Gli sviluppi del concetto di ”autismo” introdotto da Kanner

Gli sviluppi del concetto di “autismo” introdotto da Kanner: precocità del disturbo e inaccessibilità del soggetto

 

Questione di diagnosi

 

Di Kanner è assai noto l’articolo pubblicato nel 1943 e intitolato: “Disturbo autistico del contatto affettivo”. Kanner porta all’osservazione della comunità scientifica e psichiatrica in particolar modo, 11 casi di bambini “[…] le cui condizioni differiscono così marcatamente e singolarmente da qualunque altro caso riscontrato finora, tanto da far meritare ad ognuno di questi - e, io spero vivamente che ciò accadrà – una dettagliata considerazione delle sue affascinanti peculiarità”.

Si può notare, a partire dai termini sottolineati, che lo sforzo di Kanner è teso verso l’individuazione di tratti specifici che permettono di distinguere questo gruppo di bambini da altri, in particolare bambini che a quell’epoca solitamente ricevevano la diagnosi di schizofrenia o di ritardo mentale o di entrambe.

Si tratta di uno sforzo, in sintesi, che mira a stabilire i criteri per giungere ad una efficace diagnosi differenziale. Pertanto, non può non colpire che nella lettura magistrale del 1965, Kanner desideri con forza lamentarsi del fatto che “[…] era diventata abitudine diluire il concetto di autismo diagnosticandolo in molte condizioni disparate che mostrano quello o quell’altro sintomo isolato preso come caratterizzante l’intera sindrome. Quasi all’improvviso, il Paese [ovvero, la Francia, in questo caso], sembrava essere popolato da una moltitudine di bambini autistici, e in qualche modo questa tendenza si rese evidente anche oltreoceano. […] Entro il 1953, van Krevelen giustamente divenne insofferente verso l’uso confuso e confusivo del termine autismo infantile come uno slogan applicato indiscriminatamente con un noncurante abbandono dei criteri delineati brevemente e senza possibilità di errore fin dall’inizio.”. E ancora più avanti “gli anni ’60 sono stati testimoni di un considerevole smaltimento della sbornia. La moda deplorata da van Krevelen fu gradualmente messa da parte.”.

Va fatto notare, che tra i criteri introdotti da Kanner, al di là di quelli poi assorbiti dalla nota triade peraltro confermata dagli studi di Uta Frith e che di fatto costituiscono l’ossatura attuale intorno alla quale si viene a costruire la diagnosi di autismo, è possibile riconoscerne uno sul quale occorre soffermarsi: il criterio dell’età di esordio della sindrome.

Kanner, nel suo lungo lavoro di ricerca ed osservazione, che negli anni successivi al 1943 va oltre gli 11 casi iniziali, mantenendo tuttavia intatta la necessità di differenziare la diagnosi, ha sempre mantenuto centrale l’osservazione che la definizione di autismo introdotta da Bleuler non è adatta ai bambini osservati in quanto “[…]. Prima di tutto, il termine ritiro implica una rimozione di se stessi da una partecipazione precedente. Questi bambini non hanno mai partecipato. Hanno cominciato la propria vita senza i segni universali di risposta infantile. Ciò è evidenziato nei primi mesi di vita dall’assenza della solitamente presente reazione anticipatoria quando stanno per essere presi in braccio, e dalla mancanza di adattamento posturale alla persona che li prende.”

Si possono fare due osservazioni. La prima riguarda il fatto che lo sviluppo della diagnosi di autismo è coincisa con l’entrata sulla scena psichiatrica del bambino. Prima di allora, la nosografia inerente la categoria della schizofrenia era stata sviluppata a partire dall’osservazione degli adulti e sulla testimonianza dei parenti relativamente alla storia del paziente (“Quando Kraepelin creò il concetto di dementia praecox, lo fece interamente sulla base del proprio lavoro con gli adulti. Non fece mai nessun riferimento alla sua comparsa nei bambini”).

Va da sé, che quando entra in scena il bambino, entra in scena la madre – come del resto Winnicott, per esempio, ha inteso sottolineare nelle sue opere e ribadire nella sua pratica istituzionale.

La seconda osservazione riguarda il fatto che stiamo assistendo ad una seconda sbornia intorno al concetto di autismo, ma questa, a differenza della prima, non sembra tanto dettata dalla diagnosi bensì dall’intervento che succede alla diagnosi, un intervento – quello psicoeducativo – che sembra ora precedere la diagnosi, cosa che evidentemente non può accadere caso per caso ma che pare voler accadere nell’insieme e quindi caso per caso.

