Adolescenti, speranza e motore di un cambiamento possibile.
Di Anita Pirovano e Francesco Pellino, psicologi
Siamo nati per incominciare, diventiamo adolescenti per cambiare.Se provassimo a chiedere in giro di associare una manciata di parole alla fase dell'adolescenza, molto probabilmente raccoglieremmo lemmi incandescenti che alludono al concetto di cambiamento inteso come sfida, come passaggio, come trasformazione radicale. Ma anche, spesso, come nostalgia di ciò che è stato prima o come aperto rifiuto di ciò che arriva ora e fa paura.
Quella che un tempo sembrava una semplice transizione, la conosciamo bene: cambia il corpo, mutano i bisogni, i desideri si fanno voraci, la voce si rompe, le pulsioni si agitano. E con esse, cambiano le relazioni, le richieste che l'adolescente fa al mondo fuori e che vengono fatte all'adolescente dal mondo contemporaneo e da adulti che spesso faticano ad essere nel tempo presente, incastrati in una nostalgia di un tempo dove "si stava meglio". È un terremoto, un ineluttabile e necessario momento di rottura. C'è, per forza, un prima e un dopo. Quante volte sentiamo i genitori di ragazzi in questa fase del ciclo di vita sussurrare, quasi sgomenti: "Non lo riconosco più". E quante volte sentiamo i ragazzi e le ragazze risponderci con lo stesso tono sconsolato: "Non mi riconosco più". Come cantava Franco Battiato: "Le gioie, gli affanni, la solitudine che sempre lo accompagna". Questo è il sottofondo emotivo di una fase in cui ci si sente in perenne bilico.
La nostra società ha impiegato secoli per scoprire l'infanzia: abbiamo finalmente visto i bambini non come adulti in miniatura, ma come individui da rispettare. Solo negli ultimi anni, con la stessa fatica, abbiamo cominciato a vedere gli adolescenti. Ma è uno sguardo che fatica a mettere a fuoco per davvero, e che troppo spesso filtriamo attraverso le lenti ingiallite degli adolescenti che siamo stati noi. Non c'è nulla di più pericoloso che guardare i nostri adolescenti—che siano i nostri figli o gli studenti in una classe—con il filtro vintage delle nostre esperienze passate. Perché l'adolescenza non è solo la fase della rottura, ma del rimescolamento assoluto. È il momento in cui l'identità non si definisce, ma si scompone.
A questo proposito, lasciamo perdere la tanto suggestiva tecnica giapponese del Kintsugi. "Riparare con l'oro" è un procedimento che prova a rimettere insieme una stoviglia di porcellana pezzetto per pezzetto. È una metafora che dobbiamo umilmente dissacrare quando lavoriamo con gli adolescenti. L'adolescenza non può e non deve tendere a rimettere insieme qualcosa che si è spezzato per ricreare un equilibrio statico e uguale a se stesso. I pezzi non vanno riattaccati: vanno mescolati, frantumati in pezzetti ancora più piccoli e dispersi per dare vita a qualcosa di innovativo e di inedito. Non c'è un "prima" da replicare, c'è solo un futuro caotico e potente da generare.
La società e noi clinici non abbiamo il compito di agire da "restauratori", ma da accompagnatori capaci di vedere forme d'arte in gestazione. Dobbiamo disattivarci da quel filtro che ci porta a giudicare ogni loro scelta come un errore, o peggio, una minaccia.
Non guardiamo alla musica che ascoltano come rumore privo di melodia. Il loro hip-hop e la loro trap non sono solo musica, sono la colonna sonora del disagio sociale che gli adulti non riescono a narrare. Non guardiamo al loro modo di vivere la sessualità e le identità di genere come un'eccentrica moda passeggera. L'ampliamento del concetto di identità è una battaglia di libertà che le generazioni precedenti hanno solo sognato. Quando un fumetto come Heartstopper diventa un fenomeno globale è perché parla di accettazione, una richiesta che urla più forte di qualsiasi censura. Non vediamo il loro ribellarsi come semplice insubordinazione, ma come il primo, disperato tentativo di autonomia di pensiero. Non vediamo la loro fragilità come un sintomo da eradicare, ma come la preziosissima materia prima per la loro nuova costruzione. Il corpo incerto e la mente in tumulto dell'adolescente sono il vero motore del cambiamento. Se la cultura pop celebra questo tumulto, è perché sa quanto sia essenziale. Pensiamo a un verso di Marracash che fotografa la rottura generazionale: "Siamo figli del nostro tempo e anche di un tempo in prestito". C'è la consapevolezza di ereditare un mondo fragile, e la necessità di cambiarlo.
Questo caos è produttivo. Qualche tempo fa, in un lavoro con un gruppo di ragazzi dell'ultimo anno delle scuole medie di Milano, si voleva realizzare un murales che parlasse di loro alla città. Il lavoro ha prodotto un'opera di grande qualità artistica: un muro coloratissimo con animali esotici, piante rigogliose, un caos dinamico che non dava sensazione di disordine, e la scritta gigantesca: "ho la giungla nel cervello". Questa frase contiene tutta la verità: i ragazzi sono il presente e il futuro della società. Non c'è nessun piatto di porcellana da ricostruire uguale a se stesso, ma una giungla meravigliosa da far crescere. Forse è per questo che la loro giungla ci fa così paura. Ci ricorda che, come in quel magnifico film d'animazione, Inside Out, anche se il Quartier Generale del cervello viene messo sottosopra, se l'Isola della Famiglia crolla, se le Memorie Base vengono rimescolate, alla fine si può ricostruire una console di comando ancora più complessa e, in fondo, più vera. Se solo fossimo capaci di lasciarli distruggere per poi lasciarli ricreare.Vorremmo chiudere queste riflessioni con una frase dello psicologo Gustavo Pietropolli Charmet:
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