L'intervento “notturno“ per pazienti con autismo: emergenza, resistenza, consapevolezza, richiesta di aiuto, offerta di aiuto

In questi anni diverse famiglie, sia di pazienti in carico al servizio che dirigo, sia di pazienti che usufruiscono di altri servizi, hanno sollecitato ripetutamente l'attivazione presso di noi dell'intervento notturno, come prolungumento delle esperienze diurne che si svolgono nei vari centri (CDD-CSE). A ciò va aggiunto che, sempre in questi anni, la nostra èquipe ha ritenuto necessario in alcune situazioni richiedere la collaborazione dei familiari per poter realizzare i pernottamenti per alcuni pazienti, secondo gli obbiettivi individuati nel progetto educativo e terapeutico annualmente revisionato.

Tutto questo sollecita una riflessioni in merito alle varie modalità di "accesso" all'esperienza del distacco dall nucleo familiare della persona con autismo.

Una prima modalità è dettata dall'emergenza, ovvero i familiari si trovano per cause legare al cattivo stato di salute di un componente - non necessariamente uno dei due genitori - a chiedere che il prorpio figlio o figlia permanga per un periodo non predeterminato presso la struttura notturna (CSS). Accanto alla possibilità di accogliere questa domanda, ci si intteroga non tanto su come gestire l'emergenza, ma come fare in modo che rappresenti comunque una esperienza di crescita facendo rientrare l'emergenza nei canoni della "fisiologicità" del distacco, come evento doloroso ma in un certo sendo naturale, pensabile e prevedibile. La possibiità di "prevedere" l'emergenza può costituire un terreno significativo per lavorare sulla tendenza della persona con autismo a rimuovere dalla sua mente la realtà così come si presenta, sia che il paziente sia verbale che "non verbale".

Una seconda modalità è dettata dal confronto, anche duro, con le resistenze del familiare a collaborare, anche quando sono evidenti gli effetti benefici sul paziente dell'esperienza del "distacco". Ancor più critica la situazione appare quando il genitore inconsapevolmente ma non per questo meno direttamente, trasmette al figlio vissuti ambivalenti rispetto alla permanenza notturna, oppure proietta su questa, anche su particolari fisici dell'ambiente, timori propri, non riuscendo a contenerli, auementando se possibile la dose di inquietudine e di insicurezza che già il figlio o la figlia vivono personalmente. Quindi, c'è il genitore che "non ne vuole sapere" di staccarsi dal figlio, pur lamentandosi del comportamento a casa, e c'è il genitore che ti "affida" il figlio ma, eviedentemente, senza la necessaria pur minima serenità. E il figlio spesso ne risente in quanto si troverà a dover metabolizzare oltre alle proprie ansie anche quelle del genitore.

Una terza modalità, più rara, è quella in cui il genitore -  talvolta entrambi - sia consapevole della necessità di "allenarsi" reciprocamente al distacco fisico, a supporto dell'elaborazioned del distacco psichico, accentuato dall'ottica del "Dopo di noi", e pertanto è il genitore stesso a chiedere collaborazione in tal senso. Questo genere di richiesta ha effetti più vari, in quanto funge da grande contenitore dentro il quale collocare e organizzare l'eventuale emergenza, sempre possibile. Il fatto che ci sia consapevolezza non è garanzia che la reciproca collaborazione possa diventare una alleanza stabilmente strutturata in quanto entrano in gioco, in momenti diversi, elementi affettivi inconsci che condizionano la direzione della collaborazione a volte in modo imprevedibile.

Una quarta modalità di accesso allo spazio notturno è rappresentata da una vera e propria richiesta di aiuto, formulata dal genitore, dettata dalla presa d'atto delle fatiche che si sono accumulate nel tempo e di fronte alle quali anche il genitore più paziente ed amorevole deve poter dichiarare una qualche forma di resa. Vero è che non sempre alla dichiarata richiesta di aiuto seguen l'effettivo avvio di unn percorso do sollievo. A volte al genitore sembra sufficiente poter dichiarare la propria fatica, condividerla con l'operatore, perchè la percezione della fatica si riduca. Tuttavia, la percezione non attesta la realtà delle scorie emotive che condizionano la vita psichica, pertanto occorre venire incontro al genitore e proporre sollievo, come modalità fisiologica di ricostruzione della relazione con i figli.

Infine, l'aiuto può essere offerto, laddove la relazione con la famiglia ha raggiunto un livello di alleanza e comprensione tale che l'operatore in prima persona piò indicare alla famiglia la necessità periodica oppure improvvisa di "tenere fuori il figlio a dormire", in questo caso prolungando attivamente la permanenza diurna, soprattutto quando il figlio utilizza il rientro a casa come occasione per poter ripristinare in modo onnipotente comportamenti regressivi assolutamente anacronistici rispetto ai progressi oggettivamente conseguiti.

E' evidente, per concludere, che lo strumento dell'intervento notturno è plurimo come plurimi sono i bisogni che caratterizzano la persona fragile ed il suo contesto familiare. Volutamente ho omesso il tema della residenzialità permanente per due motivi: il primo di ordine pratico, in quanto non siamo dotati di una struttura tale. La nostra realtà, pur trattando del tema del "Dopo di noi", non ha e non intende avere una vocazione residenziale, in quanto ritengo -  e questo è il secondo motivo - che il margine di lavoro educativo e terapeutico con la persona affetta da profonda fragilità psichica debba essere sempre esplorato, tenuto in vita, sollecitato. Del resto, ci sono aspetti della vita di tutti che possono essere previsiti ma che solo a tempo debito possono essere realmente affontati.

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