L’emanazione delle recenti linee-guida su cui tanto si è discusso in questi mesi in Italia e non solo (Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti) sembra andare nella direzione di stabilire un unico panorama trattamentale, prevalentemente cognitivo-comportamentale, a partire dal presupposto che possono essere presi in considerazione soltanto quegli interventi che si prestano ad indagine quantitativa, in virtù del rispetto della scientificità. Se questo è il terreno sul quale il dibattito si è spostato, allora vale la pena provare a percorrerlo, anche attraverso l’opera di epistemologi il cui mestiere è proprio quello di stabilire quali sono i criteri che la scienza si da nel definirsi, in modo tale da non perdere per strada la ricchezza del dibattito che ha animato l’opera di Kanner stesso, e per restituire dignità e centralità al processo diagnostico e non sacrificarlo alla quantificazione degli interventi.

Del resto, se leggiamo la premessa contenuta nel’Introduzione alle Linee Guida presentate per la prima volta in Italia il 25 ottobre del 2011, vediamo che c’è parecchia confusione concettuale intorno alla parola autismo – quella confusione contro la quale lo stesso Kanner si era scagliato dopo il 1951. A pag. 11, leggiamo che “[…], a oltre 60 anni dalla sua individuazione da parte di Leo Kanner (1943), persistono ancora notevoli incertezze in termini di eziologia, di elementi caratterizzanti il quadro clinico, di confini nosografici con sindromi simili, di diagnosi, presa in carico e di evoluzione a lungo termine.”  Tuttavia, a pag. 12, nel paragrafo dedicato alla Definizione e caratteristiche del disturbo si enuncia senza dubbio alcuno che “L’autismo è una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo, biologicamente determinato, con esordio nei primi 3 anni di vita.” – dopodiché si passa a descrivere le aree che compongono la triade da tutti riconosciuta e le relative alterazioni: comunicazione sociale, interazione sociale reciproca, gioco funzionale e simbolico.

Non può che destare perplessità il radicale cambiamento di registro e di contenuto tra la prima e la seconda affermazione: si passa da una dichiarazione di incertezza ad una dichiarazione perentoria, che non ammette ambiguità su cosa sia l’autismo, su quale terreno si debba cercare la causa o le cause, l’età di esordio, le aree colpite. Un quadro nosografico di provata solidità.

Analogamente, a pag.14 incontriamo un’altra affermazione alquanto netta: “[…] In base alle attuali conoscenze, l’autismo è una patologia psichiatrica con un elevato tasso di ereditabilità e con una significativa concordanza nei gemelli monozigoti: il rischio di avere un altro bambino con autismo è 20 volte più elevato rispetto alla popolazione generale se si è avuto un figlio affetto.” La seconda affermazione, di ordine statistico, non può essere contraddetta, mentre è noto che allo stato attuale la comunità psichiatrica fatica ad accogliere le persone affette da autismo dopo che hanno compiuto i 18 anni ed escono dalla responsabilità della neuropsichiatria infantile, non soltanto per mancanza di servizi appropriati ma anche per un mancato riconoscimento dell’autismo come malattia psichiatrica paragonabile, per esempio, alla schizofrenia. Sempre a pagina 14, a conclusione del medesimo paragrafo, troviamo che “[…] I dati finora prodotti dalla ricerca hanno evidenziato una forte eterogeneità e complessità nella eziologia genetica e anche l’identificazione di pathways cellulari o molecolari, possibile grazie alle nuove tecnologia, consente di avanzare solo ipotesi sull’origine del disturbo e nell’insieme non fornisce al momento elementi di certezza sulle cause, che restano sconosciute.”.

Nuovamente, ad una affermazione che sembra non lasciare dubbi, fa seguito una dichiarazione di incertezza in particolare per quanto riguarda le cause che producono l’autismo. Occorre chiedersi il peso che occupa la conoscenza della causa o delle cause nella costruzione di una ipotesi diagnostica in particolare se si tratta di una “patologia psichiatrica”.

