Depressione Post Partum

Ogni madre conosce bene l’esperienza della depressione dopo il parto. Paradossalmente, dopo un periodo piuttosto lungo di attesa, anziché sentirsi particolarmente felice per la nascita del proprio bambino, ella si scopre improvvisamente triste, con una gran voglia di piangere.

La tristezza, secondo Bowlby, è una reazione sana e normale a qualsiasi guaio o sfortuna. Gran parte dei più intensi episodi di tristezza sono suscitati dalla perdita, o dalla previsione della perdita, o di una persona amata o di luoghi e ruoli sociali amati e familiari. Una persona triste sa chi (o cosa) ha perso, e brama di recuperarlo.

Secondo l’idea esposta da Bolby, la depressione, come stato d’animo sperimentato in determinate occasioni pressoché da chiunque, è un inevitabile accompagnamento di qualsiasi condizione in cui l’organizzazione del comportamento diminuisce, com’è probabile che accada dopo una perdita: “fintantochè sussiste uno scambio attivo tra noi stessi e il mondo esterno, consista esso in pensieri o in azioni, la nostra esperienza soggettiva non è di depressione: si possono sperimentare paura, speranza, rabbia, soddisfazione, frustrazione, o qualsiasi loro combinazione. E’ quando lo scambio è cessato che fa la sua comparsa la depressione (la quale persiste) fino al momento in cui si sono organizzati nuovi modelli di scambio diretti a un nuovo oggetto o fine …”

Questa disorganizzazione e lo stato d’animo depresso che l’accompagna, anche se può essere penoso e forse sconcertante, è nondimeno potenzialmente adattivo. Infatti, finchè non sono stati smantellati i modelli di comportamento che non sono più possibili, non ci si può accingere a costruire nuovi modelli, organizzati in vista di nuove interazioni. E’ tipico delle persone mentalmente sane il fatto di poter sopportare questa fase di disorganizzazione e di depressione emergendone dopo un tempo non troppo lungo, allorchè il pensiero e il sentimento cominciano ad essere riorganizzati, pronti per interazioni di un nuovo tipo.

Infatti alcuni giorni dopo il parto la madre riconosce i “sintomi” dello svuotamento psichico in quegli stati d’animo che sono la stanchezza fisica, la sensazione d’incapacità ad accudire il bambino appena nato, la malinconia, le crisi di pianto apparentemente senza motivo, il non accettare i cambiamenti inevitabili del corpo, il sentirsi brutte, grasse e non attraenti sessualmente agli occhi del proprio partner.

La depressione post-partum è fisiologica se viene considerata come un periodo di adattamento alla nuova realtà che si è venuta a creare. In questo senso si tratta di un momento ricco di emozioni, di felicità, ma anche di paura, di tensione fisica e psichica.

In questo contesto di intense e complesse emozioni, si privilegerà l’ottica psicoanalitica, mettendo a confronto alcune ipotesi: il concetto di maternità come crisi, come momento in cui gli eventi della gravidanza e del puerperio sono veri e propri cambiamenti, e la depressione post-partum vissuta come perdita dell’imago inconscia, nel caso del parto infatti ciò che scompare è il fantasma di figlio, la precognizione dell’effettivo oggetto materno.


Crisi, cambiamento, identità


Abbiamo visto che la gravidanza e la maternità impongono cambiamenti non solo nel mondo esterno, ma anche e soprattutto nel mondo interno della donna: in questo senso il travaglio oltre che fisico è anche psicologico.

La gravidanza è un momento di crisi, di confusione e di profonda trasformazione: la riorganizzazione degli spazi interni riflette un analogo processo di riassestamento del sentimento d’identità che, dopo una fase di confusione, può trovare un suo nuovo equilibrio. La crisi della maternità implica un vasto processo di riorganizzazione della personalità e così come può condurre all’assunzione di una corretta funzione materna, può d’altra parte essere il momento in cui si verifica un grave scompenso nevrotico o psicotico.

Secondo N. Lalli, nello sviluppo di un individuo si incontrano dei punti chiave che possono essere considerati come veri e propri momenti di crisi fisiologica. Ognuno di questi momenti presenta tre diversi aspetti: una scelta, una separazione, una elaborazione dell’avvenimento così da comportare un nuovo livello di assestamento.

