette di allentare la morsa dell’ansia e del dolore, segue una fase in cui i discorsi diventano ripetitivi, le traiettorie circolari, e non si riesce ad approdare a reali cambiamenti. In questo contesto si possono innescare due stili di comunicazione: nel primo caso il terapeuta adotta un atteggiamento di cura affettuosa e protettiva, una sorta di maternage sostitutivo, tendente a riparare lacune, mancanze e traumi infantili; nel secondo stile relazionale il rapporto terapeutico vira verso un atteggiamento amicale in cui trovano spazio racconti dove si alternano consigli a condivisioni, tendenti a costruire una rete di alleanza solidale, in cui le differenze di ruolo e i confini fra paziente e terapeuta tendono ad affievolirsi fino a scomparire.
Se tutto questo inizialmente rende molto soddisfatto e felice il cliente, nel medio e lungo termine affiora un senso di disagio e frustrazione, derivante dal dubbio che nulla di importante stia veramente cambiando e che la qualità di vita tenda, fra un’oscillazione e l’altra, a ritornare la stessa.
A questo punto si è però instaurata un’abitudine, una sorta di rituale rassicurante, che non è facile mettere in discussione.
Il tempo, a volte molto tempo, passa, finché accade un incidente, un evento, che crea un’incrinatura, una delusione, che porta il cliente ad interrompere bruscamente il rapporto terapeutico senza aver compreso cosa veramente è accaduto.
Il cliente ne esce portando con sé il peso del senso di colpa per la fuga messa in atto, insieme alla sensazione che i nodi problematici, che lo avevano indotto a chiedere aiuto, siano rimasti intatti.
Gli obiettivi fondamentali in un percorso terapeutico: invertire tendenze distruttive e auto-sabotanti; sostituire progetti e obiettivi divenuti obsoleti; accedere ad una nuova consapevolezza di sé; sono aspettative realizzabili o fanno parte di un immaginario fantastico e irrealizzabile?
Quanti percorsi psicoterapeutici riescono ad ottenere un cambiamento radicale profondo?
In un periodo in cui tante persone accedono ad una richiesta di aiuto, quante sono soddisfatte del risultato raggiunto?
Per chi fa questo lavoro da qualche decina d’anni è tanto doveroso, quanto inevitabile, fare questa analisi critica.
Quello che ho compreso, in tanti anni di esperienza clinica, è che parlare e capire non è sufficiente a cambiare, per una ragione molto semplice: l’apparato mentale fonda il suo equilibrio e la sua sicurezza sulla stabilità, sull’esperienza e sull’abitudine, tre grandi avversarie del cambiamento e della trasformazione.
Il ragionamento, la spiegazione, l’interpretazione sono i prodotti più sofisticati della mente razionale; come possiamo aspettarci che usando questi strumenti possiamo accedere ad un reale cambiamento?
Quello che sperimento e verifico quotidianamente, con le persone che seguo, è che il cambiamento arriva quando, attraversando empaticamente il dolore, la paura, il senso di colpa, la rabbia, la persona accede ad un profondo movimento del cuore, che permette un’integrazione, un’accettazione e un rilascio della memoria traumatica, per giungere alla liberazione di uno spazio intrapsichico che finalmente può essere usato per realizzare un nuovo progetto di vita.
Ma per fare questo occorrono tecniche e metodologie che aiutino il paziente ad abbandonare il con

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