La dialettica tra ciò che è certo e ciò che è incerto, trova infine una pacificazione nelle considerazioni finali secondo le quali: “Considerata la complessità e la gravità dei disturbi dello spettro autistico – può una patologia psichiatrica presentarsi in forma di spettro? Esistono altri esempi simili in psichiatria? Eppure Kanner si è molto sforzato di produrre i criteri utili per sviluppare una diagnosi differenziale… - che coinvolgono proprio le componenti psichiche che guidano lo sviluppo della dimensione relazionale e sociale così caratteristica della specie umana, è necessario che la gestione della patologia tenga conto dei vari elementi che concorrono alla complessità del quadro clinico: è auspicabile quindi che interventi specifici, competenze cliniche e interventi abilitativi e di supporto per il paziente e per la sua famiglia siano costruiti su buone prassi, in linea con i principi della prova scientifica.”

Non si può che essere d’accordo, ma questa dichiarazione ci pare sia spendibile un po’ per tutte le “patologie psichiatriche”: perché così tanta attenzione per l’autismo, se è vero che la prevalenza per quanto lo riguarda, pur maggiore che in passato è di 40-50 casi su 10.000 (pag. 13) e considerando tutte le “forme” di autismo – ovvero di 4 casi su 1000 bambini? E come mai, da un certo punto in poi, si passa dalla necessità di individuare rigorosamente l’autismo in quel bambino allo “spettro”, termine all’interno del quale vengono sommate tutte le forme di autismo? E cosa vuole dire “forma” di autismo? E’ un termine contemplato dal linguaggio della diagnosi? La diagnosi è un processo di conoscenza che si sforza di descrivere una quadro patologico ben delineato: è qualcosa, ma non qualcosa d’altro. Si può parlare di gravità, di gravosità, si può descrivere in modo accurato come l’autismo incida sulla qualità di vita del bambino e della sua famiglia, ma queste sono osservazioni quantitative. La diagnosi porta alla distinzione tra una struttura e un’altra.

“Forma” non è un concetto medico, o psichiatrico. Non si può usarlo. Noi qui di fatto non lo usiamo. Ci atteniamo alle classificazioni internazionali regolarmente riconosciute, da una parte, e dai dati che giornalmente otteniamo dall’osservazione e dai colloqui con i genitori, ossia diventiamo via via sempre un poco più esperti del rapporto tra il soggetto e la sua malattia, che non può essere una forma bensì una struttura che il processo diagnostico coglie.

Che cosa ci si gioca intorno alla differenza di diagnosi di schizofrenia e di autismo? Probabilmente, ci si gioca la necessità di stabilire quale rapporto c’è tra normalità da una parte e patologia dall’altro. Del resto, la sbornia alla quale fa riferimento Kanner negli anni Sessanta, nella nostra epoca ha preso le sembianze di una “normalizzazione” dell’autismo, o di una autisticizzazione del bambino.

Bambino e autismo – come peraltro recita il nome della Fondazione che opera da anni a Pordenone e che ha adottato il metodo TEACCH – sembrano due termini sempre più vicini… E’ normale essere autistico quasi quanto è normale nascere bambino. Kanner ci dice che non è normale che un bambino sin da subito mostri non saper accedere al mondo della relazione. Questo è autismo.

E’ interessante riporta come nel numero di Maggio della rivista “Autismo e disturbi dello sviluppo” diretta da Zappella, nell’articolo “Riflessioni e commenti di un clinico sulle Linee Guida”, Paola Visconti - Neuropsichiatra Infantile – in riferimento all’uscita prossima del DSM-V scriva: “[…] Il nuovo manuale che probabilmente uscirà nel 2013, delinea il passaggio dalla prospettiva categoriale a una prospettiva dimensionale, ambito che verosimilmente più si accorda alla varietà clinica e tiene in dovuta considerazione anche quadri più sfumati o di riscontro molto precoce, ad esempio nei bambini prima del 24 mesi. Tuttavia questa prospettiva d’inclusione ampia, e pertanto verosimilmente a maggiore sensibilità diagnostica, non ha lo stesso correlato in termini di specificità e ha una ricaduta anche sul versante della responsività al trattamento. Riportare miglioramenti di gruppi di bambini diagnosticati globalmente come appartenenti allo Spettro Autistico ingenera alcune perplessità sulla caratterizzazione semeiologica dei bambini appartenenti a quella determinata casistica. In sostanza, di quali bambini stiamo parlando?