Il momento della separazione da qualche cosa (perdita) e quello della successiva elaborazione richiamano da vicino il concetto di lutto e in particolare le pagine di L. e R. Grinberg sul lutto per l’oggetto e il lutto per il Sé che sono parte integrante dell’elaborazione di ogni cambiamento.

Nel concetto di cambiamento è implicita la perdita irrimediabile di una parte del Sé di modo che cambiamento e lutto appaiono strettamente interdipendenti. In proposito Anna Freud scrive che : “ Un cambiamento in una parte qualunque della vita psichica, sconvolge l’equilibrio raggiunto in precedenza.”

Pertanto gli equilibri e i compromessi su cui si basava l’organizzazione della personalità prima del cambiamento vengono sconvolti dal cambiamento stesso e dalla crisi ad esso connessa.


Il duplice compito materno


La crisi d’identità che si impone alla donne lungo il cammino verso la maternità rappresenta, come ha scritto Bibring una sorta di test di salute psicologica.

Il cammino verso la maternità è irto di asperità e difficoltà tali da configurarsi come uno dei punti modali nella vita di una donna.

Per Helene Deutsch: “ I due massimi compiti della donna, in quanto madre, consistono nel raggiungere armonicamente la sua unità col figlio prima, e nello sciogliere altrettanto armonicamente quest’unità più tardi”.

In altre parole il compito di una “buona” madre è quello di saper costituire col neonato un’unità, con delle caratteristiche particolari, tali da conferire ad essa l’aspetto di una vera e propria simbiosi. Una simbiosi destinata a risolversi nel progressivo smantellamento di quelle strutture che si erano edificate fino a quel momento per il bene della coppia madre-bambino.

La separazione biologica, sancita dal parto, lascia uno spazio vuoto nel campo dell’esperienza della donna che si trova così di fronte all’ampio varco che separa la gravidanza dalla maternità.

Mentre durante la gravidanza la madre aveva a che fare con un contenuto dai caratteri indistinti e dai confini incerti, dopo il parto, ha di fronte a sé ciò che fino a quel momento aveva contenuto.

Il post-partum rappresenta in questo senso il vero e proprio periodo critico nel passaggio dalla gravidanza alla maternalità.

Gli studi di diversi autori sul concetto di crisi permettono di considerare questo periodo come la chiave di volta, il punto di non ritorno verso quella che Recamier ha definito “maternalità”, cioè “l’insieme dei processi psicoaffetttivi che si sviluppano e si integrano nella donna fin dal momento della maternità”.

All’interno del rapporto madre-bambino si verifica, in rapporto alla percezione materna, uno scarto tra corpo immaginato e bambino reale. Uno degli esempi più “concreti” di disillusione del post-partum è rappresentato dalla mancata soddisfazione delle aspettative materne circa il sesso del nascituro.

Con il termine disillusione non ci si riferisce solo a fantasie così concretamente legate alla gravidanza, come quella precedentemente illustrata, ma comprende anche la totalità delle fantasie connesse agli eventi della gravidanza, del parto e della maternità che la donna è venuta elaborando fin dal quando era bambina.

La separazione biologica del parto trova il suo corrispettivo sul terreno psicologico nella fine delle fantasie materne riguardo al feto e soprattutto nella disillusione derivante dell’inevitabile scarto che si interpone tra il bambino immaginato e neonato reale. Questo divario costituisce quello che si potrebbe chiamare il salto dalla gravidanza alla maternità: colmare questo spazio costituisce gran parte del lavoro della maternità.

La madre deve essere in grado di saper tollerare lo spazio vuoto che vuol dire porsi sulla strada per colmarlo di reciproche soddisfazioni. Tutto questo è possibile solo grazie ad una regressione in qualche modo pilotata dal neonato, verso uno stato in cui madre e neonato si avviluppano così da formare una simbiosi.


