Autolesionismo di alcune pratiche identitarie e annichilenti

Antefatto

Una mattina di quelle K.S. si svegliò nella sua classe, frequentava il quinto liceo scientifico, preda di un attacco depressivo di insolita forza, cullato da istinti autodistruttivi e pene amorose.

Confidandosi con il suo amico F.P. cercava di trovare pace e serenità stretto da quella morsa soffocante, buia, che in quel periodo spesso lo sorprendeva all’inizio di un nuovo giorno. F.P. era considerato un pò da tutti un “pazzo genialoide” e non a caso era il suo compagno di banco e di tanto altro. Condividevano gli stessi gusti musicali, stesso modo di pensare, stesso umorismo e insomma la stessa innata passione/predisposizione per il Thanatos ed affini.

Chiedendogli consiglio su come slacciarsi da quella sensazione, facendo presente che il solito whisky-limone e zucchero a colazione non bastava più (alla buonanima di Bukowski: Super – Io di quel periodo), F.P. incominciò a pensare. Gli occhi brillarono e in pochi secondi, come da sua consuetudine, aveva trovato una risposta. Era un palliativo somatico, certo, non psichico, ma K.S. gli voleva bene, e anche lui: si fidava. Non obbiettò un secondo alla sua proposta. Si informò solamente sui perché e i percome. Approcciò anche stavolta alla questione sollevata difendendosi con il solito muro razionale, scudo di ogni stimolo fenomenico che impattava in quel periodo.

Non faceva una piega la sua idea. “Proviamo” disse. La soluzione era basata sul presupposto di una stimolazione esogena di endorfina… Provocata da… una bruciatura.

Si, gli consigliò di bruciarsi per stare meglio: la prima volta consistette nel tenere acceso a lungo un accendino per poi stamparlo con forza sul dorso di una mano…

La sensazione fu molto piacevole e rimase colpito dalla mancanza di quel dolore che comunque aveva pronosticato: niente… Solo tanta e gradita endorfina che sarebbe diventata un’amica da lì in poco tempo… Insieme a tante altre…

E…

…E da lì iniziò un uso incontrollato, poi abuso, di quella tecnica “terapeutica” fino a derive eclatanti. La porta era stata aperta e incominciarono altre sperimentazioni.

Incominciò con l’accendino, poi le sigarette, poi scaldava le attache. E si marchiava. Per arrivare a diventare un pioniere del campo tatuandosi a fuoco sul braccio durante l’ora di italiano il nome della ragazza che gli scaldava il cuore (!), la stessa che diede lo spunto all’inizio di queste pratiche. E non solo: scoprì un paio di anni dopo che negli Stati Uniti avevano (re)inventato una nuova moda: lo Scaring (scarificazione), il Branding (marchio a fuoco), il Cutting (incisione). Pensò che in ogni modo era stato un innovatore. E gli altri lo guardavano con rispetto e un po’ di timore. E ne era orgoglioso. Al massimo doveva inchinarsi temporalmente a chissà quale tribù africana della quale ai tempi non aveva cognizione e che aveva guidato il suo Thanatos su strade archetipiche definite.

Spille da balia, lamette da barba, chiodi, mozziconi di sigaretta, accendini, attache, erano diventati i suoi nuovi compagni di giochi. Questi si andavano ad unire ai vecchi: alcool, fumo, erba, l.s.d., anfetamine, antidepressivi farmaceutici, pasticche, eroina. I nuovi arrivati avevano una funzione fondamentale: di decompressione dalla depressione indotta dalla fine dell’effetto delle sostanze psicotrope. Unita alla depressione endogena di fondo si completavano in una combinazione esplosiva, o sarebbe meglio dire implosiva.

E così si era creato un piccolo gruppo, o sarebbe collimante parlare di tribù, che comprendeva adepti convinti, fino a curiosi simpatizzanti. Erano gli esclusi, gli emarginati sociali portatori però di una presunta superiorità intellettuale: gli altri non potevano capire…(e neanche loro, ma questa è un’altra storia). La coalizione fungeva da scudo: era efficace. Si difendevamo a vicenda: la solitudine e la malinconia che li distingueva si trasformava in gioia e spensieratezza accompagnati dalla “Loro” (in senso stretto…era di proprietà…) musica, storia, poesia. Sogni.

E si aiutavano, si controllavano a vicenda per tentare di evitare che qualcuno abusasse. Ma il controllo aveva un piccolo problema proiettivo: nell’abuso leggevano il loro profondo dolore. Poteva essere compensato solo da una superficiale comprensione della loro profonda richiesta di aiuto: mascherata da atti estremi. E allora tacevano. E speravano che non fosse troppo: questo era il pensiero, non si arrivava a mentalizzare le conseguenze. Speravano che non fosse troppo… E basta.