E’ la domanda che si pose Kanner 70 anni fa, domanda alla quale diede risposta non espandendo illimitatamente i confini delle diagnosi correnti, bensì operando una scelta opposta: sviluppando i criteri di una sempre più definita diagnosi differenziale, ritagliando delle specificità che hanno permesso di distinguere i primi 11 casi di autismo infantile. Da un certo punto in poi, la comunità clinica, o quantomeno una parte particolarmente influente di questa, ha invece abbandonato lo sforzo di Kanner – forse proprio perché uno sforzo… – e ha intrapreso una via “facile” che ha portato alla definizione di Spettro Autistico dentro il quale si trova oramai di tutto, certamente di troppo.

Sarebbe oppotuno sviluppare una ricerca statistica comparata tra i servizi di Neuropsichiatria, correlando numero di bambini le cui famiglia rivolgono una domanda di presa in carico, numero di bambini effettivamente in carico, e distribuzione delle diagnosi…

Dove sono finite le diagnosi di psicosi nel bambino, o di nevrosi? Trattandosi di struttura psichiche, non si cancellano semplicemente perché la commissione che compila il DSM ritiene opportuno non inserirle.. Così come la depressione nel bambino, non in quanto tratto secondario, reattivo bensì come incidente strutturale, che provoca nel bambino non una regressione e perdita di capacità acquisite bensì un vero e proprio disinvestimento da sé e dal mondo?

Nell’esperienza della nostra istituzione privata, siamo stati chiamati numerose volte da famiglie i cui bambini avevano ricevuto la diagnosi di Spettro Autistico ma la cui storia evolutiva si era caratterizza ad un certo punto non da una perdita di capacità acquisite, in particolare il linguaggio, ma da un vero e proprio ripiegamento depressivo, di cui il corpo portava traccia con posture e ed espressioni del viso che comunicavano una profonda tristezza. Questi bambini erano dotati di un ottimo linguaggio, adeguato all’età ed erano tutt’altro che isolati dalla relazione, semmai affamati di quel contatto affettivo che avevano perduto, lasciando i genitori sgomenti e preoccupati. Genitori certamente non “frigorifero” ma indubbiamente molto fragili, con a loro volta aspetti depressivi evidenti oppure mascherati ma non per questi inesistenti.

O ancora, bambini non depressi ma il cui linguaggio verbale, bizzarro, esprimeva un certo feeling con la follia, parola questa forclusa dalla comunità clinica, orami incitabile – soprattutto se abbinata all’osservazione dei bambini...

Certamente sono arrivati anche bambini con autismo, simili a quelli descritti da Kanner, inaccessibili alla relazione, orfani dei prerequisiti utili a stabilire il contatto affettivo.. Ma alcuni, fra i bambini osservati, non certo la maggioranza.

 

L’autismo nella pratica quotidiana

 

E’ alquanto paradossale che una patologia come l’autismo, così nettamente individuata come la patologia dell’isolamento, dell’inaccessibilità del soggetto, sia invece così “portatrice” di voci altre – in primo luogo quelle dei genitori. Una patologia “muta”, ma che fa parlare. Forse perché a partire da Kanner al di là della patologia in sé, è mutato lo scenario clinico: il soggetto non è soltanto o solo il paziente, ma la relazione tra questo e il contesto familiare, soprattutto se il paziente è un soggetto che per definizione, come il bambino, è in una posizione di dipendenza dal caregiver. Winnicott, oltre che un formidabile psicoanalista, era un pediatra e quindi la sua prassi era fondata sull’incontro con la coppia madre-bambino. Analogamente, in Francia la Dolto - pediatra e psicoanalista a sua volta – era solita vedere bambini anche molto piccoli, di poche settimane, con le loro madri o con chi se ne occupava, se bambini istituzionalizzati.

Un quadro culturale che cambia, non cambia necessariamente in meglio o in peggio. Cambia, ma la direzione che prende resta incerta. Ne possiamo registrare i mutamenti, definendoli ma gli effetti sono di secondo livello, più complessi proprio in quanto modificabili o in una direzione o in un’altra ancora, magari non del tutto prevedibile.

Ad un primo ingenuo sguardo è lecito pensare che l’entrata in scena del genitore, soprattutto quando si affronta una patologia così pervasiva come l’autismo, e così dolorosa in quanto colpisce bambini in piccola o piccolissima età, costituisca un salto in avanti, culturale e di civiltà, rispetto a quando un bambino con funzionamento psichico e comportamentale anomalo, veniva di fatto recluso in qualche istituzione.

