“Cosa sono quelle macchie?” Proviamo a spiegare il Test di Rorschach.

Alcune semplici macchie, ottenute facendo cadere qualche goccia su un foglio successivamente ripiegato a metà, così come avviene nei giochi per bambini. Un somministratore, un soggetto esaminato ed una sola consegna: “Mi dica tutto quello che ci vede, quello a cui potrebbero assomigliare”.

Il Test delle macchie di Rorschach rappresenta attualmente uno degli strumenti psicodiagnostici più conosciuti ed utilizzati al mondo, un metodo di indagine in grado di tracciare un esaustivo profilo psicologico e personologico dell’individuo esaminato. La forte risonanza mediatica che da decenni circonda il Test ne ha consentito una forte diffusione anche tra i “non addetti lavori”, sebbene tale popolarità abbia comportato, di contro,  una serie di importanti strumentalizzazioni che hanno restituito un’immagine distorta di uno strumento in verità molto complesso. Per poter somministrare il Test, di fatto, è necessario innanzitutto essere psicologi regolarmente abilitati, ma non basta: occorre essere appositamente formati e maturare anni di esperienza per poter essere in grado di interpretare correttamente un protocollo Rorschach.

Ma in sostanza, come possono delle semplici macchie d’inchiostro informarci su qualcosa di così complesso quale la nostra personalità?

Il Rorschach fa parte dei cosiddetti “metodi proiettivi” di indagine psicologica, caratterizzati dalla presenza di stimoli non strutturati e quindi liberamente interpretabili dal soggetto. Quando ci ritroviamo a dover risolvere percettivamente uno stimolo ambiguo, entrano in gioco peculiari processi cognitivi, affettivi e relazionali i quali, essendo frutto sia del nostro patrimonio genetico che delle nostre storie personali, rivelano il nostro modo di vivere noi stessi e di affrontare le situazioni che la vita quotidiana ci prospetta. In questo senso, l’insieme delle interpretazioni fornite alle macchie/stimolo risulta in grado di restituire una sorta di “istantanea” del funzionamento mentale di un soggetto, nonché di rivelarne potenzialità ed aspetti problematici (non necessariamente patologici).

Partendo da queste intuizioni, nel 1911 lo psichiatra Svizzero Hermann Rorschach avviò una serie di ricerche sistematiche presso l’ospedale psichiatrico di Herisau, sottoponendo le macchie ai pazienti ricoverati all’interno della struttura. In particolare, egli potè così constatare come i soggetti affetti da schizofrenia tendessero a fornire interpretazioni decisamente bizzarre e grossolane, riscontrando percetti non osservabili dagli individui non colpiti da tale disturbo. Grazie alla considerevole mole di dati raccolti, lo psichiatra svizzero riuscì a perfezionare l’attuale protocollo, pubblicando il risultato dei suoi studi empirici nella celebre monografia “Psychodiagnostik” (1921), ancora oggi citato come testo di riferimento dagli esperti del Test.

L’interpretazione della prova si basa principalmente sulla lettura della cosiddetta “siglatura”, consistente in un insieme di codici convenzionali assegnati dal somministratore ai diversi aspetti della risposta data dal soggetto. Tali codici vengono successivamente trasformati in indici numerici per poter interpretare il protocollo sia da un punto di vista “quantitativo” (confrontando lo scarto dei valori conseguiti dal soggetto con i valori di ottenuti dalla sua popolazione di riferimento) che “qualitativo” (osservando la particolare costellazione delle siglature attribuite al soggetto).

La siglatura inizialmente sistematizzata da Rorschach faceva riferimento ad alcune caratteristiche essenziali della risposta, ancora oggi colonne portanti del Test: la qualità formale dell’interpretazione data, la quale riflette se e quanto ciò che il soggetto ha percepito nella macchia sia effettivamente riscontrabile da altri; la localizzazione, che indica quale parte della macchia viene interpretata dal soggetto; la determinante, cioè l’elemento saliente che ha indotto nel soggetto quella specifica interpretazione (forma della macchia, colore, trama chiaroscurale, etc.); il contenuto, ovvero ciò che il soggetto ha effettivamente visto nella macchia e che in qualche modo può riflettere il suo “mondo interno”; infine la frequenza, indicativa di quanto spesso quell’interpretazione è stata espressa all’interno del campione di riferimento. Ciascuna di queste caratteristiche ci informa circa particolari aspetti psicologici di un individuo (capacità di problem solving, stile cognitivo, gestione degli affetti, dimensioni complessuali,  dinamiche relazionali etc.), i quali, letti nel complesso, sono in grado di offrire una panoramica completa sulla sua personalità.

Sfortunatamente, Rorschach morì prematuramente a breve distanza dalla pubblicazione della sua monografia per colpa di una peritonite mal diagnosticata, lasciando il proprio lavoro incompleto.

Nel corso di quasi un secolo di ricerche successive, diversi studiosi raccolsero la sua eredità, contribuendo a diffondere il Test sia in Europa che in Nord America. Le ricerche condotte da questi successori hanno dato origine a diversi approcci (più o meno ortodossi) ed a sistemi di siglatura autonomi e dalla complessità variabile, andando a definire un panorama molto variegato ed a volte poco chiaro perfino all’interno della stessa comunità scentifica. Per sintetizzare, attualmente è possibile ravvisare tre macro-approcci al Test: un approccio che predilige la lettura dei dati quantitativi di natura statistica a scapito di quelli più qualitativi, ben rappresentato dal metodo Exner; un approccio che si concentra maggiormente sull’interpretazione degli aspetti simbolici e contenutistici delle risposte, promosso in particolare da Marguerite Loosli Usteri e dal “Group de Recherche en Psychologie” fondato da Nina Rausch de Traubenberg; infine un approccio che tenta di mediare tra i due precedenti, cercando di offrire una lettura completa ed integrata sia degli indici quantitativi che degli aspetti simbolici (approccio esemplificato dal metodo “Scuola Romana Rorschach” di Carlo Rizzo).

In ogni caso, pur differendo nell’ampiezza della siglatura, nel calcolo di alcuni indici e nell’approccio clinico, tutti gli approcci riconosciuti trovano le loro fondamenta nel lavoro di Rorschach ed nel suo “linguaggio delle macchie”. Per questo motivo, a tutti coloro che volessero approfondire l’argomento personalmente sconsiglio di perdersi tra le miriadi di manuali esistenti, invitandoli piuttosto a cominciare dalla lettura dell’originale monografia di Rorschach (tradotta in italiano con il nome di “Psicodiagnostica”)

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