Fino al ritorno dell’amico sano e salvo. Come da una prova iniziatica. Il calore dell’abbraccio era sensibile, ce l’aveva fatta. Il gruppo era salvo. Dal mondo esterno era salvo. Questo provavano…

Ma nel loro intimo sapevamo che erano soli, solissimi. E la via di fuga era il dolore fisico. Sfuggire da quello psichico non si poteva, era pacifico. Ma quello fisico era strano: controllabile, e appagante. Il corpo era loro, ma in un’accezione diversa dal senso comune: era una cosa della quale potevano disporre senza dover rendere conto a nessuno, come se fosse un oggetto, privatamente intimo. Da maltrattare come una prigione, provocare, portare al limite. Punirlo per la sensazione di permanenza forzata che trasmetteva: il contenitore del male, del dolore. Del Persecutore. Con un effetto collaterale piacevolissimo: le sue difese naturali. Dolore: endorfina. Emozioni (forti): adrenalina. Era un tornare alle origini dopo qualche trip o magari una forte bevuta.

Si creava un’altalena tra l’uso di sostanze stupefacenti a fini terapeutici per evadere dal proprio corpo, per sentirsi meglio, per non pensare, pensare diversamente o a volte per far star bene proprio il corpo stesso e la sua persecuzione. Tutti ignari che l’oggetto delle persecuzioni erano proprio loro stessi.

 

Epilogo.

Una sera K.S.. Un suo trip: si trovava in un campo di calcio, steso, nell’erbetta. Il campo non finiva mai e si sentiva perdersi nel suo espandersi senza fine. Era sempre più piccolo. Era piacevole. Pensò che non avrebbe voluto svegliarsi più.

Finito il trip K.S. incominciò a spegnersi le sigarette sul dorso della mano e confidò a D.F. (il suo migliore amico) che non avrebbe trattenuto la sua vita avvicinandosi ad un muretto di un belvedere. Fortunatamente c’era D.F..

 

 

Clinicamente teorico.

Un breve antefatto mi è sembrato doveroso in quanto ritengo che sondare l’humus che nutre una patogenesi sia imprescindibile da un qualsiasi tipo di comprensione. In questo caso psicosociale. Non ho voluto affrontare volontariamente l’aspetto familiare in quanto credo meriti un superiore approfondimento, separato, vista la sua peculiare eterogeneità.

Perché un punto di vista psicosociale? Perchè è nel sociale che il tipo di autolesionismo in esame, naturalmente di matrice psichica, cerca la propria riconoscibilità essendo connotato da chiare manifestazioni esibizionistiche ed è qui che si incasella perfettamente nel suo scopo secondario. Da tenere in considerazione anche la caratteristica aggregativa tipica di tale condotte: sia che si tratti di autolesionismo fisico, di abuso di sostanze semplice o altro,  distinguerò due sovracategorie della scopo in autolesionismo identitario e autolesionismo annichilente a seconda delle finalità rituali.

Nell’autolesionismo identitario abbiamo la possibilità di isolare compiutamente caratteristiche qualitative dell’atto che che lo collocano, a partire da un agito nel reale, in un simbolo nello psichico e quindi utilizzabile in un percorso di comprensione.

Nell’autolesionismo annichilente possiamo invece distinguere come il comportamento agito sia una deviazione patologica del normale fluire libidico con un effetto autodistruttivo: la libido che non trova l’oggetto si trasforma in aggressività. Anche nella sua nuova veste l’energia libidica non riuscirà però ad essere collocata su di un oggetto utile: questo ulteriore fallimento nell’investimento è dovuto dalla enorme forza distruttiva a livello simbolico dell’energia trasformata, perchè originariamente inibita nella meta. Una sublimazione negativa che si autorivolge implosivamente al soggetto in una deriva masochistica.

Si intuisce comunque un sottile rumore di fondo comune: la ricerca di aiuto, un codice comunicativo per la parte dell’Eros, un messaggio, una ricerca della disintegrazione dalla parte del Thanatos. Malesseri gruppali: non che siano determinanti rispetto alla storia individuale, mi auguro non passi questo concetto, ma significativi in quanto spazio comune dove depositare le proprie frammentarie identità provenienti da storie diverse ma, in un ipotetico percorso piramidale, sfocianti nelle stesse condotte a livello statisticamente significativo e nella stessa attitudine mentale praticamente con tendenza all’uno. Il motivo dominante imprescindibile è individuabile nella qualità identitaria di questi soggetti: identità adolescenziali, non in senso temporale (naturalmente), connotate nell’oggettivazione di questa modalità di funzionamento. Permanente.