L’entrata in scena della relazione bambino-genitore è in primo luogo un evento, in secondo luogo potenzialmente uno strumento che può facilitare o meno l’intervento, a seconda di come l’evento viene pensato e quindi trattato. Per sommi capi, nel campo della cura dell’autismo, esistono due scuole di pensiero completamente distinte: la tradizione psicoanalitica, a eccezione di pochi casi, predilige il lavoro con il bambino nella stanza, senza contatto alcuno con i genitori, ai quali il bambino viene restituito dopo l’intervento; la tradizione psicoeducativa inaugurata da Lovaas e successivamente sviluppata da Schopler e Mesibov (quest’ultimo recentemente ascoltato in un convegno a Pavia promosso dall’università e da Cascina Rossago) a partire dagli anni Settanta in North Carolina, prevedono invece che i genitori venga attrezzato ad affrontare attivamente i comportamenti-problema del bambino nel contesto domiciliare ed extradomiciliare, assumendo il ruolo di co-operatore.

Nel mezzo, le inevitabili sfumature, ma in sostanza i due estremi della presa in carico dello scenario sopra descritto appaiono essere questi.

Lo scenario, tuttavia, è il medesimo e di pratica in pratica, di caso in caso, di tecnica in tecnica si pone per l’operatore la questione dell’utilizzo o meno dello scenario bambino-genitore.

Quindi, l’incontro con l’autismo è sempre l’incontro con un contesto familiare di relazioni che fanno da sfondo al bambino con autismo, un contesto che si muove con il bambino e per l’operatore si pone sempre la questione di cosa farsene di questo contesto familiare in movimento insieme al bambino. Prima del lavoro di Kanner, si trattava di una questione nel complesso marginale (eccezion fatta per il celebre caso del piccolo Hans…) e la fragilità psichica del bambino, la sua malattia mentale, scavava già un solco irreparabile e insormontabile tra il bambino e la famiglia di appartenenza e la collocazione del minore in un luogo di cura e di trattamento era una soluzione socialmente attesa.

Con l’avvento delle tecniche psicoeducative ci si pone il problema di continuare nel contesto domiciliare di appartenenza del paziente con autismo, attraverso il coinvolgimento e la partecipazione attiva dei genitori, l’utilizzo delle strategie educative individuate. Dalle sedi “competenti” (vedi testi di Schopler), si diramano a raggiera collegamenti che trasferiscono le tecniche comportamentali in contesti di tipo “naturale”: casa, scuola, territorio. L’operatore si preoccupa molto del funzionamento selettivo del bambino, della rete sociale in cui è inserito, dell’ambiente che lo sostiene.

All’autismo del bambino corrisponde una impalcatura di trattamento spiccatamente sociale, basata sul confronto e la condivisione, sulla globalità e coerenza del progetto educativo e di chi lo realizza.

Mi piace sottolineare che il bambino con autismo “sa” far parlare molto di sé, e “sa” far parlare molto coloro che a vario titolo se ne occupano, forse con il rischio che il bambino venga privato di un reale interlocutore. La rete dei servizi, pur efficaci, può saturare il bisogno di relazione di cui il bambino, con il suo “autismo”, con il suo essere “bambino”, è portatore e che talvolta si traduce con modalità bizzarre e paradossali. Bisogno di empatia, di scambio, di contenimento e di preziosa intimità, “cose relazionali” di cui il bambino, anche il bambino con autismo, lui forse più di ogni altro, ha fame: di uno sguardo proprio per lui, per lui e per nessun altro, rivolto a lui e non al suo autismo, uno sguardo che sappia superare la barriera dell’isolamento, senza infrangerlo, rispettandolo si ma senza colludervi.

Se infatti Kanner nel 1943 aveva opportunamente osservato e distinto un numero ristretto di bambini con caratteristiche autistiche, non può non sorprendere l’incredibile incremento della diffusione della diagnosi (sottolineo, della diagnosi e non dei bambini…) di autismo negli ultimi venti anni circa.