La regressione


Nel tragitto che conduce dalla gravidanza alla maternità si evincono i momenti e gli eventi di maggior rilievo che si possono riassumere schematicamente nei punti seguenti:

  • il parto come perdita: il parto rappresenta per la donna la perdita di una parte del suo corpo con cui ella si era totalmente identificata.
    Inoltre il parto viene vissuto come una lacerazione o una brusca intrusione del reale all’interno dell’unità biologica che si era creata durante la gravidanza.
  • disillusione: il corrispettivo della separazione biologica è costituito, sul piano psicologico, da un sentimento di disillusione derivante dalla percezione di uno scarto inevitabile tra il bambino immaginato e neonato reale. Il lavoro della maternità consiste nel tollerare e colmare lo spazio che si è venuto a creare. Va inoltre sottolineato che la mancata coincidenza totale tra il bambino immaginato e neonato reale è quella che contribuisce a conferire al neonato carattere di realtà, distaccandolo in parte dal regno delle fantasie.
  • regressione in simbiosi: il lavoro della maternità consiste, come abbiamo visto, nel colmare uno spazio vuoto che vuol dire lasciarsi avvolgere dal neonato all’interno di un rapporto di tipo simbiotico, in cui sia possibile stabilire una fusione anche grazie ad una regressione della madre pilotata dal neonato.



L’integrazione e l’elaborazione di questi tre momenti permette di superare la crisi d’identità connessa alla maternità.

La nuova identità della donna-madre si svela nel corso di quel processo che induce i due membri della coppia simbiotica ad emergere dall’atmosfera regressiva propria della fusione simbiotica.

È necessario sottolineare l’importanza del fenomeno regressivo nella madre perché è quello che consente la simbiosi.

L’ambiente regressivo all’interno del quale una madre viene quasi risucchiata dal neonato, rappresenta un vero e proprio “stato psichiatrico molto particolare della madre” come lo definisce Winnicott, “una malattia normale” che prende il nome di “preoccupazione materna primaria”: è paragonabile ad uno stato di ritiro, ad uno stato di dissociazione.

La capacità di ammalarsi e di guarire da queste malattia conferisce alla donna le qualità di quella che Winnicott ha chiamato una “madre devota”: una madre cioè che deve essere temporaneamente in grado di preoccuparsi in maniera totale del proprio bambino, distogliendo per il tempo che è necessario la proprio attenzione dal mondo circostante.

La capacità di essere madre è –almeno inizialmente- saper regredire, un processo che coinvolge l’intera personalità della donna. La regressione materna sembra essere indotta dal neonato che si muove nella direzione di avvolgere la madre e di guidarla sui binari dell’identificazione della madre col bambino.

Identificazione e regressione sono meccanismi di difesa, pertanto nel processo d’identificazione della madre col neonato, ella fa propri determinati aspetti, proprietà, attributi del neonato fino a trasformarsi totalmente o parzialmente sul modello del neonato. Identificazione e regressione rispondono così all’esigenza sentita da ambedue i versanti della simbiosi di colmare il vuoto che il parto ha creato.

La simbiosi si configura come una condizione difensiva sia per il neonato sia per la madre: grazie ai meccanismi di difesa messi in atto viene in qualche modo sostenuto il senso di una continuità dell’essere, anche corporea, tra madre e neonato.

Nella fase di simbiosi la madre deve sviluppare nei confronti del neonato una “comprensione quasi magica” dei suoi bisogni. La capacità della madre di sviluppare un atteggiamento di reciprocità empatica è strettamente connessa alle modalità con cui è riuscita o meno a integrare le vicende relative ai tre momenti ricordati (perdita, disillusione, regressione in simbiosi).

In questo senso la reciprocità empatica incoraggia l’illusione di una continuità madre-neonato che è psicologica e corporea.

Anche Racamier ritieni che il “regime narcisistico e fusionale della gravidanza sia interrotto dalla nascita. Per la madre come per il bambino, questa separazione corporea è una rottura e un trauma”.

Per fortuna la separazione è solo parziale, dato che i contatti corporei tra madre e bambino sono immediatamente stretti e alimentati dal maternage. Per quanto riguarda il contatto “affettivo”, esso risulta ancora più intimo: “il bambino fa corpo con la madre, dalla quale non si distingue, e la madre, pur rimanendo capace di relazioni evolute, vive con il bambino secondo un regime di identificazione profonda e fusionale”.