Potrà essere utile in tal senso adottare come termine di paragone dei riti iniziatici antropologicamente ancestrali all’interno di storiche organizzazioni societarie dandone una riassuntiva panoramica. Li definirò semplicemente, per comodità, momenti di aggregazione sociale dove si sancisce un passaggio generazionale tramite prove più o meno cruente, riconosciute dalla comunità di appartenenza. Il quid di tali iniziazioni è la funzione contenitiva e di attribuzione di responsabilità: c’è un passaggio netto di status dove si possono individuare, con modalità zero – uno, consegne di codici comportamentali. Nelle comunità prese in esempio è riscontrabile una caratteristica fondamentale: la presa in consegna del “nuovo adulto”. Verrà aiutato e sostenuto per poter meglio adempiere ai propri diritti doveri e formato tramite la pratica educativa dell’esempio: dall’integrazione sociale fino ad una interiorizzazione psichica completa degli oggetti sociali condivisi. Il supporto dato ha un’altra faccia della medaglia conosciuta e sempre condivisa: le severe sanzioni esercitabili nei casi di mancato adempimento alle mansioni assegnate. Lo scenario sommariamente rappresentato è un ingranaggio funzionale di un bisogno sociale filogeneticamente percepito e culturalmente espresso: la sopravvivenza della comunità. Utile sarà citare brevemente alcune delle regole societarie di un particolare sottotipo di comunità anche se evidentemente non ancestrale ma utile al nostro scopo: la Yakuza.

 

Yakuza.

In Giappone detta anche Gokudō, tradotta e conosciuta in occidente con un generico “Mafia Giapponese”, è una serie di bande (Kumi) organizzate, chiaramente dedicate ad attività illecite.  È regolata da principi gerarchici e di onore molto rigidi come garanti di un ordine desiderato condiviso. È uso tra gli affiliati definirla “Ninkyō dantai” accostabile ad un significato simile a “onorata società” e gli affiliati hanno un codice cominicativo gergale ed estetico distinguibile e distintivo. Anche loro hanno tra i vari diritti – doveri interessanti particolarità sulle quali soffermarci. Tra i doveri, nel rito di iniziazione giurano di non contravvenire mai a questi punti:

1. Non avere contatti con le moltre di un altro compnente.

2. Astenersi da attività diverse da quelle normalmente  ordinate anche sotto la spinta della povertà.

3. Non tradire mai i segreti dell’organizzazione.

4. dare lealtà assoluta al proprio capo.

5. Usare solo il linguaggio gergaleo quello speciale del proprio Kumi.

Tra i diritti è possibile tatuarsi il corpo tramite la vecchia tecnica giapponese: si penetra la pelle ripetutamente con un chiodo sottile colpito con un martelletto che viene immerso appena nell’inchiostro. È una pratica non solo accettata ma distintiva: molto dolorosa porta spesso a giorni di febbre alta per avvelenamento da inchiostro e la morte non è rarissima. A sottolineare la qualità identitaria del gesto bisogna menzionare quanto in Giappone l’esposizione di un certo tipo di tatuaggio sia inequivocabilemte indicativo dell’appartenenza alla malavita organizzata e quindi formalmente una divisa: ad esempio si è interdetti ai luoghi pubblici dove si deve far mostra del proprio corpo, come le piscine ad esempio, se tatuati. Come proverò a dimostrare successivamente anche in questo caso il tatuaggio mantiene intatte le sue prerogative. Non saprei se sia azzardato definirlo una manifestazione atemporale e acontestuale. Sospetto abbia caratteristiche “Elementali” pronunciate nel suo significante psichico.

Nel caso di contravvenzione alle rigide regole d’onore imposte, in alternativa alla punizione massima, ovvero l’allontanamento dal proprio Kumi e l’essere banditi da tutti gli altri (hanmon), c’è la possibilità di rimediare tramite un atto volontario: è l’usanza o possibilità per l’affiliato (kobun), di recidersi, davanti al  capo offeso (oyabun), una falange del mignolo in segno di scusa e compensazione: pena anche la morte. Il così detto “yubitsume” atto che non permette allo oyabun di rifiutare il perdono. Qui si evidenzia chiaramente la natura del male imposto come collante del costituito tramite la castrazione virile rispetto al capo ordalico ad un livello simbolico non particolarmente derivato. La funzione sociale dei Kumi, radicata nel territorio nipponico dai tempi feudali, è riconosciuta anche dalla fazioni politiche che legittimano apertamente la loro esistenza. Derive partitiche di estrema destra legittimano la loto esistenza in un discorso a noi utile  se letto in quest’ottica: le caratteristiche di rigidità e controllabilità dell’organizzazione rendono funzionalmente desiderabile la loro attività sul territorio da un gruppo in un dato momento in quel luogo. Queste condizioni si riflettono in dei comportamente altrettanto prevedibili e quindi anche indirizzabili se non alla necessità emarginabili rendendo la Yakuza socialmente funzionale. Alla fine della seconda guerra mondiale, con il benestare del Comandante supremo delle forze alleate ovvero il generale Douglas MacArthur  allora presente sul territorio, la Yakuza ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico (!) in cambio di appalti nel mondo dell’edilizia fino ad infiltrarsi sempre più compiutamente nel tessuto politico giapponese fino ad arrivare a fornire le scorte personali di importanti uomini politici. Nonostante la matrice fortemente delinquenziale dell’organizzazione ancora oggi molti giapponesi vedono nella Yakuza un gruppo nel quale identificarsi perchè protettori dei più deboli sui quali fare affidamento nonostante le leggi di sensibilizzazione del governo e le leggi antimafia varate (anche se solo nel 1992). La loro desiderabilià sociale si manifesta nella possibilità degli affiliati di girare impunemente ed avere dei ritrovi, lussuosi, dove campeggia in bella vista il logo del loro Kumi. Le derive patologiche presenti compentrano i meccanismi funzionali alla loro socialità. Come ultimo curioso dato vorrei sottilenare la natura adolescenziale di questo gruppo analizzando l’eziologia del nome Yakuza: la derivazione da tre numeri, 8 – 3 – 9 da cui in giapponese Hachi, Kyuu e San e quindi Ya – Ku – Sa, rappresentanti il punteggio più basso del gioco di carte nipponico l’Oicho-Kabu ci suggerisce da un lato quale sia stato il primo campo di affari dll’organizzazione ma dall’altro il suo spirito fanciullesco (il gioco)  e la sua percezione di inadeguatezza rappresentata dal punteggio più basso punto dal quale affermarmarsi in modo compensatorio.

