Autismo, psicosi ed handicap: analogie e differenze

Osservazioni a partire da una esperienza di cura presso la Fondazione Giovanni XXIII – Autismi e Terapie – Onlus di Valbrembo, Bergamo.


Autismo, psicosi ed handicap. E’ una triade concettuale che occorre imparare a maneggiare con la maggior competenza, i singoli concetti, e le relazioni fra di loro, non meno significative. Propongo di associare ad ogni termine della triade uno dei tre registri (simbolico, immaginario e reale) con i quali Lacan articola il discorso clinico, soprattutto a partire dalla fine degli anni sessanta fino alla sua morte, avvenuta nel 1981.

Come è noto, il significato di ogni singolo registro non ha valore in sé ma in relazione agli altri due registri, come è ben descritto nella struttura del nodo borromeo (Seminario XXIII: Joyce, il sintomo): pertanto, il reale è ciò che è posto al di là delle rete dei significanti del simbolico, il simbolico è la catena dei significanti che si approssima alla rappresentazione del reale senza però poterlo rappresentare interamente, l’immaginario  costituisce un sapere per così dire autonomo, autoreferenziale, una sorta di supplenza allo scarto tra il reale ed il simbolico…

Detto ciò, assegnerei il registro del reale al termine handicap, il registro del simbolico al termine psicosi ed infine il registro dell’immaginario al registro dell’autismo.

Reale, un handicap lo è quando questo si presenta come mancanza incolmabile nel paziente, limite invalicabile, compensabile ma non cancellabile.

Ci sono traguardi che un paziente non può raggiungere perché non fanno parte delle sue personali potenzialità.

Sappiamo però che certi “handicap” richiedono un forte contributo da parte del soggetto. Sappiamo, per esempio, che un soggetto psicotico - come Bion ben ha evidenziato - per non entrare in contatto con un pensiero intollerabile, letteralmente “amputa” la funzione del pensare senza la quale appare un soggetto affetto da quella che i francesi chiamano “debilità” il cui manifestarsi è del tutto simile agli effetti di un handicap ma la radice della quale non è la medesima.

Non è riabilitabile una funzione di pensiero così amputata, ma pensiamo possa riattivarsi all’interno della relazione transferale tra paziente e terapeuta, terapeuta e paziente – volutamente, non parlo di controtransfert… A pensarci bene, anche il concetto di controtransfert entra nel campo dell’handicap, nel senso che il terapeuta è teorizzato come uno privo di transfert, o il cui transfert è attivato dalla risposta al transfert del paziente. Sappiamo che non è così, ma che esiste una logica transferale che costituisce in campo del rapporto clinico.

Se pensiamo ai pazienti che frequentano la Fondazione, ci sono numerosi esempi di soggetti con un “handicap” ma il cui handicap non pare essere centrale nel costituirsi delle loro problematiche personali. Recentemente è giunto a noi un paziente di 37 anni, con sindrome di Down, i cui comportamenti stereotipati sono parzialmente ascrivibili alla sindrome di Down e che, secondo noi, sono significanti corporei e comportamentali che traducono una personalità di tipo psicotico. E’ un caso estremamente didattico su cui vale la pena riflettere, perché siamo di fronte ad un soggetto adulto con evidenti potenzialità ma che per anni, in assoluta buona fede, è stato imprigionato nella mente di chi si ne è fatto carico secondo la categoria della sindrome di Down.

E’ un caso in cui, padroneggiare i concetti di psicosi e costruire nell’operatore un setting mentale capace di accogliere tali concetti e con questi concetti gli aspetti psicotici della struttura di personalità di quest’uomo avrebbe probabilmente contribuito a costruire un terreno educativo di lavoro secondo obiettivi a lungo termine, non di immediata soddisfazione ma garanti di una migliore qualità di vita nel tempo.