Questa relazione detta “anaclitica” prolunga il regime narcisistico prenatale, smorzando così il “traumatismo” della nascita, per il bambino, ma anche per la madre, a condizione che la donna sia capace di entrare con il proprio bambino in quella relazione particolare in cui gli esseri, per quanto separati, restano comunque uniti e confusi.

Questo significa che la madre si identifica con il neonato, sentendolo psichicamente come parte di se stessa. E sempre a questa condizione la donna è capace di presentire i bisogni e gli stati d’animo del bambino, di sapere cosa vuole quando piange e di volerlo per lui, di svegliarsi subito al più piccolo gemito, ecc.

Si tratta di un processo normale di “regressione feconda”: regressione né patologica né patogena nella misura in cui sia consentita, assunta e controllata dall’io.

È in questo ambito che si colloca quella che Bion chiama “la capacità di reverie della madre”: un modo di entrare in sintonia col neonato attraverso aree diverse da quelle mentali.

La reverie rappresenta il processo attraverso il quale la madre può assumere dentro di sé proiezioni del neonato, elaborarle per poi restituirle al bambino.

Lo stato di reverie della madre è uno stato mentale di apertura verso sensazioni per lo più cariche di distruttività. Una buona facoltà di reverie della madre consente al neonato di proiettare una sensazione, come quella si stare per morire, rendendola tollerabile.

A questo proposito Volpi ipotizza che la “la reazione depressiva del post-partum, accompagnata dal sentimento di perdita (che la madre interpreta come di morire), sia indotta nella mamma dal neonato. Il quale, effettivamente, ha subito un cambiamento ben più vistoso di quello che ha riguardato la sua mamma”.


Il bambino della notte


Se il parto rappresenta il trionfo della maternità, il vissuto di lutto che si evidenzia, in diversa misura, in ogni puerperio, sarebbe incomprensibile e paradossale.

Inoltre la presenza di un sentimento di lutto rinvia sempre a un perdita che Silvia Vegetti Finzi attribuisce a quello che chiama “il bambino della notte”, vale a dire il bambino fantastico, il figlio interiore che ogni bambina ha scoperto in sé fin dalla prima infanzia.

Questa immagine corporea viene a collisione, al momento del parto, con il suo doppio, il bambino reale, il “figlio vero”. A contatto con la realtà, questa immagina si dissolve e parte del suo investimento affettivo passa sul figlio ma, per lo scarto inevitabile tra imago idealizzata e realtà fattuale, parte di quell’affetto si trasforma in lutto.

La nascita di un figlio dovrebbe costituire la realizzazione di una lunga attesa, la sconfitta delle angosce di sterilità e di inadeguatezza, la partecipazione al potere materno. Invece paradossalmente la sensazione di trionfo appare velata da un sentimento di perdita, che si comprende soltanto con la sparizione dell’antica imago filiale, appunto il “bambino della notte”.

La dissociazione tra bambino immaginario e bambino reale, tra fantasia e vita, fa si che il figlio nato non coincida mai completamente con quello atteso e che l’apparire del bambino del giorno comporti l’evanescenza del suo doppio notturno, con inevitabili effetti di malinconia che caratterizzano quella forma, seppur lieve, di depressione post-partum che si riscontra nelle puerpere. La Vegetti Finzi non si limita a delineare il percorso psicologico della gravidanza ma inserisce la maternità nel processo evolutivo femminile a partire dal primo legame con la madre.

Nel momento in cui la bambina compie il primo distacco dall’unità fusionale originaria, provoca nella madre un sentimento di lutto che sente come proprio.

Le due figure sono infatti congiunte da un’unità speculare. Pertanto il lutto dell’una diviene il lutto dell’altra. La bambina reagisce alla depressione incombente offrendo alla madre un figlio, cercando così di colmare le lacune provocate dal suo stesso allontanamento. Data la loro relazione speculare, questo dono si configura come l’immagine stessa della bambina, il suo doppio. Ma la madre non può accogliere una riparazione che il divieto dell’incesto proibisce. Il rifiuto del dono fa sì che la bambina si distacchi da lei nel segno delle privazioni.

Cercherà più tardi di ottenere un figlio dal padre ma, ancora una volta, la maternità fantastica si scontrerà col divieto dell’incesto. Queste immagini di generazione femminile colpite da una condanna sociale, non si faranno mai cultura.