Adesso sonderemo un’altro tipo di condotta per provare a osservare come si possano avere due fini opposti nello stesso comportamento: l’uso di sostanze.

 

Uso di sostanze.

In più società della America Centrale già dal X secolo era ed è uso  e costume,  fare uso dei cactus Peyote, pianta delle zone desertiche del Messico o del Texas (USA) in quanto provocanti allucinazione grazie alla sostanza alcaloide mescalina in loro presente. Rispetto all’uso di l.s.d. occidentale, sostanza con la quale condividono alcuni effetti, abbiamo diversi elementi distintivi tra le due pratiche ma uno più di altri: la presenza di uno sciamano che conferisce la grande attribuzione di significato collettivo dell’esperienza. Per ultimo ma non per importanza la funzione data al “viaggio”: per tornare a Sé e non per dimenticarsi via da Sé. Il viaggio sciamanico è finalizzato alla ricerca delle soluzioni delle problematiche postegli dal soggetto o dalla comunità, entrando di fatto in un’altra dimensione, quella degli spiriti, coadiuvato dall’effetto della pianta, per poi tornare diciamo nella realtà ad applicarle. La figura dello sciamano ha una caratteristica tipica ed importante che ritroveremo anche nella pratica rituale dei tatuaggi: la chiamata sciamanica non è rifiutabile. Chi viene prescelto dagli spiriti deve accettare pena la follia e poi la morte.

 

Adolescenti.

Tornando ai nostri adolescenti chiunque abbia avuto la possibilità di osservarli o condividerne gli spazi aggregativi, fisici e mentali, avrà notato delle similitudini con quanto descritto sopra (parlo di adolescenti perché anche in caso di età anagrafiche superiori, l’età psichica sarà comunque ascrivibile a quel periodo della vita mai integrato). E naturalmente delle differenze.

Proverò a concentrarmi particolarmente su queste in quanto rappresentative dell’inversione di funzione di tali riti per alcuni significativi tratti (integrazione – emarginazione). Prima una breve citazione dei tratti comuni a seconda del comportamento osservato.

A) Nell’uso della cannabis è eclatante il rito della preparazione, della condivisione, del racconto delle esperienze condiviso, della regolamentazione dell’atto del fumare, alle responsabilità dei nuovi arrivati che man mano vengono concesse: di procurarsi la sostanza, della preparazione, del numero di tiri concessi. Diritti doveri che devono essere guadagnati tramite il rispetto della “comunità”.

B) Nel l.s.d. si ha la presa in consegna da parte di un consumatore esperto del novizio o è consigliata la presenza di un “tripsitter” ovvero di una persona non allucinata deputata ad aiutare il viaggiatore, per sostenerlo nell’evenienza di un “bad trip” ( il temine contenerlo nel caso specifico sarebbe ideale: non lo uso perché incompreso razionalmente e quindi non funzionale).

C) Nell’eroina oltre allo scambio della siringa c’è una coalizione nel gruppo di consumatori teso al controllo e alla difesa. Prima almeno della terribile deriva tossicologica della sostanza: non lascia spazio a nessun tipo di pensiero e il passaggio all’atto diventa una costante in un caotico tutti contro tutti.

D) Per quanto riguarda l’uso di pastiglie, m.d.a., anfetamine, chetamina, (mi scuserete se dimentico qualche importante componente della squadra) si sono creati veri e propri gruppi semi – ufficiali che formano spazi aggregativi come le “community” su internet. Gruppi chiusi, oltranzisti, che hanno nell’organizzazione di rave una delle manifestazioni principali, spesso basati sul solo passaparola. Modalità di richiamo dei cospecifici fortemente esclusiva.

E) Tratto estetico comune distintivo è sicuramente il piercing: è praticato in alte percentuali dai partecipanti ai gruppi sopracitati (insieme ai tatuaggi): svolge anche lui la funzione di riconoscimento gruppale. Lo scaring, il piercing ed affini sono un palese manifestazione del tentativo di generare un marchio identitario, sottocultura del mondo dei tatuaggi.