Nessuno può mettere in discussione la presenza della sindrome di Down in questo soggetto, è inscritta in modo grossolano nel patrimonio genetico. Tuttavia, è evidente che identificare i suoi bisogni affettivi e cognitivi appiattendoli sulla manualistica riguardante il trattamento del soggetto affetto dalla sindrome di Down ha oscurato ben altri bisogni, di autonomia, identità, di separazione e individuazione, di consapevolezza che ora sono drammaticamente non soddisfatti.

Un altro soggetto affetto da Sindrome di Down è presente da diversi anni in Fondazione, ha venti anni in meno del primo. Non possiamo prevedere che ne sarà di lui all’età del primo. Certamente sappiamo su che cosa abbiamo lavorato in questi anni. Non sulla sindrome, handicap irreversibile, ma sulla struttura psicotica che lo porta a non pensare l’assenza, a costruire un pensiero rigido ed autonomie complete ma non del tutto consapevoli. Abbiamo cioè centrato l’attenzione sull’appartenenza della mente di questo ragazzo al registro del simbolico, ai suoi bisogni di elaborare un pensiero relazionale e non un pensiero basato sulla costruzione di strategie per appagare bisogni infantili.

Ora, vi invito a riflettere su un episodio al quale ha potuto assistere un nostro operatore e che ha avuto per protagonista un ragazzo di 14 anni affetto da Autismo. Ora, sull’autismo di questo ragazzo, credo non si possa dubitare. Presenta le caratteristiche proprie della triade indicata dal DSM-IV. Tuttavia, l’episodio a sfondo allucinatorio al quale l’operatore ha assistito e che ha ci raccontato, ci suggerisce che il confine tra autismo e psicosi è tutt’altro che netto.

E’ cosa nota che in Francia, dove la clinica neuropsichiatrica non ha buttato via la tradizione psicoanalitica, il dibattito sulla relazione tra autismo e psicosi è tuttora aperto, pur avendo integrato una diagnosi tipicamente anglosassone come quella del disturbo di Asperger.

Il problema non è il cambiamento nosografico, tipico della materia psichiatrica. Il punto è non abdicare rispetto alla capacità di costruirsi un pensiero critico.

Per questo ritengo che la parola autismo, la diagnosi di autismo, faccia parte del registro dell’immaginario, cioè di un pensiero che si riduce ad essere preconfezionato: si presenta saturo di sapere e di competenza, in realtà produce della pratiche standardizzate dentro le quali l’autismo di quella persona, e non di ogni persona, si perde.

Quando si dice che “1 bambino su 150 è a rischio di autismo”, io vi leggo che “1 bambino su 150 è attualmente a rischio di ricevere la diagnosi di autismo” – con tutto quel che ne consegue. Così come molti bambini sono oggi a rischio di ricevere la diagnosi di disturbo dell’apprendimento… Sembra cioè che la categoria umana del bambino sia a rischio di ricevere una qualche forma di diagnosi. E’ evidente che non c’è realtà in questo se non l’effetto di un immaginario, quello dell’adulto, che vede nel bambino un soggetto in costante pericolo, cioè l’oggetto della propria fobia. Un soggetto carico di minaccia, e come tale da controllare attraverso la certificazione di un disturbo.

La parola “disturbo” nella clinica del bambino ha assunto un valore preponderante su ogni altro. Ha preso posto della parola sintomo, parola che introduce un pensiero, nell’operatore, attento alla struttura del soggetto, quindi alla sua storia ed evoluzione. Il disturbo invece si installa e da li non lo sposta più nessuno. Tutt’al più si producono pratiche e strumenti tali per cui il disturbo non disturbi più, e non tanto il bambino, ma l’adulto.

Mi chiedo se non si possa parlare di “autisticizzazione” della categoria bambino. Con la diagnosi di schizofrenia infantile precoce, sarebbe stato più difficile. Avremmo dovuto dare del “matto” a tanti bambini, mentre oggi si nomina autistico un bambino con relativa facilità – soprattutto da quando l’autismo e assimilato ha un deficit, cioè un handicap, su base neurologica…

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