Anzi, come rivelano i miti delle origini la cultura stessa nasce come negazione del potere generativo femminile. Una negazione che la scienza, al suo sorgere farà propria.

Pertanto la donna si avvia alla procreazione avendo smarrito la consapevolezza delle sue immagini e della sua potenza.

L’imago di figlio, precognizione del processo generativo che orienta le condotte istintuali, risulta nel suo caso rimossa nell’inconscio.

La donna trova così ad affrontare il rapporto tra la fantasia inconscia e la realtà senza la mediazione dell’Io, senza il confronto della comunicazione e della condivisione.

Di qui i vissuti di lutto che caratterizzano ogni esperienza di nascita ma che possono anche, nell’incuria generale, sfociare nelle psicosi maniaco depressive, con il terribile rischio dell’omicidio-suicidio che caratterizza le sue forme estreme.

La depressione colpisce anche i padri

Uno dei primi autori a prendere in considerazione le depressioni puerperali da un punto di vista psicodinamico fu Zilboorg (1928-1929), il quale si rifece alle interpretazioni freudiane più ortodosse. Secondo questo autore, la madre che nutre un fondamentale “complesso di castrazione” vede nel bambino “il valore di un organo maschile perduto”.

Zilboorg (1931) fu anche uno dei primi autori a descrivere forme depressive paterne, oltre che materne, dopo la nascita di un figlio, e le interpretò come riattivazioni di un attaccamento edipico incestuoso al genitore dell’altro sesso.

Anche Arieti ritiene che la nascita di un figlio scateni in entrambi i genitori, una forma depressiva in quanto vien a cadere l’equilibrio precedentemente raggiunto attraverso l’adozione di determinati modelli di vita.

Il bambino diventa, per la psiche vulnerabile e molto sensibile della madre, ma anche del padre, un intruso capace di rompere l’equilibrio precario e fragile della coppia. Il piccolo, con la sua presenza fisica, viene vissuto come una minaccia o come distruttore di un’illusione, più spesso in entrambi i modi.

Per quanto riguarda le depressioni che si verificano nei padri, Arieti le attribuisce al trauma infantile che si verifica alla nascita di un fratellino, alla sensazione, da parte del bambino di una perdita parziale o totale dell’amore materno. Questa remota esperienza sarebbe poi rivissuta al momento della nascita del proprio figlio, quando il padre interpreta il suo arrivo come quello di un usurpatore che gli ruberà l’amore della moglie.

A causa dei vissuti ostili che prova nei confronti del piccolo, il genitore non si sente degno d’amore, perde un’immagine narcisistica accettabile e va incontro ad una definizione negativa di sé difficilmente controllabile, in quanto prevalentemente inconscia e del tutto irrazionale.

Le depressioni che si verificano nelle madri dopo il parto sono più complesse, in quanto in esse si svolge un dramma intenso.

I personaggi di questo dramma sono generalmente quattro: la madre, il bambino, il marito e la madre della puerpera (quest’ultima ha molta importanza nella maggior parte dei casi).

Nei casi di depressione puerperale in giovani madri, analizzati da Arieti, egli ha riscontrati che la madre della paziente oltre ad essere un referente dominante, che la paziente doveva placare per ottenere una costante approvazione, era anche la persona con la quale si identificava, sebbene con riluttanza.

In altre parola, la puerpera si modellava sulla madre, non perché l’ammirasse, ma per poterne ottenere l’approvazione e l’amore. Quando poi nasce il bambino, l’identificazione sembra completa e irreversibile: la paziente si avvia ora ad essere una madre come è sua madre, lo stesso tipo di madre che sua madre è sempre stata. Ma la paziente non può accettare questo e allora essa rifiuta sua madre e di conseguenza una gran parte di sé, modellata sulla madre e una gran parte dei suoi rapporti con le altre persone, costituiti sugli atteggiamenti della madre, e naturalmente il suo rapporto col bambino che la conferma come madre. Nello stesso tempo essa prova dei sentimenti di colpa perché non può accettare l’idea di rifiutare il suo ruolo materno.


BIBLIOGRAFIA

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