Va sottolineato che un certo uso di sostanze, il tatuaggio, il piercing in tutte le sue declinazioni affondano le proprie radici nella storia più remota dell’essere umano, quasi fossero rappresentazioni archetipiche di comunicazioni Elementali. Lo scopo principale indiviaduabile nella riconiscibilità all’interno di un codice sociale sessuale in prima istanza, si declinava in un successivo derivato nella possibilità di riconoscere l’individuo e collocarlo socialmente osservandone solamente gli ornamenti così da regolare rapidamente le relazioni intragruppo a partire da società preistoriche dove le possibilità comunicative erano certamente ridotte o si andavano raffinando.
Come si può notare, poco è cambiato.

Tutti questi gruppi hanno inoltre un codice comunicativo di stampo gergale più o meno rigido a identificare in modo ancora più stretto la cerchia.

 

La società.

Fin qui tutto combacia: bisogni gruppali, identitari, riti iniziatici, regole condivise… ma l’ombra incomincia a stagliarsi ad una visione meno superficiale. La funzionalità di queste manifestazioni rimane simile e anche la prima finalità, ovvero la difesa sociale. Ma compare una seconda finalità identificabile da questo scontato interrogativo: difesa da chi? Dalla società in essere. Le società in essere a loro volta rigettano tali manifestazioni gruppali. Le più evolute hanno sperimentato un sistema per difendersi da chi non aderisce alle leggi che le regolano che fa da contraltare all’ipotetica libertà di scelta che offre: l’emarginazione, apparentemente meno aggressivo rispetto ad una ipotetica azione repressiva, ha il suo motivo d’essere nel ruolo accentratore di individui fuori media che tali gruppi esercitano rendendoli immediatamente riconoscibili, quindi di fatto controllabili e quindi di fatto innoqui. Emanazione sociale di un thanatos raffinato nel tempo che nell’individuale si esprime nell’indifferenza, alienazione. Mancano dei passaggi: proverò a sondarli.

Immaginiamo una società dove le leggi condivise X che hanno portato al suo consolidarsi siano tacite e i depositari di queste avulsi dal territorio. Vengono impartite dall’alto, da un Altro Super – Egoico. Mancando una funzione contenitrice, sia a livello sociale che familiare, alcuni soggetti reagiranno a tali dettami tirandosi fuori e divenendo di fatto cani sciolti (risposta reattiva). Manca però all’effetto pratico un capobranco psichico. Si riuniscono quindi in agglomerati di soggetti dove le uniche collusioni possibili sono tra i frammenti della loro identità disintegrate (Dato determinante: altrimenti sarebbe stato più utile inserire la Yakuza tra le manifestazioni adolescenziali…).

E se di collusione patologica trattasi allora della coazione a ripetere ci si dovrà occupare. Il soggetto all’interno di tali gruppi usufruisce di alcuni vantaggi (protezione, condivisione, comprensione) e nello stesso tempo deve sostenere il perverso meccanismo. Come? Fornendo il proprio dolore come carburante emotivo per una sorta di cannibalismo emozionale. Si innesca così una fallace percezione della reale circolarità delle emozioni: non si accolgono, vengono esplose all’esterno dove trovano rumorosi spazi siderali invece di comprensivi silenzi. Il luogo scelto permette di esibire la maschera socialmente disfunzionale alla quale il soggetto però tanto deve nella sua funzione protettrice. Si può essere quello che non si è. Si esibirà la maschera protettiva dei fantasmi infantili ipercompensati. Le manifestazioni sono approvabili tanto più lontane e compensative della ferita originale fino a diventare in alcuni casi parossistiche. Essendo una comune senza una finalità di formazione identitaria (se non di tipo fallica – dimostrativa) ognuno dovrà fornire il proprio dolore con l’illusione che verrà capito, senza però possibilità di integrazione: ma non ci sarà restituzione, solo ulteriore frammentazione. Sarà possibile paradossalmente essere quello che si è. Non comprendendo che, in realtà, in quel luogo sarà possibile essere solo quello che, in manifestazioni portate al limite, si vorrebbe essere. Per compensare il vuoto interiore, la mancanza di pensiero, l’incapacità di integrazione. Quindi in totale assenza di un fallo interiore ed in presenza di uno ipertrofico sociale. Si agirà all’insegna del principio del piacere, in assenza di finalità secondarie tese ad una consapevolezza di qualsiasi tipo o di un oggetto intrapsichico adulto: il principio di realtà non è presente.

Un esempio utile a comprendere l’assenza di costruttività di tali relazioni ci sarà dato dalla pratica dei tatuaggi.

 

Tatuaggi.

Innanzitutto è doveroso fare dei distinguo di suddetta pratica introducendo sette dimensioni discriminative rispetto a ciò che ci interessa dimostrare per quanto riguarda la sua pratica in occidente. Questa distinzione è importante perchè spesso accade che la pratica dei tatuaggi come riti di passaggio, indipendentemente dalla latitudine, sia obbligatoria e quindi scevra di quella componente del libero arbitrio che invece ci offre spunti di riflessioni nell’uso che se ne fa oggi alle nostre di latitudini.