Non è raro trovare pubblicazioni, anche serie e quotate, in cui compare la cifra di 1 su 150… Una cifra davvero spaventosa, soprattutto se comparata con la cifra di “partenza”: 1 su 10000, e che dovrebbe allarmare proprio per la gravità della patologia di cui si tratta, al punto tale che la comunità medica e scientifica americana ha cominciato a introdurre il termine di “epidemia”. Termine che, a ben vedere, è in netta contraddizione con l’ipotesi che l’autismo sia un disturbo di origine neurologica e su base genetica. E’ possibile pensare ad una epidemia di natura genetica? Direi proprio di no. La parola epidemia richiama uno scenario con ben altre caratteristiche, apocalittico, collegato al proliferare di qualche non meglio definito batterio o virus di fronte al quale il sistema sanitario e le conoscenze scientifiche possono poco o nulla, virus o batterio che colpisce solo chi è bambino – non si hanno notizie di adulti diventati autistici, anche se le auto-diagnosi di Asperger sembrano tendere a colmare questo “impossibile”…

Non c’è dubbio che l’aumento della diffusione della diagnosi di autismo sia parzialmente spiegabile con una maggiore sensibilità culturale e attenzione medica ma non certo in misura tale da poter ragionevolmente spiegare un balzo in avanti così netto, da 1 su 10000 a 1 su 150 – talvolta 1 su 104, 110… E neppure ritengo si possa ritrovare una soddisfacente spiegazione a partire dalla definizione ampia di “Disturbo dello Spettro Autistico”, che fa pensare ad uno scenario troppo esteso e tutto sommato indifferenziato, mentre sia Kanner negli Stati Uniti che Asperger in Europa, si sono preoccupati di sviluppare precise osservazioni volte a ottenere una buona diagnosi differenziale rispetto alla schizofrenia e al ritardo mentale.

Proporrei di riflettere sul pericoloso avvicinamento delle due sponde concettuali “bambino” e “autismo”. Naturalmente non è da intendersi nel senso di un processo culturale di “autisticizzazione” del bambino in quanto tale, o del bambino con fragilità o del bambino inviato ai servizi – o in quanto segnalato dalla scuola, o meno frequentemente dai genitori stessi – tuttavia sembra essere in atto una qualche forma di nominazione del disagio infantile precoce che assume il termine di “autismo”.

Disagio che, proprio in quanto precoce, può assumere forme comportamentali eclatanti, seppur reversibili.

Quel che colpisce è il fatto che la diagnosi di autismo, fatta verso un soggetto in età evolutiva, non sia essa stessa una diagnosi in evoluzione. La nota affermazione secondo la quale “dall’autismo non si guarisce” sembra essere assimilabile all’affermazione che “non vi è evoluzione nel bambino con autismo” ma soltanto il ripetersi di comportamenti e sintomi correggibili attraverso una accurata e intensa attività educativa ben pianificata e centrata su obbiettivi specifici che, se raggiunti, portano ad un adulto autistico ma con una qualità di vita il più possibile simile al modello della “normalità”, o per meglio dire della “normalizzazione”.

In questo modo, però, si contraddice il concetto stesso di diagnosi secondo il quale la diagnosi non è un esito ma un processo di conoscenza che porta a definire , non per sempre e non una volta per tutte, le caratteristiche del soggetto, alcune della quali certamente non modificabili.

Come si può pensare che una diagnosi, anche nefasta, ma che riguarda un soggetto in età evolutiva, quale è il bambino, non sia una diagnosi essa stessa in “età evolutiva”? Al contrario, le maggiori pubblicazioni specialistiche sembrano identificare bambino e autismo, rappresentandoli come una unità indissolubile, priva di sfumature, di zone d’ombra, di scarti.

E’ vero che si parla frequentemente di “piani educativi personalizzati” ma si tratta comunque della sommatoria delle stesse categorie di intervento, riarrangiate ora in un modo ora nell’altro, senza però che ci sia una effettiva differenza tra gli “addendi” che nell’insieme portano sempre al medesimo risultato, espressione di un rigido paradigma che sembra aver rinunciato a confrontarsi con la specifica soggettività del bambino, e del suo autismo quotidiano.

Fortunatamente, la realtà è anche altra e l’autismo quotidiano è ricco dell’unicità di quel bambino, di quell’adolescente, di quell’adulto e dell’incontro fra questi e l’operatore in quel momento specifico e irripetibile. Unico, ogni volta, l’incontro – anche quando si rinnova di volt in volta.

Per questo che, alla fine, si torna al ruolo centrale della relazione: relazione ferita nel bambino, riparabile nel corso dello sviluppo. Per questo, l’impianto teorico e pratico della tradizione clinica che si rifà all’invenzione dell’incontro sotto transfert conserva elementi preziosi che vanno valorizzati.

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