L’età del soggetto al primo tatuaggio.

L’esperienza scatenante.

Il simbolo scelto.

Se il simbolo del tatuaggio è stato pensato dal soggetto.

La zona del corpo scelta.

Se il tatuaggio è stato praticato dal soggetto stesso oppure da un’altra persona.

Se la società di appartenenza lo prevede nel dato periodo storico.

Su queste coordinate penso si possa arrivare a determinare una qualità del gesto in tre approssimativi sottogruppi su una ipotetica scala che chiamerò “Qualità identitaria nel tatuaggio”.

a) avremo una manifestazione più vicina possibile ad un rito identitario contenitivo e partecipativo ideale.

b) avremo un atto gruppale rappresentante l’assenza e l’impossibilità di una identità.

c) avremo tatuaggi che chiamerò impropriamente “socialmente accettati”.

Ponendo un caso limite, ma con scopo esemplificativo, dal quale poi si potranno andare ad estrarre situazioni più sfumate sul continuum prima sommariamente descritto, poniamo di avere: un adolescente che ha vissuto una fortissima emozione (negativa o positiva) impossibile da contenere per le sue deboli strutture, che pensa autonomamente ad un simbolo per lui significativo e che decida di inciderlo da solo in una parte del corpo caricata libidicamente in una nazione europea contemporanea. Quindi un caso “a”.

 

Dietro il tatuaggio A.

Appare chiaro come la rappresentazione grafica di un’emozione in un tatuaggio sia un procedimento onirico rappresentativo del contenuto latente libidico con tutti i processi di condensazione e spostamento che ne derivano, tipici poi della produzione notturna. Viene posto fuori sul corpo in una sorta di proiezione psicotica esemplificando un modo di dire molto comune tra schizofrenici reali che recita più o meno nelle sue varie forme: “Tutto è a posto, niente è in ordine”. E quello che non è in ordine lo mettono fuori da sé, per far si che sia tutto a posto. E’ altresì evidente la fallacità dell’identità esibita tanto quanto ostentata. Nel “Barone Rampante” di Italo Calvino, Viola rimprovera Cosimo, che aveva scelto di vivere sugli alberi, di vantarsi che non sarebbe mai sceso, ammonendolo che le cose importanti si fanno e non si dicono… Chissà cosa avrebbe pensato Viola di modalità comunicative più estrose. Ora, essendo modalità di espressioni identitarie prettamente adolescenziali e, come detto precedentemente, connotate dalla caratteristica della permanenza, non sarà più difficile capire il perché ad un primo tatuaggio ne seguono sempre degli altri in varie e spesso anche attardate età della vita: la curva della ripetitività decresce dal caso “a” verso il “c”. Nuova emozione, vecchia strategia. Lo straripamento emozionale è comunque una costante di questi comportamenti e similari. Muovendosi nel regno della coazione a ripetere il nuovo verrà invariabilmente trattato come il vecchio. L’esempio dal quale traggo tali conclusioni è palesemente limite (ma non irreale!!!): è ciò che maggiormente si avvicina al concetto di tatuaggio identitario funzionale. La problematica risiede chiaramente nel carattere solipsistico di tale atto, nella mancanza di una finalità differita: assenza di principio di realtà, quindi passaggio all’atto e, mi ripeto, coatto.

 

B e C.

Nel caso “b”, invece avremo una deriva qualitativa secondo parametri analitici. Esempio: il tatuaggio sarà uno standard, inciso dal migliore tatuatore del quartiere e che sicuramente piacerà molto ai compagni di viaggio. Denoterà sicuramente oltre ai problemi citati per il caso “a” anche assenza di caratteristiche private, evidentemente con problematiche non sufficientemente integrate, da resistere all’impatto con l’imago del gruppo .

Non sfugge dalla classificazione prima suggerita la pratica “c”, dei tatuaggi “socialmente accettati”. Decisamente scevri per grado delle suddette implicazioni sicuramente vanno iscritti in un altro ambito. Non mi soffermerò troppo sull’argomento ma tenterò ugualmente di convincervi proponendovi l’immagine di una ragazza che sia tatuata un delfino o una farfalla sulla caviglia…Basterà comunque fare degli aggiustamenti per verificare che il motore di base è lo stesso e posizionare il soggetto particolare sul dato continuum.

 

Piercing e Scaring.

Ho trattato i tatuaggi data la loro estendibilità a altre pratiche simili. Per i piercing si valuterà il tipo e la zona corporea interessata: ma sicuramente saranno più semplici da indagare analiticamente considerato il più basso grado di investimento emotivo che comportano, anche se si possono fare dei distinguo quando le zone interessate sono sensibilmente erogene andando a ricordare le motivazioni ancestrali delle prime pratiche di perforazione corporea tese a stimolazioni sessuali o a messaggi erotici.

Per quanto riguarda lo scaring (comprendendo le diverse varianti) penso sia possibile inserirlo in una zona di confine tra gli atti autolesionistici identitari e gli atti autolesionistici annichilenti: possiede tratti esclusivi dell’impatto della loro espressione, sia degli uni che degli altri. È una pratica legata all’ostentazione e alla fissazione dell’emozione come il tatuaggio, con la differenza che, in questo caso, si cerca la distruzione dell’emozione, la sua rimozione. Inoltre è connotata di una violenta auto – aggressività ad altissimo impatto sociale: anche in questo tratto si discosta dalla categoria dei tatuaggi – piercing in quanto più accettati (sono più “visibili”: inteso come mentalizzazione). Tutto ciò farebbe supporre chi è il padrone di casa: il Thanatos. Ma sempre di un continuum stiamo trattando: in questo caso lo traccerei partendo appunto dal Thanatos verso l’Eros: dalle pratiche annichilenti fino a quelle identitarie. Ed è bene tenerlo a mente onde evitare strumentalizzazioni estremiste del concetto che invece va dosato e calibrato caso per caso.

 

Tossicodipendenze.

Le differenze tra le due pratiche, autolesionistiche identitarie e annichilenti, sono evidenti. Ma sospetti sono i legami con i quali queste due condotte si assecondano temporalmente senza diritto di precedenza. Ora verrà da obbiettare che le condotte tossicologiche forse sono tirate un po’ per i capelli nelle pratiche autolesionistiche. Mi sento però di poter ribattere facendo notare che nella nostra società come in quelle affini c’è una componente informativa determinante: chi abusa di sostanze psicotrope nella quasi totalità dei casi è a conoscenza della loro pericolosità. Il Thanatos è presente, la fa da padrone, ed è molto potente non fosse solo per la ricerca della perdita di controllo. Sarebbe quindi possibile definire le tossicodipendenze una manifestazione dell’autolesionismo. Per non parlare dell’eroina che definisco personalmente un suicidio differito. È un problema di grado e non di qualità. Vorrei però aggiungere una riflessione su una qualità dell’uso delle sostanze psicotrope che credo di poter riscontrare anche nelle nevrosi: la loro caratteristica di essere la migliore delle soluzioni possibili, in questo caso lenitiva, creando comunque dei problemi al soggetto, quindi nel male.

Credo di poter terminare così la breve analisi delle condizioni psicosociali scatenanti per potermi soffermare sull’aspetto autolesionistico personale di tali pratiche.

 

Autolesionismo.

Come precedentemente detto il corpo viene vissuto come un fardello, una prigione ma al contempo dispensatore, se esattamente stimolato, di piacere. L’unico dolore dal quale non si riesce a fuggire e infonde una percezione di penosa ineluttabilità, rimane sicuramente quello psichico. Ma l’attribuzione di responsabilità o comunque l’eziologia presupposta è esogena. Ed il corpo viene percepito come esogeno. Le scissioni interne hanno la loro onda lunga nella scissione corpo – mente. Il corpo viene punito come specchio nel quale questi soggetti si confrontano nella realtà. E tentano di sfuggirne, di differenziarsi. Vedono un persecutore, lo attaccano. Lo specchio li inganna: non è altro da Sé.

La mancata elaborazione del lutto riguardo la perdita di parti infantili, a favore di sovrastrutture imposte, spiana la strada ad attività mortifere. L’equilibrio tra l’istinto di vita e il Thanatos viene meno e si ha uno sbilanciamento verso l’attitudine già strutturalmente avvantaggiata. Definendo il suicidio come un estremo tentativo di richiesta di aiuto basterà anche in questo caso posizionare sullo stesso continuum una data pratica. Quindi non ci dovrà interessare quanto sia pericoloso oggettivamente un comportamento, ma quanto lo sia nella volontà psichica: è chiaro che un piercing è decisamente più innocuo di una tossicodipendenza da eroina. Ma è sempre una profanazione violenta del proprio corpo e come tale va analizzata. Nonché spesso si associa ad una predisposizione alla violenza, allo scontro fisico e in generale a condotte potenzialmente pericolose aprendo le porte a considerazioni sulle strutture sadico – masochistiche interessate.

Come tutte le condotte patologiche, ad esempio la nevrosi è la migliore delle soluzioni possibili, nostro malgrado come già sottolineato, questi comportamenti hanno una loro qualità vitale. Una precisazione: non è in contraddizione con quanto su detto visto che di un contesto di equilibrio dinamico stiamo parlando. Alterato, ma sempre di un sistema meccanico regolato da leggi fisiche, dove c’è uno zero ed un uno ma solo nella loro tendenza, alle quali non sfuggono le strutture psichiche.

Qual è l’aspetto vitale? Il tentativo di autoindursi piacere. Per alleviare le proprie pene. Non approfondirò il come le sostanza psicotrope possano indurre piacere (è lapalissiano) ma indagherò più approfonditamente altri comportamenti più enigmatici.

 

Effetti collaterali.

Nei comportamenti autolesionistici propriamente detti (tatuarsi, inserire oggetti sotto pelle, bruciarsi) gli effetti collaterali connotati piacevolmente sono ascrivibili a tre ambiti.

Fisiologico.

La produzione di endorfina successiva alla pratica induce nel soggetto una sensazione corporea particolarmente piacevole che lo ricompensa del coraggio investito. Basta considerare che in alcuni casi le zone scelte sono quanto mai particolari. A questo si aggiunge l’oggettiva qualità antidepressiva di tale sostanza endogena.

Sociale.

La possibilità di far parte di un “oggetto contenitore”. L’approvazione gruppale proporzionata all’estremismo della scelta. Quindi leadership, accettazione, inclusione. Da non sottovalutare il piacere indotto dalla volontaria, in quanto ostentata, emarginazione sociale data dalle spiccate differenze comunicative estetiche.

Psichico.

È naturalmente la gratificazione più ambita ed è suddivisa su due piani. Il primo interessa il livello di malessere interiore percepito: grazie all’endorfina, dalle note proprietà antidepressive, diminuisce significativamente fino ad arrivare a derive megalomaniche (es.: la famosa frase “mi sento vivo…”) compensatrici di pulsioni di morte. Il secondo è puramente intrapsichico. Si perde nei meandri delle sfaccettature del masochismo. Il comportamento “attuato” è una punizione auto – inflittasi tesa a depotenziare i sensi di colpi dati da pulsioni aggressive. Queste, altrimenti indirizzate verso oggetti non pensabili (e qui ritorna il sadismo), e perdendosi in un limbo tra il conscio e l’inconscio, manifestano tutta la responsabilità percepita della propria inadeguatezza. È un contenuto psichico difficilmente valutabile quello che c’è dietro a tali pratiche: l’unico dato certo senza un’analisi del particolare è il passaggio coatto all’atto, la presenza di un oggetto persecutorio interno che viene fantasmaticamente proiettato fuori su oggetti ad hoc.

Interessanti sono anche le consuetudini sessuali adottate da tali soggetti sicuramente fuori dalla normalità: oltre ad intervenire, in alcuni casi, sui genitali o altre zone erogene, danno un quadro chiaro della confusione identitaria e di conseguenza sessuale, o viceversa (auto – punizione: sento la presenza di Edipo Re, solita aggiungerei). L’altro viene percepito come oggetto disintegrando ogni possibile relazione degna di questo nome dando il via a sperimentazioni perverse: nella sessualità dovrebbe trovare l’acme relazionale ma invero nella realtà l’annientamento.

Si instaura un circolo vizioso: al dolore fisico si ha una gratificazione fisica più una sociale (es.: compensa il coraggio delle parti anatomiche scelte, li fa accettare dal gruppo) più due psichiche: una data dal diminuito senso di colpa percepito (di pratiche masochistiche si stà parlando) e una dalla diminuzione di percezione della depressione di fondo data dalle qualità chimiche della sostanza entrata in circolo massicciamente. E si continua nel dominio della coazione a ripetere, nella permanenza dello stato dell’essere.

 

Qualche riflessione.

Nelle conclusioni inizierei subito con il dire che non sono delle vere e proprie conclusioni… Sono piuttosto un quadro riassuntivo delle caratteristiche più rilevanti che con ragionevole fiducia si andranno ad incontrare nel trattamento di soggetti aventi comportamenti autolesionistici identitari ed annichilenti. Le conclusioni penso siano più adeguate ad un caso clinico.

Quindi troveremo probabilmente un soggetto disorientato nel suo equilibrio interno rispetto alla pulsione di morte e di vita: quali le derive eclatanti? Masochismo? Sadismo? Quale il persecutore interno? Quale maschera sostitutiva dell’identità? Frammentazione patologica o di passaggio? Possibilità di accedere ad un contenitore oltre quello analitico? Importantissima la, probabilmente, avviluppante relazione materna, valutare qualitativamente quanto super – egoica è quella paterna. Attenzione alla relazione terapeutica che vista le tendenze seduttive e manipolatorie di questi soggetti (a livello statisticamente significativo personalità orali) può ingannare anche nel controtransfert più controllato. Il narcisismo aleggerà come collante.

Naturalmente facendo questa breve panoramica dei punti chiave non avrò aggiunto niente di nuovo all’idea che vi sarete fatta autonomamente, ma ho corso il rischio di annoiarvi per dare più visibilità agli aspetti clinici magari un pò troppo diluiti nel testo. La finalità era fissare quelli che penso siano gli aspetti focali. Ripeto e mi rendo conto comunque che senza un caso specifico possano suonare un po’ sterili. Sperando di essere stato chiaro nel mio intento.

 

Lo scorpione.

P.s.: Mi piacerebbe in conclusione citare un comportamento che ci viene direttamente dal mondo animale e se volete potete divertivi a posizionarlo sul continuum precedentemente citato: lo scorpione se minacciato dalle fiamme e valutata l’assenza di via di fuga… si punge mortalmente.

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